9 dicembre forconi: 07/30/18

lunedì 30 luglio 2018

La chiesa condanna Salvini, ma con che faccia?


La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti.

E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista“, il “sorridente sui cadaveri color scuro“, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui Social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia.

Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.
Nel 2014 il Ministro delle Finanze Vaticane, Cardinale George Pell, disse che “… abbiamo scoperto centinaia di milioni di euro nascosti in conti dimenticati di cui non avevamo rendicontazione”. E questi sono solo gli spiccioli di Papa Bergoglio.
Secondo l’International Business Times, il Vaticano gestisce strumenti d’investimento per 6 miliardi di euro; ha 700 milioni investiti sulle Borse; tiene 20 milioni di dollari in oro alla Federal Reserve in USA.

Il gioielliere Bulgari a Londra paga l’affitto alla Chiesa di Roma in uno dei palazzi meglio prezzati del mondo a New Bond Street. L’investment bank Altium Capital idem, nella prestigiosa St James’s Square. Secondo il Consiglio d’Europa il merchant banker dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), Paolo Mennini, nel 2012 da solo gestiva 680 milioni di euro per i Cardinali, i quali solamente dallo IOR ricevono dividendi per 60 milioni annui.

I valori delle proprietà immobiliari usate per profitto commerciale e speculativo dalla Santa Sede sono impossibili da calcolare, ma ecco un’idea: il Sole24Ore ha stimato che la sola ‘agenzia immobiliare’ vaticana chiamata APSA, diretta fino al 2016 dal Cardinale Domenico Calcagno, gestisce 10 miliardi di euro in immobili commerciali (esclusi quindi chiese, canoniche, seminari ecc.) che, si ribadisce, è solo una vaga idea del totale in mano alla Santa Sede nel mondo.

Allora, è accettabile che le ‘belle anime’ cattoliche italiane, di cui l’innominabile Catto-Sinistra è pregna, si permettano di tuonare dalle pagine ad esempio di Famiglia Cristiana contro Salvini perché “ha mosso critiche al mondo cattolico che accoglie i migranti“? Accoglie i migranti? Ah, davvero? E come li accoglie? Con quanti denari concretamente sborsati fra i sopraccitati miliardi che tengono in speculazioni finanziarie e di Borsa? Può la Santa Sede mostrarci le cifre? In quanti immobili milionari che posseggono li hanno accolti, quanti sono stati allestiti per loro? Può la Santa Sede, che millanta di “accogliere“, fornirci le mappe? Ma con che inguardabile faccia questi ipocriti intimidiscono con l’abietta superstizione del senso di colpa il Salvini e i suoi elettori?

Allora, Papa Bergoglio, prima di condannare i peccatori, veda di mettere le gabbane dei suoi preti, i miliardi delle vostre speculazioni e le migliaia di proprietà dove stanno le vostre parole

E se proprio dovete sdoganare la politica leghista sulla tragedia dei migranti come politica criminale contro gli innocenti – che non è, perché al peggio è gretta insensibilità dettata da meschina ignoranza personale o da vere difficoltà economiche –  ecco chi davvero ha fatto in epoca contemporanea una politica criminale di massa contro gli innocenti, col crocifisso al collo: (da un mio articolo di 2 anni fa): “Nel 2012 persino JP Morgan ha dovuto prendere le distanze dallo IOR per sospetti di riciclaggio in armi. Vatileaks, scatenato da Gianluigi Nuzzi, già 3 anni fa rivelava il marciume criminale delle finanza vaticane. 

Mentre l’adorato Papa Francesco scalava in diligente silenzio i ranghi della Chiesa in Argentina, la P2 con lo IOR e Calvi erano i maggiori canali di forniture di missili Exocet proprio alla Giunta di Buenos Aires (30.000 morti), oltre ad armare criminali di massa e torturatori in Guatemala, Perù, Equador e Nicaragua. E scrive Vittorio Cotesta nel libro Global Society, Cosmopolitanism and Human Rights: “Uno dei maggiori obiettivi di questo network (IOR ecc. nda)… è di sostenere i golpisti che gli Stati Uniti e il Vaticano usano per schiacciare la Teologia della Liberazione”. Papa Francesco ne fu complice ideologico e, in due casi, anche fisico fino al 2013.”

Sono l’ultimo a sostenere Matteo Salvini in Italia, ma odio gli ipocriti. Creano molta più sofferenza dei razzisti, perché sono loro che al temine di epoche di disgustoso finto buonismo (vero PD?) tradiscono i popoli sui diritti fondamentali e li spingono all’aspetto più deteriore del Populismo, quello di rabbia cieca e poi infine anche disumana.

