9 dicembre forconi: 08/02/18

giovedì 2 agosto 2018

A BERGAMO UN GRUPPO DI NOMADI INVADE IL PRONTO SOCCORSO E PRENDE A PUGNI UN INFERMIERE

I ROM SI SONO PRESENTATI IN OSPEDALE CON UNA BAMBINA FERITA LIEVEMENTE A UN DITO PRETENDENDO DI SALTARE I PAZIENTI IN ATTESA...

Franco Grilli per il Giornale

pronto soccorso ospedale bergamoPRONTO SOCCORSO OSPEDALE BERGAMO
Un nutrito gruppo di rom si è presentato al pronto soccorso dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo, prendendo a pugni un malcapitato infermiere.

I nomadi, come spiega L’Eco di Bergamo, si erano recati nella struttura ospedaliere per accompagnare una bambina della loro famiglia, ferita lievemente a un dito.

Qui sono stati rassicurati dal personale sanitario, che ha constatato come la situazione non fosse certo grave, invitando il gruppetto a mettersi in attesa per la visita.

E a questo punto che i rom hanno dato in escandescenze, intimando ai medici di curare immediatamente la piccola: insomma, non volevano fare la fila come tutti. Dalle parole si è passati ai fatti, soprattutto quando il gruppo di nomadi si è arricchito di amici e parenti convocati telefonicamente a dar manforte.

E così si è formato un capannello di circa trenta rom che hanno, infine, malmenato un povero infermiere di turno, che si è preso un pugno in faccia.
gruppo rom ospedale bergamoGRUPPO ROM OSPEDALE BERGAMO

Durissima la denuncia di Carlo Nicora, direttore generale del Papa Giovanni, che parla di "episodi gravissimi, che vanno duramente condannati perché mettono in pericolo i nostri operatori e minano l'incolumità degli stessi pazienti", aggiungendo un giro di vite sulla sicurezza"Alla luce dei fatti acquista sempre più importanza il percorso di progressivo rafforzamento delle misure di sicurezza che stiamo sviluppando in tutta l’azienda e in particolare in pronto soccorso, che ha già portato all’introduzione di pulsanti antipanico e di un sistema di videosorveglianza, a cui si aggiungono le guardie giurate armate presenti in ospedale notte e giorno".
Fonte: qui

UN IMMIGRATO DEL BURKINA FASO È ANDATO FUORI DI TESTA IN PROVINCIA DI PORDENONE

HA PICCHIATO L’AUTISTA DI UN AUTOBUS E POI HA ACCOLTELLATO UN CARABINIERE. ERA GIÀ STATO CONDANNATO A GIUGNO PER GLI STESSI REATI 

ANCHE IL SINDACO DEL PD VUOLE L'ESPULSIONE, MA NON SI PUÒ, PERCHÉ…

Mirko Molteni per “Libero Quotidiano”
 
Chissà che diavolo è passato per la testa a un immigrato africano, cittadino del Burkina Faso di 28 anni, che ieri, per la seconda volta in pochi mesi, si è dato a una violenza cieca e folle ad Azzano Decimo, centro friulano di 15.000 abitanti alle porte di Pordenone. Forse non si sentiva «accolto» dal nostro Paese nella misura in cui lui pretendeva.

Fatto sta che l' africano, disoccupato, e con la fedina penale già insozzata da un patteggiamento a nove mesi di reclusione dopo un processo per lesioni tenutosi lo scorso 28 giugno, ieri mattina ha di nuovo ringraziato il nostro Paese a modo suo. Verso le 10.30 si trovava in piazza Garibaldi, nella frazione Tiezzo di Azzano, quando ha visto arrivare l' autobus.

MARCO PUTTO SINDACO AZZANO DECIMO 1MARCO PUTTO SINDACO AZZANO DECIMO 
Appena il mezzo si è fermato, l' africano ha iniziato senza motivo a tempestare di calci e pugni le fiancate del veicolo. L' autista, dapprima lo ha ripreso, poi ha cercato di intervenire, ma l' immigrato si è scagliato contro di lui cominciando a picchiarlo selvaggiamente.

Sono però arrivati a bloccare l' africano vari carabinieri su due auto distinte, una della locale stazione e una del Nucleo radiomobile, più un' auto della Polizia locale.

Il burkinese è parso calmarsi ma quando i carabinieri si sono avvicinati, li ha sorpresi svelando un coltello da cucina.

Con l' arma bianca ha colpito al costato un brigadiere, in modo per fortuna non grave, poi gli altri militi lo hanno soverchiato nella colluttazione. Mentre il loro collega veniva portato in ospedale, i carabinieri arrestavano l' immigrato per lesioni aggravate, violenza e resistenza a pubblico ufficiale.
Circa gli stessi reati per i quali già a giugno era stato fermato una prima volta, salvo essere liberato dopo il patteggiamento.

Il grottesco è che la comunità azzanese si aspettava che questo elemento, famigerato in paese, venisse almeno espulso al più presto, ma tanto non era ancora avvenuto, forse perché lo status di «regolare a tempo illimitato per ricongiungimento famigliare» rende più difficile dargli il foglio di via.

A caldeggiare l' espulsione c' è in prima fila lo stesso sindaco di Azzano Decimo, l' esponente di centrosinistra Marco Putto: «Espulsioni immediate per chi è ospite del nostro Paese e, anziché cercare di integrarsi, delinque».

carabinieriCARABINIERI
A Battipaglia (Salerno) invece, un nigeriano con regolare permesso di soggiorno è stato arrestato dalla Polizia con l' accusa di violenza sessuale. Ha molestato una ragazzina di 13 anni, lungo una strada. A difenderla il cuginetto di 12 che era con lei al momento dell' aggressione.

