9 dicembre forconi: 02/29/20

sabato 29 febbraio 2020

Scoperta la più grande esplosione dopo il Big Bang

Immagine composita della regione dell’esplosione. In rosa, il gas caldo diffuso rivelato da Xmm-Newton. In blu i dati radio ottenuti del radiotelescopio Gmrt. In bianco dati i nell’infrarosso della survey 2Mass. Il riquadro in basso a destra mostra un ingrandimento basato sui dati in X ottenuti con Chandra (anch’essi rappresentati in rosa), mentre punti luminosi sparsi nel resto dell’immagine riflettono la distribuzione di stelle e galassie in primo piano. Crediti: X-Ray: Nasa/Cxc/Naval Research Lab/Giacintucci, S.; Xmm: Esa/Xmm; Radio: Ncra/Tifr/Gmrtn; Infrared: 2Mass/Umass/Ipac-Caltech/Nasa/Nsf[/caption]

È avvenuta nell’ammasso dell’Ofiuco, a 390 milioni di anni luce dalla Terra. E ha rilasciato cinque volte più energia rispetto al precedente detentore del record, creando una cavità grande 15 volte la nostra galassia. A guidare la scoperta, in uscita su ApJ, è stata un’astrofisica italiana oggi al Naval Research Laboratory statunitense, Simona Giacintucci

È la più grande esplosione che sia mai avvenuta nell’universo dopo il Big Bang – per quanto ne sappiamo. E a scoprirla è stato un team di astronomi guidato da Simona Giacintucci, un’astrofisica italiana – laurea e dottorato a Bologna – oggi a Washington, negli Stati Uniti, in forze al Naval Research LaboratoryL’esplosione ha avuto origine da un buco nero supermassiccio al centro di una galassia a centinaia di milioni di anni luce di distanza, e ha rilasciato cinque volte più energia rispetto al precedente detentore del record.
Il botto da Guinness è stato rilevato nell’ammasso di Ofiuco, un enorme conglomerato cosmico a circa 390 milioni di anni luce da noi, formato da migliaia di galassie, gas caldo e materia oscura tenuti insieme dalla gravità. Al centro dell’ammasso c’è una grande galassia, contenente a sua volta un buco nero supermassiccio: i ricercatori pensano che la fonte dell’eruzione sia proprio questo buco nero, che si nutre attivamente del gas circostante, espellendo occasionalmente grandi quantità di materia ed energia a velocità relativistiche.
La scoperta è avvenuta analizzando i dati in banda X raccolti con i telescopi spaziali Chandra della Nasa e Xmm-Newton dell’Esa, e i dati radio del Murchison Widefield Array (Mwa), in Australia, e del Giant Metrewave Radio Telescope (Gmrt), in India.
Già osservazioni di Chandra del 2016, condotte da Norbert Werner e colleghi, avevano rivelato, per la prima volta, un indizio di questa immensa esplosione: un insolito “bordo curvo” nell’immagine X dell’ammasso. Presero in considerazione la possibilità che potesse trattarsi di una cavità nel gas caldo circostante, scavata dai getti provenienti dal buco nero supermassiccio. Ma alla fine abbandonarono l’ipotesi, anche perché sarebbe stata necessaria una quantità di energia enorme per dare luogo a una cavità così grande.
E invece, a quanto pare, era proprio così: un’esplosione talmente devastante da scavare una cavità nel plasma dell’ammasso – il gas incandescente che circonda il buco nero. Una dinamica simile a quella dell’eruzione del monte Sant’Elena del 1980, che strappò via la cima della montagna, dice Giacintucci. «La differenza è che, nel cratere prodotto da questa eruzione nel gas caldo dell’ammasso, ci si potrebbero far stare 15 galassie grandi come la Via Lattea una accanto all’altra».
Lo studio, in uscita su The Astrophysical Journal, riporta che il bordo curvo della cavità osservata in precedenza da Chandra è in seguito stato rilevato anche da Xmm-Newton, confermando così l’osservazione. Cruciali sono stati inoltre i nuovi dati radio del radiotelescopio Mwa, e quelli di archivio di Gmrt, per dimostrare che il bordo curvo, circondando una regione densa d’emissione radio, fa effettivamente parte della parete di una cavità. Emissione radio, spiegano gli autori, che proviene da elettroni accelerati – probabilmente dal buco nero supermassiccio – quasi alla velocità della luce. Fonte: qui
Per saperne di più:
Guarda il servizio video di MediaInaf Tv:

Spostando l’asteroide più in là

Un team del Mit ha delineato una mappa che permette di agire in tempo per scongiurare l'impatto di asteroidi sulla Terra, spostandoli dalla loro orbita prima che – imboccando la cosiddetta “serratura gravitazionale” – si indirizzino sulla via del non ritorno. Lo studio, pubblicato su Acta Astronautica, apre nuove prospettive nell'ambito della difesa planetaria