Paolo Barnard

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Cina: nuovo round di politica espansiva, sia fiscale sia monetaria


In vista della guerra commerciale con gli USA e per controbilanciare il rallentamento economico mondiale che pare porsi all’orizzonte la Cina si prepara dal punto di vista monetario e fiscale. Iniziamo con il programma fiscale .
Vediamo come a partire da marzo è stato tutto un susseguirsi di tagli fiscali molto sensibili:
  • taglio delle aliquote IVA di un punto;
  • ampliamento delle politiche di esenzione fiscale  per le aziende con l’area non tassabile che sale da 500 mila ad 1 milioni di yuan (125 mila euro) e defiscalizzazione investimenti in R&S da 1 a 5 milioni;
  • rivalutazione degli acquisti in R&D per ulteriori maggiori ammortamenti;
  • ampliamento del range delle società in completa esenzione fiscale;
  • alleggerimento del carico fiscale anche alle famiglie.
Una politica molto forte, che alla fine se ne infischia del problema del budget, dato che il deficit supera il 3,5 già adesso.
Come si dirà Cottarelli in cinese? Evidentemente non si dice proprio. L’espansione non è solo di carattere fiscale, ma anche di carattere monetario, come abbiamo già visto nei giorni scorsi, con la PBOC  ha abbassato i parametri prudenziali  verso alcune istituzioni finanziare dello 0,5%, per riuscire ad immettere più liquidità nel sistema. Questo sta portando ad un aumento dei titoli in generale, anche di quelli rischiosi (in Cina AA).
Quest’azione giunge quanto mai al momento giusto perchè il finanziamento del sistema privato e parallelo all’economia era ai minimi storici:
Quindi la Cina f politica espansiva, una vera politica Keynesiana anticiclica in previsione del rallentamento 2019-2020 e di una guerra commerciale che si annuncia accesa e viva. Un paese a partito unico capisce meglio l’economia di chi l’ha inventata, l’Europa. Noi, al contraria, ci siamo legati con assurdi piani di programmazione economica di lungo periodo quando, secondo Keynes, saremo tutti morti, ma così accelerando la nostra dipartita. Non si legge una certa ironia in tutto ciò?
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BTP: estero in fuga, banche italiane in acquisto

  
Molto spesso l’uomo della strada, l’ipotetico signor Rossi (inteso come il risparmiatore tradizionale italiano, con una cultura finanziaria non proprio eccellente) va in banca e, sentendo parlare di “diversificazione”, chiede di poter fare delle cose diverse dal solito BTP. Siccome non gli interessano tutti quei prodotti che non garantiscono il capitale (lasciamo perdere, quai si apre una voragine culturale che in questa sede non possiamo approfondire), preferisce restare su obbligazioni che hanno una scadenza e che quindi rendono, magari poco, ma danno una cedola e ad una certa data, restituiscono il capitale.
Non criminalizzate questo mio scritto, è infarcito di errori macroscopici e di credenze popolari ma, ancora oggi, resta un normalissimo comportamento del risparmiatore italiano.
Tornando al nostro amico, il signor Rossi, va quindi in banca e dopo aver dato uno sguardo a qualche giornale, decide di non rinnovare il suo BTP ma di orientarsi su quell’obbligazione bancaria che stanno pubblicizzando.
In questo modo si diversifica, si ha una cedola ed il capitale a scadenza.
Ecco, in questa sede voglio focalizzarmi sulla prima convinzione del signor Rossi.


DIVERSIFICARE
Ma è corretto dire che comprare un bond della banca XYZ diversifico? E’ corretto separare e considerare quasi scollegati il rischio emittente Italia ed il rischio emittente bancario?
Per natura, è ovvio che la risposta è NO. E’ normale che tra Stato e banche continui ad esserci un filo conduttore fortissimo.
Come è anche normale pensare che l’emissione di una piccola banca, può considerarsi più rischiosa di quella di una grossa banca, proprio per una logica di “too big to default”.
E allo stesso tempo però, diventa difficile poter pensare che se l’Italia dovesse subire un default o una ristrutturazione del debito, le banche italiane me rimarrebbero immuni.
Morale: c’è una forte correlazione tra la solidità dello Stato Italia e le banche. Anche perché poi, lo sapete benissimo, sono proprio banche ed assicurazioni le prime detentrici di obbligazioni governative italiche.
E ultimamente la situazione è ulteriormente peggiorata.
Eccovi cosa dice il FT.
(…) Foreign investors shed record volumes of Italian debt in May as a sharp sell-off hit the country’s bond market, according to data highlighting the challenges facing the new populist government in the coming months. (…) The country’s bond yields have settled back from the highs they hit at the peak of the sell-off in late May but remain elevated in comparison with pricing before the populist coalition came into government. (…) [Source] 
Se poi si va a vedere, maggio è stato il mese con il massimo livello di sell off di BTP.
Ma dove saranno finiti tutti questi titoli? Beh, visto che nulla si crea e nulla si distrugge (si fa per dire) questi titoli sono proprio finiti in pancia a…banche ed assicurazioni italiane.
(…) D’altro canto è anche vero che dal fronte degli investitori domestici c’è stato un chiaro intervento di sostegno in termini di maggiori acquisti. Lo certifica la stessa Bce le cui statistiche, rielaborate da Bank of America, dicono che a maggio banche, assicurazioni, fondi pensione e altri investitori istituzionali domestici hanno infatti aumentato di molto la loro esposizione sul debito sovrano.
Di quanto? Quasi 30 miliardi di euro (vedi grafico in testa all’articolo) stando alle statistiche sulle cosiddette monetary financial istitution , definizione che comprende le banche e altre società finanziarie con sede in Italia. (…) [Source] 
Quindi è sempre più forte il legame banche Stato. Un bene per certi versi, perché c’è un “buyer” importante che quindi cerca di stabilire prezzi e volatilità.
Un male per altri, visto che un’esposizione maggiore al rischio Italia non è certo un bene per il nostro sistema finanziario. Alla faccia della diversificazione.