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DEPOSITATE LE MOTIVAZIONI DELLA CONDANNA DELL’EX SINDACO DI ROMA PER LE CENE PAGATE CON LA CARTA DI CREDITO DEL COMUNE: I GIUDICI NON CREDONO CHE SI SIA TRATTATO DI DISORDINE, MA DI UNA STRATEGIA

QUELLE CENE FACEVANO PARTE DI UNA POLITICA DI PUBBLICHE RELAZIONI A VANTAGGIO DEL CHIRURGO…


Il disordine metodico, quasi scientifico, nella contabilità dell' ex sindaco Ignazio Marino, quel disordine che ha impedito di ricostruire in modo convincente la finalità istituzionale delle sue cene, era propedeutico a un uso strumentale della carta di credito capitolina.

I giudici non credono a un Marino naif, assorbito da impegni troppo alti per misurarsi con i problemi della contabilità.

L' intraprendenza dell' ex sindaco e la subalternità dei dipendenti del cerimoniale (che avrebbero dovuto controllare le spese ma non lo fecero) portarono a un abuso della carta di credito, utilizzata come il benefit che in realtà non era.

Questo per un totale di circa 12mila euro spese in cinquantasei cene, teoricamente di rappresentanza. In realtà secondo il presidente della terza sezione penale della corte d'appello, Raffaele Montaldi, quei convivi furono l'estensione, ai tempi di un incarico istituzionale, di un' accorta politica di pubbliche relazioni a vantaggio del chirurgo.

«E che si sia effettivamente trattato di una metodica strumentale all' arbitrario e incontrollabile utilizzo personale della carta di credito comunale, del resto, è anche desumibile dal fatto che elementi specificativi e integrativi circa l' addotta finalità pubblicistica delle spese non sono risultati ricavabili neanche dall' agenda elettronica istituzionale del sindaco» scrivono i giudici.
maria elena boschi ignazio marinoMARIA ELENA BOSCHI IGNAZIO MARINO

L' inchiesta dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria avevano evidenziato diverse incongruenze nella massa di giustificativi addotti da Marino per motivare cene e pranzi. I giudici sottolineano la serialità dei comportamenti poco accorti: «La sistematicità delle incontrollabili e soltanto apparenti giustificazioni addotte dal Marino nella quasi totalità dei casi porta a concludere con ogni ragionevolezza» che non si è trattato di iniziale disorientamento.
 
Bensì di strategia. In questo senso il giudice del secondo grado la pensa diversamente dal gup che, in un primo grado, lo aveva assolto. «Lungi dall' essersi trattato, come ha invece ritenuto il primo giudice, di accidentali errori, discrasie o imprecisioni riconducibili ad un sistema organizzativo improntato, quanto meno inizialmente, ad una certa approssimazione e superficialità», Marino ha pianificato il suo comportamento.

«Inimmaginabile sul piano logico esperienziale, neanche in via di astratta ipotesi argomentativa, che un professionista politico di così consolidata esperienza di primario livello nei più vari settori socioeconomici e culturali possa aver realmente curato l' essenziale aspetto della gestione delle proprie relazioni interpersonali con modalità talmente improvvisate ed estemporanee, quasi che egli "raccattasse" occasionalmente i suoi commensali per la strada, negli uffici capitolini o nei più svariati consessi in cui di volta in volta presenziava».

MARINOMARINO
Al contrario «si è trattato in realtà di una vera e propria metodica strumentale di compilazione dei giustificativi appositamente utilizzata, grazie alla ben scarsa incidenza dei controlli interni». A questo punto bisognerà capire cosa ne sarà del capitolo erariale.

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La verità scomoda sul Pil Usa da record

Si è parlato molto della crescita del Pil negli Stati Uniti. Tuttavia l'economia americana non gode di buona salute come si vuol fare pensare.
Lapresse

