HA COSI’ L’ALIBI PER CONTINUARE AD ACQUISTARE TITOLI PUBBLICI (SOPRATTUTTO ITALIANI)
E LANCIA UN ALLARME SUI DAZI AMERICANI
Alessandro Barbera per La Stampa
Mario Draghi non nasconde la delusione, e nel farlo ci mette un po’ di calcolo. Parla di segnali negativi in gran parte «congiunturali», ma in alcuni casi «inaspettati» o «sorprendenti». I primi sono arrivati dalla produzione industriale di Germania, Francia e Italia. Oggi a confermare il rallentamento della crescita nell’area euro nel primo trimestre dell’anno sarà probabilmente lo stop del Pil francese: dal +0,7-0,8 per cento degli ultimi tre mesi dell’anno scorso dovrebbe scendere – così stima Oxford Economics – a meno della metà.
Se a inizio marzo sembrava tutto pronto per annunciare la fine della politica monetaria ultraespansiva nella riunione del consiglio dei governatori di metà giugno, ora le voci che circolano nel palazzo di vetro di Francoforte parlano di un rinvio alla riunione di fine luglio, l’ultima dell’estate. Fra i diciannove banchieri centrali della moneta unica si discute di una proroga di tre mesi del piano straordinario di acquisti in scadenza a settembre.
Ormai da tempo – lo ha fatto anche ieri – Draghi insiste nel dire che la gestione della politica monetaria europea deve essere ispirata alla regola delle tre p: «prudenza, pazienza, persistenza». Se la crescita rallenta, l’inflazione fatica a salire, e addio al target del due per cento.
Che un aumento dell’inflazione (l’unico mandato statutario della Bce) ad un livello prossimo al due per cento sia ormai una chimera lo dicono anche i dati elaborati dagli economisti Bce. E Draghi ha parlato di una crescita comunque «solida» (l’area della moneta unica viaggia al ritmo del 2,4 per cento). Il problema è che il governatore italiano della Bce ci terrebbe a passare alla storia come uno dalla «mano ferma».
L’obiettivo è evitare l’errore di alcuni ex colleghi – da Jean Claude Trichet e Ben Bernanke – alzando i tassi o annunciando il loro rialzo nel momento sbagliato. Ecco perché Draghi ha tutto l’interesse a stressare i segnali negativi sulla crescita: dentro al consiglio ci sono sempre più Paesi (i nordici anzitutto) favorevoli allo stop al denaro a costo zero. Per l’Italia – gravata da un costoso debito pubblico – potrebbe diventare un serio problema.
Pochi giorni fa una battuta dell’austriaco Ewald Nowotny a proposito di un possibile aumento dei tassi nei primi mesi del 2019 ha fatto schizzare l’euro all’insù e costretto Francoforte a derubricare le sue come opinioni personali. Il calo del Pil europeo nel primo trimestre è un ottimo argomento a sostegno di un rinvio delle decisioni sulla fine del piano di acquisti, e dunque dell’aumento dei tassi.
«La prima cosa che dobbiamo fare è posizionare quel che è successo nel contesto adeguato», capire se il rallentamento sia «temporaneo o permanente, se sia più una questione di offerta o di domanda». Come si temeva, a complicare i piani in Europa stanno contribuendo la decisione di Trump di introdurre dazi, che «può produrre un profondo e rapido effetto sulla fiducia delle imprese» e l’aumento dei rendimenti dei titoli pubblici americani fino al tre per cento.
Draghi paventa persino «la reazione a qualsiasi restringimento non desiderato o non accettabile delle condizioni finanziarie che possa impattare sui prezzi». E usa un po’ di artifici retorici per allontanare una decisione che diventerà presto ineludibile, ovvero la fine del Quantitative easing. La pacchia sta finendo, e – dice il governatore italiano – i Paesi ad alto debito dovrebbero nel frattempo mettere fieno in cascina per prepararsi ad un’eventuale recessione. Nei palazzi della politica si parla solo di come non perdere voti in caso di ritorno alle urne.
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