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L’ATLETA ITALIANA DI ORIGINI AFRICANE DAISY OSAKUE E' STATA AGGREDITA DA UN LANCIO DI UOVA PROVENIENTI DA UN’AUTO IN CORSA

EUROPEI A RISCHIO, LA 22ENNE, CAMPIONESSA DI LANCIO DEL DISCO, ISCRITTA AI GIOVANI PD, SARA' OPERATA ALL’OCCHIO

Massimo Massenzio per www.corriere.it
Daisy OsakueDAISY OSAKUE
Stava tornando a casa assieme a un gruppo di amiche, a Moncalieri, nel torinese, ma in corso Roma é stata colpita al volto da un lancio di uova provenienti da un Fiat Doblò. Domenica sera, intorno all’1.30, Daisy Osakue studentessa di origine africana con la cittadinanza italiana è dovuta ricorrere alle cure del 118 successivamente è stata trasportata all’ospedale Oftalmico dove le é stata riscontrata una lesione alla cornea.

L’atleta, specialista nel lancio del disco, ha un occhio tumefatto e dovrà essere sottoposta a intervento per rimuovere frammenti di guscio d’uovo dall’occhio. Sarebbe in dubbio la sua partecipazione ai campionati europei ormai prossimi.
Daisy OsakueDAISY OSAKUE


Campionessa under 23 iscritta ai giovani del Pd
La giovane, 22 anni residente a Moncalieri, campionessa italiana under 23 di lancio del disco, rischia di non poter partecipare ai campionati europei di atletica a Berlino. Le prime verifiche dei carabinieri sembrerebbero escludere che l’azione sia riconducibile a un movente razziale. Daisy, che fa parte dei Giovani Democratici del Piemonte, era l’unica ragazza di colore del gruppetto e anche le sue amiche sono state colpite dal lancio di uova.

Un altro episodio simile settimana scorsa
Daisy OsakueDAISY OSAKUE
Inoltre un episodio simile si era già verificato la scorsa settimana in strada Genova, sempre a Moncalieri. Adesso i carabinieri stanno cercando di identificate i ragazzi che si trovavano a bordo del Doblò.

Il post di Mentana
«Salvini, Di Maio, ma come si fa a dire che non c’è un aumento allarmante di episodi di intolleranza nei confronti dei neri in questo paese? - scrive su Facebook Enrico Mentana commentando l’aggressione a Daisy - Non è che perché i partiti di opposizione stanno lì imbambolati a decidere cosa fare sul presidente della Rai potete pensare che dorma anche l’informazione. Gli episodi si accumulano. Stanotte un’atleta della nazionale italiana di atletica (ve lo sottolineo perché siete sovranisti), Daisy Osakue, di origine sudafricana, è stata aggredita a Moncalieri mentre rincasava da un gruppo di giovani. L’hanno colpita in piena faccia. È a rischio la sua partecipazione agli europei di Berlino. Cosa erano, sostenitori di altre nazionali? Anche se si sta al mare non si può nascondere la testa sotto la sabbia».

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Trump-Juncker: c’è l’accordo sui dazi. Cosa prevede

L’obiettivo - dice il Presidente USA - è arrivare a zero barriere commerciali. Intanto il vertice tra Trump e Juncker ha portato a un primo accordo sui dazi. Cosa prevede

Trump-Juncker: c'è l'accordo sui dazi. Cosa prevede

Si è concluso con un primo accordo sui dazi il vertice Trump-Juncker. Primo perché il Presidente USA, al termine dei negoziati di scena a Washington, ha insistito sulla natura dei colloqui e le relative intese parlando di un semplice preambolo verso l’obiettivo “zero barriere commerciali”.