Lapresse
I mercati sono come le medaglie, hanno due facce. Una visibile, mediatica. E una nascosta sotto il pelo dell'acqua, come gli iceberg più pericolosi. La prima è caratterizzata, in quest'epoca di comunicazione social e schiava dei trend topic e degli hashtag, dagli indici di Borsa e dallo spread, ad esempio. La Borsa sale, va tutto bene. La Borsa scende: la Borsa non scende, mai. Salvo casi episodici e sempre più sporadici. È questa la grande novità introdotta del nuovo regime finanziaria post-2008, quello che vede le Banche centrali al timone dei mercati: non esistono più le brutte notizie, tutto sembra sistemato. 
Certo, lo spread ogni tanto assesta qualche scossone, fa paura per qualche giorno salendo sul primo gradino del podio televisivo, ma tutta roba che passa con un governo fatto in fretta e furia o con un Mario Draghi che compra e rassicura. Sott'acqua, però, le cose vanno diversamente. L'importante è che non si sappia. D'altronde, l'intera narrativa della "ripresa globale sostenibile e sincronizzata" è stata ben congegnata, almeno nell'ultimo periodo. E occorre fare in molti casi mea culpa, supportata com'è stata con entusiasmo acritico e degno di miglior causa dalla gran parte dei media. 
Prendete il dato del Pil statunitense pubblicato venerdì scorso, quel +4,1% che ha fatto gridare tutti al miracolo e procurato certamente una lesione al tunnel carpale dal twittatore seriale della Casa Bianca: un dato del genere non si vedeva da quattro anni. Quasi cinese, se lo paragoniamo agli anemici livelli di crescita dell'eurozona, quel 2,3% atteso per il 2018 che ha meritato l'inglorioso paragone di prima pagina de IlSole24Ore di sabato scorso. Eppure, c'è un problema. Anzi, due. Soprattutto, come accaduto l'altro giorno a Washington, il nostro primo ministro decide sua sponte di diventare non solo "il miglior amico" degli Usa in Europa, ma anche il grimaldello di Washington per sfasciare dall'interno la stessa e. E non per amore dei popoli, nel nome del sovranismo o in ossequio alla lotta contro le élites, bensì per mero interesse commerciale ed energetico, visto che l'Ue è il primo mercato al mondo e che la "proposta indecente" di Trump sulla Libia rischia di nascondere una clamorosa fregatura per il nostro Paese, tale da far chiedere ai meno idealisti a quale gioco stia giocando davvero Giuseppe Conte, in base a quale agenda e procura di chi. 
E che quanto deciso a Washington nel vertice dell'altro giorno, in quattro e quattr'otto, rischi di avere ripercussioni strutturali per il nostro Paese non lo dice il sottoscritto, un signor nessuno, ma nel suo articolo di ieri uno dei pochi giornalisti italiani che non leggere equivale a compiere peccato mortale, Alberto Negri. Ecco le sue parole: «Visto che gli Usa vogliono vendere il loro gas liquefatto in Europa non si capisce bene che se ne fanno di quello della Libia, dove tra l'altro l'Eni fornisce l'80% dell'energia elettrica del Paese, se non per mettere una "fiche" geopolitica sul tavolo nordafricano. Tutto questo per ottenere l'appoggio americano alla conferenza in Italia sulla Libia? In poche parole, l'aiuto Usa andrebbe a pesare sulla nostra bolletta del gas. L'impressione, dalla cabina di regia, è che gli Usa tentino di darci un'altra fregatura, anche questa con il bollino blu». 
Ma torniamo ai due problemi. Primo, il nucleo forte di quel dato arriva da un aumento una tantum dell'export Usa, +80% su base annua, non frazioni. Di fatto, l'anticipazione dei timori legati alle politiche protezionistiche legati a dazi e tariffe. Bastino due dati. Primo, a fare la parte del leone nelle esportazioni sono stati cibo e bevande, con un balzo tale da permettere all'export di passare dal 5,3% al 9,3% del Pil: insomma, solo sottraendo quella voce una tantum che la retorica trumpiana (e anche di certa stampa sovranista e non) vorrebbe invece miracolosamente strutturale, il 4,1% di venerdì sarebbe già sceso al 3,6%, stando a calcoli di Paul Ashworth, capo economista per gli Usa a Capital Economics. 
Secondo, a trainare quel rialzo nel comparto alimentare è stata la soia, principale vittima degli annunciati contro-dazi cinesi e del conseguente spostamento degli acquisti di Pechino verso il Messico, il cui export è cresciuto del 26% su base annua: e, casualmente, commodity chiave dell'accordo raggiunto fra Trump e Juncker nel loro incontro della scorsa settimana, insieme al costosissimo (non fosse altro per il trasporto via mare) gas naturale liquefatto (Lng), diretto concorrente di quello russo che dovrebbe arrivare in Germania via Nord Stream 2 a prezzo molto più conveniente (ma molto alto a livello politico). Insomma, si sta capitalizzando dal futuro e dalla paura, il che significa che molto facilmente si pagherà dazio a questo anticipo nella seconda metà dell'anno. Giova ricordare in tal senso che nel quarto trimestre del 2011, l'economia Usa crebbe del 4,6%, salvo poi vedere il dato del Pil ridimensionarsi a un più normale +1,6% di media per i cinque trimestri successivi. 
E poi c'è il secondo problema, plasticamente rappresentato da questo grafico: ovvero, il fatto che per quest'anno l'economia Usa, al netto dei rialzi dei tassi della Fed, è ancora sotto pesante doping da politiche statali e federali di stimolo. Le quali, però già l'anno prossimo andranno in netta contrazione, in contemporanea con un Budget tutto deficit e la contemporanea e conseguente necessità della Fed di emettere più debito per finanziarlo e dal 2020 cominceranno a presentare il conto. 
 
Esattamente come l'anticipo sul Pil garantito dai timori per una guerra commerciale. Questi grafici, d'altronde, parlano chiaro: è davvero un'economia che scoppia di salute quella che, al netto di quegli stimoli e delle condizioni di finanziamento da credito al consumo che hanno riportato in auge e in grande stile la clientela subprime e la sua cartolarizzazione di massa, ha paura a cambiare l'automobile e ad accendere un mutuo per comprare casa, stante i tassi sì in rialzo, ma con quelli reali ancora ben al di sotto della normalità? Inoltre, la Cina sta picchiando duro anche altrove, visto che è divenuta venditrice netta di proprietà immobiliari ad uso commerciale negli Usa, una dinamica che, se protratta ed esacerbata, potrebbe portare all'accelerazione dello scoppio della bolla già presente in molte metropoli statunitensi, il cui settore real estate è già sotto pressione per il calo delle richieste di mutui. 
 
E vi assicuro che sotto il pelo dell'acqua c'è dell'altro in America. Ci sono gli iceberg davvero grossi. Quelli stile Titanic, per capirci. E ce lo mostrano questi due grafici, ovvero il cadeau a sorpresa con cui Vladimir Putin si è presentato all'incontro di Helsinki con Donald Trump: una bella ricevuta di avvenuta vendita, nel mese di maggio, di 40 miliardi di dollari di controvalore di titoli di Stato Usa (Treasuries), scesi da 48,7 a 9 miliardi di dollari. Un bel -82%, dopo che in aprile il totale di detenzione era già sceso dai 96 miliardi di marzo a 48,7 miliardi, il dato minore dal 2008 e un bell'ordine di vendita di 47,4 miliardi anche allora. 
 