[caption id="attachment_16494" align="aligncenter" width="650"] La traiettoria di Apophis nel suo passaggio ravvicinato del 2029. Il trattino bianco indica l’incertezza sulla posizione del perigeo. Nasa[/caption]
Apopi, il dio-serpente che incarnava il male e il caos nel pantheon degli antichi egizi, ha dato il nome a un asteroide dalle dimensioni della Torre Eiffel che passerà vicino al nostro pianeta nel 2029.
Si chiama 99942 Apophis, ed è stato scoperto nell’ormai lontano 2004. Inizialmente scatenò il panico: il 13 aprile del 2029 avrebbe avuto il 2,7% di probabilità di impatto, e sette anni dopo, nel passaggio ravvicinato del 2036, questa probabilità sarebbe cresciuta notevolmente portando (forse) l’apocalisse al di fuori delle pagine bibliche.
Successive misure più precise hanno poi ridimensionato il pericolo. Nel 2029 Apophis passerà sì vicino alla Terra, ma a una distanza di 31.200 chilometri dalla nostra bella superficie planetaria. È meno dell’altitudine a cui orbitano i satelliti per le telecomunicazioni più lontani, ma è comunque abbastanza per dormire sonni tranquilli, almeno per i prossimi anni.
Sì, perché anche se l’ira del dio Apophis non si scatenerà su di noi, non è escluso che tra qualche anno il problema si ripresenti nuovamente in forma simile, o potenzialmente peggiore.
In una ricerca del Massachusetts Institute of Technology (Mit) pubblicata su Acta Astronautica si delineano alcune linee guida su quali strategie potrebbero essere più efficaci per deflettere un asteroide in arrivo. Queste strategie devono prendere in considerazione la massa e la velocità degli asteroidi, oltre al loro passaggio nelle prossimità di una cosiddetta gravitational keyhole (serratura gravitazionale), la regione in cui l’influenza gravitazionale del pianeta modifica l’orbita dell’asteroide indirizzandolo verso l’impatto nelle orbite successive. Un altro fattore da prendere in considerazione è ovviamente la tempistica con cui si viene a conoscenza dell’imminente impatto.
L’asteroide Apophis. Crediti: University of Hawaii’s Institute for Astronomy
I ricercatori hanno applicato il loro metodo proprio ad Apophis, ma anche a Bennu, l’asteroide obiettivo di Osiris-Rex, costruendo una sorta di mappa per decidere quale missione di difesa planetaria possa essere ottimale per questi due asteroidi.
«In genere, si considerano soprattutto le strategie per una deflessione all’ultimo minuto, quando l’asteroide è già passato nel keyhole e si trova in rotta di collisione con la Terra», dice Sung Wook Paek, il primo autore dello studio. «Io sono interessato a prevenire un passaggio nel keyhole ben prima dell’impatto con la Terra.»
Le strategie per la deflessione di asteroidi nello spazio includono la più classica – e controversa – detonazione nucleare e l’utilizzo di impattori cinetici. Questi ultimi sono sonde o missili che possono modificare l’orbita dell’asteroide semplicemente colpendolo, così come fanno le palle da biliardo durante uno scontro. Per essere efficaci occorre però selezionare opportunamente la velocità, il luogo di impatto e la composizione dell’impattore, e per farlo è richiesto conoscere il più precisamente possibile le caratteristiche dell’asteroide e della sua orbita.
Per questa ragione, nelle missioni considerate nel lavoro del Mit i lanci da terra devono essere due: una prima sonda ha il compito di misurare da vicino le caratteristiche dell’asteroide così da massimizzare la possibilità di successo dell’impattore, lanciato in un secondo momento. In un altro scenario le sonde del primo lancio possono essere due: la prima misura le caratteristiche dell’asteroide mentre la seconda lo colpisce spostandolo leggermente dalla sua traiettoria.
Quest’ultimo caso, per esempio, è quello che potrebbe essere adottato nel caso in cui un asteroide come Apophis rischi di passare nel suo keyhole a cinque anni dalla scoperta. Se il passaggio avviene tra i due e i cinque anni, ci sarebbe il tempo solo per una prima sonda prima del lancio dell’impattore. Se il passaggio nel keyhole dovesse avvenire entro un anno dalla scoperta dell’asteroide, potrebbe essere invece troppo tardi per intervenire con questa modalità e bisogna ideare un altro modo per affrontare il problema.
Il tema della difesa planetaria dall’impatto di asteroidi non ammette miopia: quando verrà il momento dovremo essere preparati.
Fonte: qui

Un lampo straordinario da una stella quasi spenta

Visto da astrofisici italiani con telescopio europeo XMM-Newton

Ansa - Un lampo molto potente, dieci volte superiore a quelli di cui e' capace il Sole, e' stato emesso da una stella quasi spenta, dalla massa appena sufficiente a innescare le reazioni nucleari che la tengono accesa. La scoperta e' pubblicata sulla rivista Astronomy & Astrophysics dai ricercatori dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) ed e' stata possibile grazie al telescopio spaziale XMM-Newton dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa).

La stella, che ha una massa inferiore a un decimo di quella del Sole, si chiama J0331-27 ed e' una nana bruna. Ha stupito perche' da stelle simili ci si aspetterebbe un'attivita' ridotta, mentre ha prodotto un brillamento, un cosiddetto flare, cioe' un'esplosione di raggi X molto intensa.
Le dimensioni di una nana bruna rispetto a quelle di Giove e del Sole (fonte: Nasa/Jpl-Caltech/Ucb)

"Il processo permette di liberare gran parte dell'energia immagazzinata nella stella. L'ipotesi - rilevano - e' che queste stelle di taglia piccola impieghino un tempo maggiore rispetto a una stella più grande per accumulare energia, per poi liberarla, pero', improvvisamente con un brillamento di grande entità".

L'intensa esplosione di energia e' stata individuata analizzando un catalogo di circa 400.000 sorgenti di raggi X di XMM-Newton. Per Andrea De Luca, dell'Inaf di Milano, tra gli autori della ricerca, "c'e' ancora molto da scoprire negli archivi del telescopio europeo. In un certo senso - conclude - credo che questa sia la punta dell'iceberg".