Per il momento infatti Stati Uniti e Unione europea lavorano di concerto per rimuovere tutte le barriere commerciali e i sussidi sui beni industriali che non siano auto. I negoziati, apparsi del tutto preliminari, hanno comunque visto un clima di parziale accordo tra le due figure politiche, malgrado una vigilia in cui si parlava di tensione alle stelle e punti di vista agli antipodi.
Nuova fase rapporti USA-UE: tregua da guerra commerciale?

Il tycoon statunitense ha parlato di nuova fase dei rapporti tra Usa e Ue, dicendosi soddisfatto dei colloqui così come il capo della Commissione UE Jean-Claude Juncker, che ha ricordato ai giornalisti di essersi recato alla Casa Bianca per trovare un accordo ed è riuscito a farlo.

Sembra quindi sensato parlare di tregua, almeno per il momento, dopo che si era temuto per un vertice che potesse inasprire ulteriormente i tratti di una guerra commerciale che sta condizionato i mercati di tutto il mondo. Dalla Casa Bianca erano arrivate minacce per nuovi dazi alle auto UE fino al 25%, e c’era la concreta preoccupazione che da Washington fossero già pronti a schiacciare il bottone in caso di mancate soddisfazioni in arrivo dai negoziati.

Un primo scontro a distanza c’era già stato prima dell’incontro, quando il tycoon statunitense ha usato il suo social preferito, Twitter, per inquadrare i personalissimi obiettivi della giornata, ovvero un’eliminazione di tutte le tariffe tra USA e UE, per far sì che si abbiano “libero mercato e commercio equo”.

Contestualmente però Trump aveva già messo le mani avanti, dicendosi convinto che il blocco europeo non avrebbe mai aderito alla sua proposta. Da Bruxelles era arrivata puntuale la precisazione: nessun mandato per trattative o proposte. Un vero e proprio muro, che lasciava intravedere una giornata difficilissima in arrivo.

Ma i colloqui di ieri sera, durati molto più del previsto, hanno portato a un congelamento dei dazi sulle auto minacciati da Trump e a un impegno verso un lavoro condiviso verso il futuro, compreso il tentativo di riformare l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), più volte osteggiata da Trump.
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Alle origini della deflazione salariale

Crisi, immigrazione, sviluppo delle economie emergenti? 

No: i salari in Italia iniziano a peggiorare molto prima, checché ne dica il mainstream.

In Italia si parla spesso di flessibilità come necessità per mantenere competitività internazionale e di deflazione salariale come naturale conseguenza della globalizzazione. Guardando il grafico della quota dei salari sul PIL, si nota però come l’Italia sia al di sotto della media europea e degli altri tre paesi considerati (per la Germania sia è considerato fino al 1990 la Germania Ovest). In particolare se l’autunno caldo e le rivendicazioni sindacali degli anni ’70 avevano permesso una crescita del prodotto che va ai lavoratori dipendenti, da quel momento in poi il trend è decrescente, con una drastica caduta a inizio anni ’90, non più recuperata. È proprio dalla fine degli anni ’70 che iniziano ad essere emanate leggi e decreti volte a ridurre i diritti del lavoro e a flessibilizzare il mercato: riduzione del grado della scala mobile del 1977 e le tre disdette di Confindustria dell’accordo sulla scala mobile (1982, ’85, ’91), accordo sui tetti salariali dell’83, legge 223 del 1991 sui licenziamenti collettivi, abolizione della scala mobile nel 1992, accordi di moderazione salariale del 1993, il Pacchetto Treu del 1997, la Legge Biagi del 2003 e il Jobs Act del 2014.
111Da un punto di vista economico un aumento dei salari genera un aumento della domanda effettiva, dato che la propensione al consumo di chi vive di salario è maggiore di quella di chi vive di profitti o rendite. D’altra parte genera anche una riduzione della domanda, dovuta sia alla riduzione degli investimenti, causata da una riduzione dei profitti, sia alla riduzione della domanda estera, dato che l’aumento dei salari si riverserà sui prezzi. Quindi aumenti dei salari avranno effetti positivi o negativi a seconda del modello di accumulazione del paese: si distinguono paesi wage-led, in cui l’aumento dei consumi è maggiore della diminuzione di investimenti e esportazioni, e paesi profit-led, in cui l’aumento dei consumi non basta a pareggiare la diminuzione di investimenti e esportazioni. In un recente articolo Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo mostrano come l’Italia sia un paese wage-led, confermando le conclusioni di altri studi sulla natura dell’economia italiana e degli altri paesi europei (Naastepad and Storm, 2007; Hein and Vogel, 2008; Stockhammer et al., 2009; Onaran e Galanis, 2014; Obst and Onaran, 2016; Obst, Onaran, Nikolaidi, 2017). Queste conclusioni suggeriscono due cose: la prima è che contrarre i salari e flessibilizzare il mercato del lavoro non fa altro che rallentare la crescita, la seconda è che il modello di sviluppo mercantilista esportato dai tedeschi è parte del problema piuttosto che della soluzione. Un’area grande ed economicamente integrata come quella europea potrebbe vivere sulla propria domanda interna, invece si è scelto di puntare sulla competitività internazionale che, in presenza di moneta unica o comunque cambi fissi, si traduce in deflazione dei salari e delocalizzazioni nei paesi in via di sviluppo, soprattutto europei (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia). Volendo quindi ricercare le cause della diminuzione della quota dei salari in Italia, una non può che essere ricercata tra le basi su cui è stata fondata l’Unione Europea: mercantilismo, vincoli fiscali, libera circolazione di capitali.