E il secondo grafico ci mostra come, contestualmente, quella mossa sia stata il driver dell'impennata del rendimento della carta Usa a dieci anni, passata dal 2,7% di inizio aprile al 3,11% di fine maggio, il massimo da sette anni. Diversificazione delle riserve? Forse, almeno così si è "discolpato" Vladimir Putin venerdì scorso. O magari, segnale politico. E se questo fosse il caso, potrebbe non essere stato deciso interamente da Mosca, ma magari "suggerito" da Pechino, in vista della piega che avrebbe preso proprio la guerra commerciale. 
Insomma, un messaggio per mostrare l'effetto che farebbe se, un giorno magari non troppo lontano, la Cina decidesse che è giunta l'ora di usare l'opzione nucleare sul debito, scaricando sul mercato gran parte di quello Usa che ancora detiene. E parliamo di 1,3 trilioni di dollari, non dell'argent de poche del Cremlino. 

Fonte: qui

I VIAGGI DELLA SOIA

Guerra dei dazi o guerra alla Cina?

Quando Trump nelle scorse settimane ha alzato i dazi su 34 miliardi di controvalore di prodotti cinesi, la Cina ha risposto alzando i dazi su alcuni prodotti americani molto mirati, tra cui la soia. I cinesi sono grandi consumatori di soia e non riescono a produrla tutta in casa. La differenza, fino al mese scorso, veniva in gran parte dagli Stati Uniti e, in particolare, da quel Midwest conservatore che sarà decisivo nel 2020 se Trump vorrà essere rieletto alla Casa Bianca.


Se Trump, dopo il probabile passaggio della camera bassa ai democratici in novembre, sarà stato nel frattempo oggetto di impeachment, a presentarsi alle presidenziali del 2020 come incumbent repubblicano ci sarà Mike Pence, che fino a due anni fa era stato l’apprezzato governatore dell’Indiana.
L’Indiana, a parte il suo angolino nordoccidentale che è la periferia povera e industriale di Chicago, è uno stato di agricoltori seri e devoti dove tutti sono ospitali e gentili tra loro e verso i forestieri. La vita tranquilla, l’atmosfera solida e prospera, l’origine tedesca degli abitanti, l’ordine, la pulizia e il bilancio pubblico in attivo farebbero pensare alla Baviera o alla Svizzera se non fosse che l’Indiana è perfettamente piatto. Ed essendo piatto e bene irrigato è assolutamente perfetto per coltivare grano e soia.

Purtroppo il grano, dal 2000 a oggi, ha continuato lentamente a scendere di prezzo, mentre la soia vale la metà di cinque anni fa. Gli agricoltori fanno sempre più fatica a onorare i debiti contratti con le banche per comprare semi, fertilizzanti e macchine. Negli ultimi tempi ci sono stati numerosi fallimenti e perfino suicidi.
In questo contesto è chiara la perfidia della scelta cinese di penalizzare la soia per infliggere il massimo danno non solo economico, ma anche e soprattutto politico, all’amministrazione Trump-Pence. E si capisce anche come l’amministrazione, che a differenza dei governi europei può dare, insieme al Congresso, tutti gli aiuti di stato che vuole, abbia immediatamente stanziato 12 miliardi per aiutare i produttori di soia del Midwest.

Ma in questo contesto si può anche apprezzare quanto sia stato astuto da parte europea presentarsi ieri alla Casa Bianca con la promessa di comprare molta soia americana (e molto gas) se Trump sospenderà il 10 per cento di dazio aggiuntivo sulle auto tedesche. Presentandosi con questi ramoscelli d’ulivo la Merkel, che ha rilevato dai falchi francesi della tecnocrazia di Bruxelles la conduzione politica del negoziato con gli Stati Uniti, fornisce a Trump la prova che l’Europa è pronta a discutere seriamente l’ipotesi di un taglio, non di un aumento, dei dazi sulle auto. Trump, dal canto suo, dopo avere sollevato questioni a non finire su tutto lo scacchiere internazionale, ha bisogno di portare a casa qualche successo o, quanto meno, di dimostrare che quando ha proposto in Quebec di abbassare tutti quante le barriere doganali, non stava producendosi in una semplice boutade.

A questo punto, prima di proseguire il discorso generale, concludiamo quello sulla soia. I cinesi, come abbiamo visto, non la compreranno più dagli Stati Uniti ma dal Sudamerica. Gli europei, dal canto loro, non la compreranno più dal Sudamerica ma dagli Stati Uniti. Alla fine ci saranno delle navi che dovranno cambiare rotta, ma nessuno pagherà dazi sulla soia, nessun consumatore vedrà salire il prezzo del suo tofu, il commercio internazionale di soia rimarrà invariato e nessun produttore verrà penalizzato. La perfetta quadratura del cerchio.

I mercati hanno fatto bene a reagire con prudenza al buon esito dell’incontro tra Juncker e Trump. La doccia fredda seguita all’apparente disgelo tra Stati Uniti e Cina nei mesi scorsi è un ricordo ancora fresco e l’umoralità di Trump garantisce che ci sarà qualche incidente di percorso. Ma anche tra Trump e Kim Jong Un c’è stato un brusco raffreddamento poco prima di Singapore, ma la presenza di una forte volontà politica di portare a casa un risultato alla fine ha prevalso.