Un’altra causa è spesso attribuita alla disoccupazione: all’aumentare di questa i salari diminuirebbero per poter permettere agli imprenditori e alle pubbliche amministrazioni di assumere più persone a parità di costi. Quest’interpretazione è sia priva di fondamento che pericolosa: una relazione tra tasso di disoccupazione e salari reali non è mai stata riscontrata da nessuno studio. L’idea che una riduzione dei salari porti ad un aumento dell’occupazione è uno degli assunti della teoria neoclassica, ossia liberista, per cui se non c’è piena occupazione è colpa di problemi strutturali e rigidità del mercato del lavoro che non permettono ai disoccupati di essere assorbiti. Tradotto in parole semplici: se esistono disoccupati involontari è perché gli occupati guadagnano troppo e qualcuno glielo permette. Invece la sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro ha sicuramente avuto un effetto sui salari: chi svolge un lavoro temporaneo, o in generale con un contratto atipico, guadagna meno di chi lavora a tempo indeterminato. Ma come fa notare Zenezini in Il problema salariale in Italia (2004), ciò non spiegherebbe la maggiore caduta della quota salari in Italia rispetto agli altri paesi europei, dato che in Italia il lavoro atipico non è più incisivo che nei vicini. Una delle cause su cui in moltissimi, da destra a sinistra, concordano è che la caduta dei salari sia dovuta alla caduta della produttività, secondo la teoria che il livello dei salari debba seguire questa. Osservando l’andamento della produttività del lavoro, si nota un rallentamento della crescita da metà anni 90 e successivamente una sostanziale stagnazione.
222Come però mostra Maurizio Donato in Fatica sprecata: produttività e salari in Europa (2013), i salari sono aumentati meno della produttività:Che non si tratti di un caso limitato all’Europa è confermato dall’ultimo rapporto dell’International Labour Organization secondo il quale solo in un numero ristretto di paesi (Danimarca, Francia, Finlandia, Regno Unito, Romania e Repubblica Ceca) l’aumento della produttività del lavoro si è riflesso in un aumento dei salari reali; nelle tre economie più importanti del pianeta: Stati Uniti d’America, Giappone e Germania, tra il 1999 e il 2007 la produttività del lavoro è cresciuta, ma i salari reali sono diminuiti, mentre per il resto dei paesi capitalisticamente sviluppati la correlazione non esiste o è molto debole.”

Sull’argomento bisogna specificare che esistono due grandi filoni di pensiero, riassunti da Cesaratto in Chi non rispetta le regole? (2018):

La prima tesi (che chiameremo strutturalista) ritiene che i problemi dell’Italia siano strutturali, dal lato dell’offerta: come l’inefficienza della pubblica amministrazione, scarsi investimenti in ricerca e istruzione, specializzazione in prodotti tradizionali e concorrenza dei paesi emergenti oltre a rigidità varie. La seconda tesi (quella keynesiana) ritiene, all’opposto, che l’andamento della produttività trovi una spiegazione dal lato della domanda. Secondo quest’ultima tesi, l’adesione a sistemi di cambi fissi avrebbe nuociuto alla competitività dei prodotti italiani contraendone il mercato. La perdita di competitività esterna si è riflessa in una maggiore difficoltà a finanziare il bilancio pubblico, facendo crescere il debito e aumentando l’onere per interessi, compensato con contrazioni della spesa e aumenti delle imposte, soprattutto dagli anni Novanta. Ciò ha comportato una stagnazione della domanda interna che si è aggiunta alla sofferenza della domanda estera.