La reazione misurata dei mercati non toglie però importanza all’incontro, che ci pare al contrario molto significativo per due aspetti. Il primo è che si può legittimamente lasciare aperta la porta alla speranza che tutte le questioni sollevate da Trump si risolvano alla fine in un fair trade che non lede il free trade e può perfino agevolarlo.
La seconda, meno incoraggiante, è che il conflitto si trasferirà sempre di più alla Cina, che nella testa di Trump (e di molti democratici americani) è il vero avversario strategico degli Stati Uniti.

La superpotenza imperiale americana non può permettersi di restare passiva di fronte a una Cina che sta comprandosi l’Asia, l’Africa, la Siberia e pezzi d’Europa e che ha l’ambizione di diventare leader nell’intelligenza artificiale, nello spazio, nella robotica e in tutti i settori industriali che sono la precondizione per diventare militarmente egemone su scala globale.
Il conflitto con l’Europa e l’antipatia nei confronti del globalismo mercantilista della Merkel sono una questione assolutamente secondaria rispetto alla questione cinese. Trump può anche preferire in cuor suo un’Europa dei sovranisti, ma un’Europa dei sovranisti non gli cambierebbe la vita. Insomma, risolte le questioni di soldi, si può continuare a convivere con la Merkel a condizione che questa non faccia troppo fronte comune con la Cina.
Oggi l’America chiede all’Europa di schierarsi sull’Iran. Domani le chiederà di schierarsi sulla Cina. L’Europa cercherà di mantenere aperte le porte di Iran e Cina ma, alla fine, graviterà sempre verso gli Stati Uniti più che verso la Cina, soprattutto se il conflitto tra Cina e America, come è ben possibile, si aggraverà. Non ci sarà, quindi, l’alleanza dei liberoscambisti (Cina e Europa) contro la protezionista America anche perché, come stiamo vedendo in questi giorni, due esportatori per un importatore sono troppi e i due esportatori, alla fine, entreranno in conflitto tra loro.

La Cina, del resto, si sta preparando a un lungo conflitto con l’America. La svalutazione del renminbi di questi ultimi tre mesi, come ha notato Olivier Blanchard, è perfettamente calibrata per annullare a livello macro gli effetti negativi non solo della prima tranche di dazi americani (i 34 miliardi già in essere e i 16 imminenti) ma anche il pezzo da novanta dei 200 miliardi in preparazione per ottobre. I dazi del 25 per cento sulla prima tranche e quelli del 10 sulla seconda valgono 35 miliardi di dollari. E quanto vale la svalutazione del 7 per cento del renminbi spalmata sui 250 miliardi di esportazioni cinesi colpite dai dazi? Esattamente 35 miliardi di dollari. Come nel caso della soia, anche qui abbiamo la perfetta quadratura del cerchio. In pratica, nei rapporti di forza tra esportatori cinesi e importatori americani non cambierà assolutamente nulla e nessun prezzo in dollari salirà.

E dunque? Possiamo ipotizzare vari scenari. L’America, non potendo comprare renminbi sul mercato (non ce ne sono abbastanza) dovrà rassegnarsi a una Cina che svaluta ogni volta che l’America alza i dazi e dovrà quindi spostare il conflitto su altri terreni, come le sanzioni.
La Cina, dal canto suo, non potrà ricorrere facilmente all’atomica della vendita dei titoli di stato americani che detiene nelle sue riserve. Il rischio sarebbe quello di una crisi finanziaria internazionale da cui la Cina stessa non trarrebbe nessun vantaggio.

Alla Cina rimanevano fino a tempi recenti due strade, l’espansione del mercato interno e l’espansione verso ovest attraverso le operazioni di vendor financing che stanno dietro la Nuova via della seta. La seconda strada si sta però chiudendo velocemente. Le bellissime metropolitane con l’aria condizionata e i capitreno che si inchinano ai passeggeri costruite dai cinesi a Addis Abeba o a Lahore non sono gratis e i paesi che hanno accolto gli investimenti infrastrutturali cinesi ora si ritrovano pieni di debiti e si devono rivolgere, come farà presto il Pakistan del neoeletto Imran Khan, al Fondo Monetario Internazionale.

Ecco allora che la Cina dovrà accelerare sulla sua riconversione ai consumi interni e aumenterà ulteriormente le spese a sfondo militare.

Per chi investe la tregua tra Stati Uniti ed Europa è una buona notizia per l’azionario americano e tedesco, ma accelera al margine la normalizzazione monetaria della Fed. A favorire la borsa tedesca, almeno nel breve, è anche la politica ultraespansiva che la Bce, come ha confermato Draghi, manterrà nei prossimi 12 mesi. In Asia saranno favoriti i titoli legati ai consumi interni cinesi e la borsa del Giappone, un paese al riparo dagli attacchi di Trump.