Dunque due visioni che portano a posizioni sulle politiche economiche totalmente opposte: flessibilizzazione del mercato del lavoro da un lato, politiche espansive di supporto alla domanda dall’altro. Partendo dalla contabilità nazionale, per cui la crescita del PIL è uguale alla somma tra la crescita del lavoro utilizzato e la crescita della produttività, esiste una differenza fondamentale tra le due tesi: per i “strutturalisti” la crescita è determinata da forze di offerta e dunque la produttività è esogena rispetto alla produzione, mentre per la tesi “keynesiana” la crescita dipende dalla domanda effettiva (investimenti, consumi, esportazioni, spesa pubblica) e la produttività non è esogena ma è largamente endogena in quanto dipende dalla crescita del prodotto, che a sua volta è determinata da una crescita della domanda. Secondo questa tesi, appoggiata dalla Legge di Okun e dalla Legge di Kaldor-Verdoorn e da numerose verifiche empiriche (per citarne alcune: Targetti e Foti, 1997; Ofria, 2009; Millemaci e Ofria, 2014), la stagnazione della produttività inizia proprio negli anni in cui si fissa il tasso di cambio come preludio per l’euro, si iniziano ad avere avanzi primari e continua a peggiorare la distribuzione a sfavore dei salariati: tre fattori che hanno colpito la domanda. Stando a questo sembra che la caduta della quota salari negli anni ’90 sia stato il mezzo per salvaguardare la quota profitti dalla diminuzione della crescita della produttività, come si vede dai grafici sottostanti (quota profitti sul PIL e quota del reddito dell’1% e del 10% più ricchi sul reddito nazionale).
333444Ancora a supporto di questa tesi ci sono altri due paper, di cui uno del Fondo Monetario Internazionale e difficilmente accusabile di marxismo: After the crisis: Assessing the Damage in Italy (Morsy e Sgherri, 2010) e The role of labour-market changes in the slowdown of European productivity growth (Dew Becker e Gordon, 2008). In questi studi si attribuisce la causa della stagnazione della produttività in Italia all’applicazione dei principi dell’OCSE Jobs strategy (1994) e dell’Agenda di Lisbona (2000), secondo i quali la disoccupazione si deve risolvere con la deregolamentazione del mercato del lavoro. L’aumento dell’offerta di lavoro sottopagata, dovuto all’aumento della precarietà e al maggior numero di donne in cerca di lavoro e di immigrati, ha portato alla riduzione del costo del lavoro. Sarebbe proprio questo ad aver spinto le imprese ad evitare nuovi investimenti e a non puntare sull’innovazione tecnologica, dato che hanno potuto ridurre i costi tramite un’effettiva riduzione dei salari: laddove le riforme per flessibilizzare il mercato del lavoro sono state più forti, Italia e Spagna, la crescita della produttività è stata peggiore.

Quindi, per riassumere, perché in Italia la quota del prodotto che va ai lavoratori è inferiore rispetto agli altri paesi? Il livello dei salari è stata la valvola con cui l’Italia si è preparata all’adesione alla moneta unica e si è allineata alle politiche economiche degli altri paesi capitalistici avanzati (flessibilità, controllo dell’inflazione, vincoli fiscali, impossibilità di svalutare la moneta) senza dover andare ad intaccare la quota dei profitti. La produttività c’entra poco, dato che la distribuzione tra salari e profitti dipende dal mercato del lavoro e dalla contrattazione tra sindacati. Certo che se questa crescesse i sindacati dei lavoratori potrebbero avanzare maggiori richieste, che però verrebbero accolte solo se questi avessero maggiore forza e consenso: nulla viene regalato. Concordando con la tesi “keynesiana” sulla produttività, questa aumenterebbe con stimoli alla domanda, dunque investimenti pubblici e privati: i primi sono schiacciati da politiche restrittive, i secondi sono a livelli bassissimi sia perché la relazione per cui a maggiori profitti corrispondono più investimenti è estremamente semplificativa, sia perché buona parte dei profitti ormai viene investita in attività finanziarie, spesso all’estero, e non contribuisce quindi alla crescita dell’economia reale. Flessibilizzare il mercato del lavoro avrebbe effetti negativi sui salari, sulla domanda, sulla produttività (Koeniger, 2005; Pini, 2013; Morsy e Sgherri, 2010; Dew Becker e Gordon, 2008; Tridico, 2018) e non porterebbe ai tanto acclamati guadagni in termini di occupazione (Stirati, 2008; Brancaccio, 2016): è parte del problema piuttosto che della soluzione. Servirebbero piuttosto investimenti pubblici e privati, e questi incentivati non con defiscalizzazioni a caso sperando che generino più occupazione, ma con defiscalizzazioni mirate e soprattutto con controlli sui capitali, per evitare che chi guadagna in Italia porti i propri profitti all’estero. Politiche fiscali espansive e controlli sulla circolazione di capitali: due tra i peggiori nemici dell’Unione Europea.

Fonte: qui

GUERRA! A quella commerciale si risponde con la svalutazione competitiva


C’era da aspettarselo ma alla fine “carta canta” ed i risultati sono innegabili.
E’ sotto gli occhi di tutti la guerra commerciale che Donald Trump sta studiando in un “tutti contro tutti” che poi si rivelerà un boomerang anche nei suoi confronti.
Un “tutti contro tutti” che secondo il sottoscritto non arriverà mai, perché penso sia esageratamente stupido che gli stessi USA sottovalutino gli effetti che ne potrebbero derivare. Senza poi dimenticare che lo stesso Trump, fanfarone e spesso irritante, proprio stupido non è senza dimenticare che lo stesso è attorniato da molti ex uomini di Goldman Sachs, i quali conoscono molto bene le dinamiche economiche e finanziarie.
Quindi, continuo a pensare che nel momento in cui l’economia USA inizierà ad indebolirsi proprio per colpa dei dazi, il buon Trump chiederà ai potenti del mondo un meeting per trovare degli accordi e stabilire dei nuovi equilibri commerciali.
Intanto però il mondo, che non ha intenzione di subire supinamente le decisioni di Trump, quasi sottovoce, si sta muovendo con interventi che cercano di arginare i dazi commerciali.
Guardate ad esempio questo grafico
Lo Yuan, moneta cinese, sta avendo un comportamento che è la risposta alla guerra commerciale. Si chiama GUERRA VALUTARIA: signori, quanto ve ne ho parlato in passato, ed eccoci qui adesso, a parlare di svalutazione competitiva.
Un cross contro Dollaro USA che in poco più di due mesi ha portato alla svalutazione dello Yuan di oltre l’8%. Siamo quindi ad un passo da quota 10%.
Effetti sui mercati? Minimi.
Forse allora sta bene a tutti. Forse un po’ meno al bilancio della PBoC che ha in pancia una quantità di Treasuries USA come nessuno al mondo. Ma la Cina, si sa, ha le spall.e larghe, molto larghe

Il mito Macron è crollato

Consensi in picchiata per il presidente francese. L’imbarazzante caso Benalla. I tagli al welfare. La posizione ambigua in politica internazionale. Ecco perché l’icona dell’establishment europeo è solo un pallone sgonfio

A volte riescono e a volte no. I bluff sono così. Poteva dunque succedere ciò che sta in effetti succedendo, e cioè che il pallone Emanuel Macron sembri già floscio appena un anno dopo la trionfale elezione che lo proiettò all’Eliseo a soli 39 anni, il più giovane presidente francese di sempre.

Un anno fa Macron era l’uomo che avrebbe riscattato la Francia dai tristi anni di Hollande, salvato l’Europa dai tarli che la corrodono e dato pure una regolata al pianeta, rimettendo al posto loro i vari Le Pen, Trump, Putin, Orban, tutti quelli insomma che agli occhi delle persone dabbene paiono sgradevoli accidenti della storia. Oggi il tonfo di Macron è conclamato: solo il 34% dei francesi gli dà un voto positivo, e nel crollo il Presidente trascina con sé il premier Edouard Philippe, finito al 31%. Conclamato ma pure annunciato, il tonfo, visto che nell’agosto dell’anno scorso, allo scadere dei primi cento giorni di presidenza, Macron raccoglieva l’approvazione di un misero 36% degli elettori, peggio di Sarkozy e Hollande allo stesso punto del percorso presidenziale.

L’ultima perla è stata il “caso Benalla”, la truce storia dell’ufficiale della Gendarmeria che è sempre stato al fianco di Macron in tutti gli eventi ufficiali, compresa la sfilata per le strade di Parigi del pullman della nazionale vincitrice della Coppa del Mondo di calcio. Il primo maggio, il giovane (26 anni), aggressivo (è detto “Rambo” e “Cow boy”) ma già altolocato (è tenente colonnello, ha un appartamento di servizio in un quartiere di lusso e una macchina con autista, sirena e simboli della polizia cui pure non appartiene) Alexandre Benalla viene filmato mentre picchia selvaggiamente due manifestanti durante la sfilata del 1° maggio. All’Eliseo fanno di tutto per coprirlo ma Le Monde trova il video, lo fa girare e lo scandalo esplode.

I francesi si sono stufati di un gagà isterico, soprattutto perché il gagà in questione, tra una scena e l’altra, definisce «spese pazze» i costi del residuo Welfare, facendo presagire ulteriori tagli all’assistenza sociale. Oggi il tonfo di Macron è conclamato: solo il 34% dei francesi gli dà un voto positivo.

Non si sa se per arroganza o confusione, Macron tace a lungo, fischietta indifferente e infine fa lo spiritoso: «Alexandre Benalla non è il mio amante», dice, «e non ha i codici nucleari». Anche lasciando perdere le voci maligne sull’identità sessuale di Macron, che circolavano già prima dell’elezione, voi comprereste un’auto usata da uno così? Tutto preso dal proprio ego? Incapace della minima autocritica? Circondato fin dentro l’Eliseo da una strana cricca di body guard palestrati che sempre più spesso usurpano le funzioni degli uomini dei servizi di sicurezza? No, ovvio.