Fonte: qui

A Record 18% Of China's GDP Goes To Debt Service

Think China's new "proactive" fiscal policy shigt will be sufficient to kick start the local economy, and boost global GDP? Think again.
In the latest analysis from Vertical Group's Gordon Johnson, the strategist writes "that China's proactive fiscal policy pledge could fall short as servicing its existing credit stock absorbs an increasing share of GDP."
As a reminder, last week, China’s State Council said it will adopt a proactive fiscal policy, outlining ways to fund ¥1.4tn in bonds to local government for infrastructure & provide ¥1.1tn in tax cuts, among other actions (e.g., R&D tax credits), all while urging no broad-based stimulus.
In Johnson's view, this is a narrative that is rather reminiscent of ‘14, when the gov’t unleashed a wave of “micro-stimulus” measures after a string of weak data points (i.e., 5 mos. of contracting real estate investment). Yet, as he notes, the most recent PBoC mini-stimulus is much smaller than ‘14, while key restrictions remain in place for real estate/shadow loans (historically growth-driving conduits), compounded by the law of diminishing returns, suggesting a smaller boost from a much larger base this time around.
Moreover, China’s total credit stock is markedly higher now than in ’14, implying more of every yuan in stimulus is going to service outstanding debt. How much? That may well be the critical question to gauge the flow through from any new fiscal policy.
Here is Vertical Group's answer:
While China exited ’17 with an est. 266% of total credit to GDP, some economists put that ratio at >300% today. On trailing 12-mo. nominal GDP of ¥86.5tn, as of 2Q, this equates to >¥259.5tn in credit, which, assuming an avg. borrowing cost of 6%, means China’s annual debt service is ~¥14.3tn, or 18.0% of GDP – sensitizing interest & credit-to-GDP, to a respective range of 4-7% & 285-320%, puts China’s debt service at 14-22% of GDP.
Johnson's punchline:
Indeed, China may stimulate more, as it did in ’15-’17, but, as of yet, it is doing far less than in ’14, as an increasing amount of “growth” is required to feed existing debt.
If this analysis is accurate, China will have a far more difficult time not only stimulating its domestic economy this time compared to 2014, but in offshoring the favorable inflationary externalities from its latest expansion. In short: the world's growth dynamo may be getting choked up with debt, which means that in the next global crisis, China will no longer be able to step in and kickstart global growth. And with central banks running out of securities to monetize, just who will arrest the next recession?
Fonte: qui

Debunking Sergio Marchionne

Davvero Sergio Marchionne ha rovinato un’eccellenza italiana, sfruttato i contributi statali e delocalizzato tutta la produzione? Qualche dato

Con l’aggravarsi delle condizioni di salute di Sergio Marchionne, e il conseguente cambio al vertice di FCA, in Italia c’è stato un proliferare di considerazioni sulla complessa figura del manager di Chieti, spesso tirando in ballo informazioni imprecise o addirittura false. Cerchiamo di fare chiarezza, smontando le bufale che lo riguardano e che abbiamo raccolto in Rete.

“Ha rovinato un’eccellenza italiana”
Prima dell’arrivo di Sergio Marchionne la Fiat proveniva da un periodo di perdite pesanti. 4,2 miliardi di euro di perdite nel solo 2002, due miliardi di euro nel 2003, 1,5 miliardi di euro nel 2004. Un totale di 7,7 miliardi di euro di perdite in un solo triennio. Fiat era destinata inevitabilmente a fallire. Anzi, come Marchionne spiegò a Gianluigi Gabetti poco dopo il suo insediamento: “La Fiat è tecnicamente fallita. Non stupirti. Noi perdiamo due milioni al giorno, non so se mi spiego. Se fallimento significa non avere i soldi in casa per pagare i debiti, bene, allora noi ci siamo”. L’azienda aveva smesso da tempo di essere una “eccellenza italiana“.

“Ha regalato Fiat alle banche”
Non proprio. Vista la situazione al momento dell’insediamento, sergio Marchionne decide di convertire i debiti alle banche in azioni, scongiurando pretese di saldo e allentando la morsa debitoria sul gruppo. Una mossa chiave per la ripresa del gigante ferito.

“Ha de-localizzato la produzione”
Fin dai suoi primi anni di reggenza in Fiat Sergio Marchionne fa l’esatto opposto.
Anziché cedere a strategie già in atto con altre case automobilistiche, che de-localizzano la produzione nei paesi emergenti, riesce a tenere la barra a dritta. Di fatto, Fiat, e poi Fca, non ha mai de-localizzato la produzione a scapito di quella italiana. Invece ha, com’è normale che sia nella messa a punto di strategie aziendali, modificato i piani di produzione dei suoi modelli. Quelli low cost nelle fabbriche di paesi dove la manodopera costa meno e dove Fiat aveva già i propri impianti, quelli “premium” in Italia, dove il maggior costo della manodopera è giustificato da una maggiore cura costruttiva. Sotto la gestione Marchionne, Fca ha aperto tre stabilimenti all’estero. In Brasile, nel 2005, dove Fca aveva già un altro impianto. In Serbia nel 2008 e in Cina del 2010. Questi ultimi due, tuttavia, sono stati aperti con sovvenzioni del governo serbo (33%) e di Guangzhou Automobile Group (50%). Solo quello brasiliano è controllato (e pagato) al 100% da FCA. C’è differenza tra de-localizzare ed espandersi, e non capirla e uno dei problemi dell’arretratezza del nostro paese.

“Ha regalato Fiat al suo amico Obama”
No, è il contrario. Nel 2008 Chrysler fallì (tecnicamente aderì al così detto Chapter 11), a causa di errate strategie commerciali che riportarono pesanti perdite e per via del blocco dei salari a circa 70 dollari l’ora, contro una media inferiore ai 50 dei diretti concorrenti. La casa americana era nelle mani del Governo a stelle e strisce, che voleva sbarazzarsene a tutti i costi, tanto che la propose a tutti i costruttori, incassando rifiuti su rifiuti. La crisi contingente di quel periodo, nel frattempo, colpì anche Fiat, che vide crollare il valore delle proprie azioni di oltre il 30% ed essere etichettata da Moody’s come “junk” (spazzatura). Sergio Marchionne era dell’idea che Fiat, per superare la nuova crisi, necessitasse di un deciso balzo in avanti a livello produttivo, in modo da arrivare ad almeno 6 milioni di veicoli prodotti l’anno, e vide nell’acquisizione del marchio americano la strategia migliore per farcela in tempi brevi.