I francesi si sono stufati di un gagà isterico che un giorno rimprovera uno studente che lo chiama Manu durante un incontro pubblico e tre giorni dopo si fa fotografare tutto tronfio all’Eliseo con una compagnia di ballerini transgender. Soprattutto perché il gagà in questione, tra una scena e l’altra, definisce «spese pazze» i costi del residuo Welfare, facendo presagire ulteriori tagli all’assistenza sociale.

E con questo ci siamo avvicinati alle vere ragioni per cui c’è una logica nella crisi di Macron. L’ex enfant prodige e banchiere presso Rothschild, infatti, incarna a perfezione l’atteggiamento sposato dal centro-sinistra di tutto il mondo, che consiste nel vendere fumo mentre si porta via l’arrosto. Ti allungo l’orario, taglio il salario, riduco le garanzie, alzo l’età della pensione e il ticket medico ti costa di più, come da riforme del lavoro e del settore pubblico presentate nel marzo scorso? Sì, però puoi sposarti con chi vuoi, anche con un gatto siamese, puoi decidere come e quando morire e hai internet gratis, non sei contento?

A quanto pare c’è un sacco di gente che non è contenta e che prima di ogni altra cosa vorrebbe lavorare e vivere decentemente con la propria famiglia. E se i Macron d’Europa non hanno ancora capito che è proprio questo scambio impari (arrosto per fumo) a soffiare vento nelle vele dei partiti e movimenti che loro spregiano chiamandoli “populisti”, può voler dire solo due cose: che non capiscono niente, cosa impossibile; oppure che sono dove sono per rappresentare interessi che non coincidono con quelli della maggioranza dei cittadini. In altre parole, sono dei promotori della lotta di classe.
Tema immigrazione. Macron ha attuato una riforma che propone da un lato di ridurre i tempi per l’esame delle domande d’asilo (non a caso la Francia è ben sotto la quota media europea di richiedenti asilo riconosciuti e accolti) e dall’altro di allungare quelli per la detenzione amministrativa dei non aventi diritto prima dell’espulsione. Altro che Salvini

Citando poi l’Europa, arriviamo alla seconda ragione per cui Macron ha meritato questa crisi. Il giovanotto si riempie la bocca con le magnifiche sorti e progressive dell’Unione. Ma se le parole sono tutte per l’ideale europeista, le azioni sono invece improntate al più puro nazionalismo. Già nell’ottobre del 2017 si presentò al vertice dei campi di Stato e di Governo cercando in ogni modo di rallentare l’approvazione dell’accordo europeo di libero scambio con i Paesi dell’America meridionale, conveniente alla Ue ma non tanto alla Francia.

Poi ha cercato con ostinazione una “relazione speciale” con gli Usa di Donald Trump, alla faccia della compattezza Ue. A seguire: quando l’Arabia Saudita ha sequestrato per due settimane il premier libanese Hariri, Macron è intervenuto per invitare quest’ultimo a Parigi e così far uscire i sauditi dall’imbarazzo. A lui importa poco che i sauditi finanzino il terrorismo wahabita nel mondo, quindi anche in Europa. Lui li conosce bene perché, quand’era ministro delle Finanze e dell’Economia con Hollande, gli vendeva pacchi di armi e vuole continuare a farlo. Tanto, insieme con i sauditi, tra un predicozzo e l’altro sui diritti umani, lui fa la guerra nello Yemen, nota per il tiro alle scuole e ai mercati. Ancora: pasticcia in solitaria con la Libia, fregandosene altamente non solo delle legittime preoccupazioni italiane ma anche delle istituzioni internazionali. Che si vuole di più?
Per non parlare, poi, del tema immigrazione. Centri d’accoglienza in Europa ma non in 

Francia, ca va sans dire. L’Italia apra i porti che noi chiudiamo i confini, parbleau! Nessuna iniziativa in ambito europeo per far funzionare il sistema di accoglienza (per esempio, per convincere gli altri Paesi a prendersi la quota parte dei 160 mila migranti accolti da Grecia e soprattutto Italia), e in ambito nazionale una riforma (febbraio 2018) che propone da un lato di ridurre i tempi per l’esame delle domande d’asilo (non a caso la Francia è ben sotto la quota media europea di richiedenti asilo riconosciuti e accolti) e dall’altro di allungare quelli per la detenzione amministrativa dei non aventi diritto prima dell’espulsione. Altro che Salvini.

In poche parole, Macron è una bugia politica vivente. Ha fatto danni, ne farà altri. I francesi se ne sono accorti