Così si fece avanti per accettare l’offerta di Obama, ma non prima che il Governo americano avesse già avviato un deciso piano di riduzione dei costi (30%) e di ristrutturazione, con un’iniezione di fondi per un totale di circa otto miliardi di dollari. Di fatto, Marchionne acquisì un colosso già sulla via del risanamento. Con un’importante conseguenza diretta: Fiat riusciva a entrare nel mercato americano, che l’aveva sempre snobbata, e lo faceva proprio con un marchio americano.

“Ha fatto tutto questo a spese degli operai che hanno reso grande Fiat”
Come già spiegato, Fiat pre-Marchionne versava in gravi difficoltà e, tecnicamente, non era “grande”, per lo meno nel senso economico del termine. Il malessere del costruttore, in realtà, era molto antico. Di fatto, il declino iniziò poco dopo la reggenza di Vittorio Valletta, con il punto più basso raggiunto tra il 1995 e il 2004. Il solo insediamento di Sergio Marchionne, da un giorno all’altro, portò le azioni Fiat, molto sofferenti, da 1,61 a 1,8 euro. Oggi quelle azioni valgono circa 16,4 euro.
In merito al rapporto con gli operai, da sempre oggetto di discussione, Marchionne ha in realtà apportato delle innovazioni sostanziali. Per esempio, sotto la sua guida, Fiat nel 2005 ha adottato, prima in Italia, il World Class Manifacturing, che tra i suoi dieci pilastri tecnici annovera la sicurezza sul posto di lavoro e lo sviluppo delle competenze del personale.
Nel 2015, tra i 180 stabilimenti nel mondo che aderiscono al WCM, Pomigliano si è classificato al primo posto, diventando anche quello più efficiente d’Italia. Ricordiamo che questo stabilimento, nel 2010, diventò oggetto di un referendum tra i suoi operai (95% di adesione) per accettare il piano di Marchionne che mirava proprio a migliorarne l’efficienza, scatenando un duro scontro con la FIOM: vinse il Sì col 63% e i risultati diedero poi ragione al manager. Dal 2015 FCA, proprio sulla base del WCM, paga un premio di produttività a tutti i dipendenti, che nel 2017 ha toccato una media di 1320 euro.

Marco Bentivogli, segretario generale FIM CISL, ha rilasciato un lungo commento  a Il Sole 24 Ore che rivela un Marchionne in realtà molto collaborativo, pur fermo nelle sue idee manageriali.
Marchionne ha preso in mano una Fiat da 5,9 miliardi di euro e l’ha trasformata in una Fca da 62 miliardi di euro. Forse è il caso di riconsiderare cosa si intende per “rendere grande FIAT”.
fiat
“Ha sfruttato gli operai”
Questa è stata presa da una conversazione Facebook che aveva come oggetto la riforma del contratto ai dipendenti di Pomigliano d’Arco. Il futuro dello stabilimento, che all’epoca versava in pessime condizioni ed era esempio negativo di inefficienza, assenteismo e false invalidità, deve passare per una rivoluzione. La strategia di Marchionne si basa essenzialmente su tre punti portanti: riduzione delle pause da 40 a 30 minuti, spostamento della pausa mensa a fine turno e, soprattutto, scatto salariale non più automatico ma legato ai risultati ottenuti dallo stabilimento.

In cambio investe 800 milioni di euro nell’impianto e sposta la produzione della Panda dalla Polonia a Pomigliano d’Arco.  La mossa ha sicuramente richiesto sacrifici non indifferenti da parte dei dipendenti dello stabilimento, ma i risultati hanno premiato sia loro che Fca.

“Ha sfruttato i contributi dello Stato”
Secondo uno studio della CGIA di Mestre, del 2012, Fiat ha ricevuto dallo Stato 7,6 miliardi di euro, ma di questi ne ha reinvestiti 6,2. La maggior parte dei fondi, tuttavia, sono stati ricevuti negli anni ’80, mentre l’ultimo di grossa entità risale alla ristrutturazione dello stabilimento Iveco di Foggia (2000-2003), cioè prima dell’insediamento di Sergio Marchionne.

“Ha fatto chiudere quasi tutti gli stabilimenti in Italia”
In realtà ne ha fatti chiudere solo alcuni e si trattava di stabilimenti già in stato di grave crisi. Gli stabilimenti Fiat, poi Fca, sul suolo italiano sono (a esclusione di quelli compartecipati e in joint-venture):

Mirafiori (1939)
Grugliasco (1959)
Arese (1963)
Rivalta di Torino (1967)
Pomigliano d’Arco (1968)
Termini Imerese (1970)
Cassino (1972)
Melfi (1993)

A oggi, di questi, gli stabilimenti chiusi risultano essere quelli di Rivalta (2004), Arese (2005) e Termini Imerese (2011).
Quello di Termini Imerese versava già in pessime condizioni, tanto che la cassa integrazione iniziò nel 1993, e nel 2002 (prima dell’era Marchionne) furono licenziati 223 dipendenti.
L’impianto di Arese, costruito in origine dall’Alfa Romeo, conobbe il suo periodo di massimo splendore nel 1982, con ben 19mila dipendenti, ma dall’anno successivo all’acquisizione da parte di Fiat (1986) iniziò un progressivo declino. Il colpo di grazia arrivò nel 1989, quando Regione Lombardia e un giudice amministrativo imposero una riduzione dell’attività del reparto verniciatura da 800 a 400 veicoli al giorno. Dimezzando la produzione.
Lo stabilimento di Rivalta, in crisi fin dalla fine degli anni ’90, dagli inizi del 2018 è stato parzialmente riaperto da Fca nell’ottica di un progetto di riqualifica triennale. Nessuno degli impianti compartecipati o frutto di joint-venture è stato chiuso.

“Ha mandato via dall’Italia Fiat”
Chiarita la questione sulla presunta de-localizzazione, rimane il nodo, tanto caro ai complottisti, relativo alle sedi fiscali del gruppo. Nel 2014, dopo aver completato l’acquisizione di Chrysler iniziata cinque anni prima, Fiat diventa Fca, spostando la sede fiscale ad Amsterdam e il domicilio fiscale a Londra. Posto che Fca è un’azienda votata al profitto, e dunque è libera di adottare le strategie manageriali che meglio crede per garantirsi ricavi e futuro, qualcuno obietta su dove paghi le tasse. FCA continua a pagare l’IRAP su stabilimenti e attività presenti sul territorio nazionale. Ma va sottolineato, ancora una volta, che è una strategia legale, utilizzata da quasi la totalità dei moderni colossi industriali (Google, Amazon e Apple inclusi, per dire). Certo, è venuto a mancare il legame tra il colosso automobilistico e l’Italia, in particolare la città di Torino, ma in un libero mercato, nel pieno della globalizzazione, un manager viene assunto e pagato per sfruttare ogni opportunità. Ed è quello che a Sergio Marchionne, conti alla mano come possiamo vedere, è riuscito molto bene.

PER L'AGGRESSIONE A DAISY OSAKUE, LA PROCURA DI TORINO INDAGA PER LESIONI SENZA L'AGGRAVANTE RAZZIALE

E COSÌ PER UN GIORNO INTERO MEDIA E TV, MANOVRATI DALLA SINISTRA, HANNO POTUTO PRENDERE PER IL CULO GLI ITALIANI.

Daisy Osakue, procura di Torino: “Lesioni senza l’aggravante razziale”. 

L’altro caso: “Io, aggredita nella stessa zona”

È questo il reato ipotizzato dai pm di Torino, al momento contro ignoti. 

La donna, Brunella Gambino di 48 anni, ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera/Torino in cui ha raccontato l'episodio di violenza di cui è stata protagonista assieme a due amiche

Lesioni senza l’aggravante razziale. È questo il reato ipotizzato dalla Procura di Torino, al momento contro ignoti, nell’ambito dell’inchiesta sull’aggressione a Daisy Osakue, l’atleta italiana di origini nigeriane ferita ad un occhio da un uovo lanciato da un auto in corsa a Moncalieri nella notte tra domenica e lunedì. Ma la giovane atleta non ha dubbi: “Non volevano colpire me come Daisy, volevano colpire me come ragazza di colore“, ha detto ieri.
Nei giorni precedenti all’aggressione, tuttavia, erano stati segnalati altri episodi analoghi e le vittime non erano di colore. Il Fiat Doblò da cui sono state lanciate le uova contro la primatista italiana di lancio del disco era stata già segnalata alle autorità nei giorni scorsi e oggi Brunella Gambino, 48 anni, residente nella stessa zona in cui è l’azzurra di atletica è stata colpita, ha raccontato al Corriere della Sera di essere stata vittima di un fatto analogo il 25 luglio. La donna ha spiegato di essere appena uscita da una pizzeria con due amiche, nella stessa zona di Moncalieri dell’ultimo episodio, quando l’auto, con i fari spenti, ha accelerato verso di loro per poi colpirle con le uova.
Inizialmente, colte di sorpresa e spaventate, le donne non hanno capito subito di cosa si trattasse e hanno pensato gli fosse stata lanciata una bottiglia di vetro – così come Daisy ha temuto si trattasse di acido. In questo caso però, a differenza dell’ultimo episodio, i conducenti dell’auto hanno ripetuto l’aggressione contro le stesse vittime. Quando il Doblò ha fatto il giro dell’isolato, infatti, ha ritrovato le tre donne – racconta l’intervistata – ed è seguito un secondo lancio di uova. In questo secondo “round”, la donna dichiara di aver visto qualcuno sporgersi dall’auto, ma era troppo buio e la vettura troppo veloce perché potesse riconoscere il colpevole del gesto. Fonte: F.Q.

SALVINI: "PARE CHE UNO DEI CRETINI “LANCIATORI” DI UOVA SIA IL FIGLIO DI UN CONSIGLIERE COMUNALE DEL PD!!! 

L’INFORMAZIONE “UFFICIALE” HA OCCUPATO PAGINE DI GIORNALI E ORE DI TELEGIORNALI PER DENUNCIARE L’EMERGENZA RAZZISMO, ALIMENTATA DA QUEL CATTIVONE DI SALVINI. E INVECE…"

Dal profilo Facebook di Matteo Salvini
salvini selfie 6SALVINI SELFIE
L’informazione “ufficiale” ha occupato pagine di giornali e ore di telegiornali per denunciare l’emergenza RAZZISMO, alimentata da quel cattivone di Salvini.
E invece...

Grazie alle indagini dei Carabinieri, a cui vanno i miei complimenti, sono stati presi i cretini lanciatori di uova di Moncalieri, che erano mossi non da razzismo ma da semplice stupidità.

P.s. Vi aggiungo un dettaglio che ancora non troverete in giro: pare che uno dei “lanciatori” sia il figlio di un consigliere comunale del PD!!!
Avete capito bene!!!
Scommettiamo che i tigí faranno fatica a dare la notizia?
Per fortuna c’è la rete, e per fortuna gli italiani non sono scemi.