9 dicembre forconi: 12/01/18

sabato 1 dicembre 2018

I GILET GIALLI METTONO A FERRO E FUOCO PARIGI: SCONTRI CON LA POLIZIA NELLA ZONA DEGLI CHAMPS-ELYSEES, 33 FERMATI E 10 FERITI



I MANIFESTANTI PROTESTANO CONTRO IL CARO-BENZINA, LE TASSE E IL PRESIDENTE MACRON - VIDEO


PARIGI GILET GIALLIPARIGI GILET GIALLI
Dieci feriti e sessanta fermi a Parigi, nella zona degli Champs-Elysees a Parigi, dove sono in corso scontri fra circa 1.500 gilet gialli che tentano di forzare i blocchi della polizia a protezione degli Champs-Elysées. I fermi sono stati finora 60. Sulla avenue, manifestano pacificamente circa 200 gilet gialli che hanno accettato di farsi perquisire.

PARIGI GILET GIALLIPARIGI GILET GIALLI


La polizia continua a bloccare in modo deciso - all'ingresso degli Champs-Elysees - i manifestanti che non si sottopongono alle perquisizioni. In mattinata c'è stato un lancio di fumogeni: il responsabile è stato messo a terra dagli agenti e immediatamente fermato. L'episodio ha dato vita ai primi tafferugli, con gruppi di gilet gialli che sono fuggiti nella direzione opposta, verso l'Arco di Trionfo, con il volto coperto per proteggersi dai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia. 


PARIGI GILET GIALLIPARIGI GILET GIALLIPARIGI GILET GIALLIPARIGI GILET GIALLI













In mattinata c'è stato un lancio di fumogeni: il responsabile è stato messo a terra dagli agenti e immediatamente fermato. L'episodio ha dato vita ai primi tafferugli, con gruppi di gilet gialli che sono fuggiti nella direzione opposta, verso l'Arco di Trionfo, con il volto coperto per proteggersi dai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia.

Fonte: qui

Il filosofo francese Jean Claude Michéa  scrive una lettera aperta sul movimento dei gilet gialli, da lui apprezzato e sostenuto come un autentico movimento popolare che spontaneamente parte dal basso contro le politiche liberiste degli ultimi quarant’anni. Nonostante l’ottusa ostilità degli intellettuali di sinistra ecologisti e libertari e dei cani da guarda mediatici, e nonostante la cinica determinazione del governo, questo movimento, avverte Michéa, non è che l’inizio. 

Il filosofo francese


di Jean Claude Michéa, 21 novembre 2018

Cari amici,

Solo poche parole molto concise e lapidarie – perché qui siamo presi dai preparativi per l’inverno (tagliare la legna, piante e alberi da pacciamare ecc). Io sono ovviamente d’accordo con tutti i vostri commenti, come con la maggior parte delle tesi espresse su Luoghi comuni (solo l’ultima affermazione mi sembra un po’ debole a causa del suo “occidentalismo”: una vera cultura di emancipazione popolare esiste anche, naturalmente, in Asia, Africa o America Latina!).

Il movimento dei “gilet gialli” (un buon esempio, a proposito, di quella creatività popolare di cui parlavo nei Misteri della sinistra) è, in un certo senso, l’esatto opposto di “Nuit Debout“. Questo movimento, semplificando, è stato infatti il primo tentativo – incoraggiato da gran parte della stampa borghese e dal “10%” (vale a dire, quelli che sono deputati ad essere, o si preparano a diventare, la leadership tecnica, politica e “culturale” del capitalismo moderno) – di disinnescare la critica radicale al sistema, concentrando tutta l’attenzione politica su quell’unico potere (seppur decisivo) rappresentato da Wall Street e dal famoso “1%”. Una rivolta quindi di quei metropolitani ipermobili e ultraqualificati (anche se una piccola parte delle nuove classi medie comincia a conoscere, qua e là, una certa “precarizzazione”) che costituiscono, dall’era Mitterrand, il principale vivaio per la classe dirigente di sinistra ed estrema sinistra liberale (e in particolare dei suoi settori più apertamente contro-rivoluzionari e anti-popolari: Regards, Politis, NP“A”, Université Paris VIII, ecc). Qui, al contrario, sono quelli che vengono dal basso a ribellarsi (come analizzato da Christophe Guilluy – tra l’altro stranamente assente, fino ad ora, da tutti i talk show televisivi, a vantaggio, tra gli altri comici, del riformista sub keynesiano Besancenot), i quali hanno già una coscienza rivoluzionaria sufficiente a rifiutarsi di dover ancora scegliere tra sfruttatori di sinistra e sfruttatori di destra (d’altronde è così che Podemos ha avuto inizio nel 2011, prima che i Clémentine Autain e i Benoît Hamon riuscissero a seppellire questo promettente movimento allontanandolo gradualmente dalla sua base popolare).

Per quanto riguarda l’argomento degli “ambientalisti” di corte – coloro che preparano questa “transizione energetica” che consiste principalmente, come ha mostrato Guillaume Pitron in La guerre des métaux rares: La face cachée de la transition énergétique et numérique, nel delocalizzare l’inquinamento dei paesi occidentali nei paesi del Sud – argomento secondo cui questo movimento spontaneo sarebbe portato avanti da quelli che hanno l’”ideologia della automobile” e da “tizi che fumano sigarette e viaggiano a diesel”, è tanto assurdo quanto disgustoso e immondo: è chiaro, infatti, che la maggior parte dei gilet gialli non prova nessun piacere a dover prendere ogni giorno l’auto per andare a lavorare a 50 km da casa, per andare a fare la spesa nell’unico centro commerciale esistente nella sua regione e in genere situato in piena campagna a 20 km di distanza, o per fare una visita dall’unico medico che non è ancora in pensione e il cui studio si trova a 10 km dalla sua abitazione. (Prendo questi esempi dalla mia esperienza nelle Landes! Ho anche un vicino di casa che vive con 600 euro al mese e deve calcolare sino a quale giorno del mese può ancora andare a fare la spesa a Mont-de-Marsan, senza fermarsi in mezzo alla strada, a seconda della quantità di diesel – il carburante dei poveri – che può ancora comprare). 

Scommettiamo invece che sono i primi a capire che il vero problema sta precisamente nell’attuazione sistematica, per 40 anni,da parte dei successivi governi di destra e di sinistra, del programma liberale che ha a poco a poco trasformato il loro villaggio o il loro quartiere in un deserto sanitario, privo di qualsiasi centro di rifornimento di generi di prima necessità, e dove la prima azienda ancora in grado di offrire qualche posto di lavoro mal retribuito si trova a decine di chilometri di distanza (se ci sono dei “progetti per le periferie” – e questo è un bene – non c’è ovviamente mai stato nulla di simile per questi villaggi e cittadine – dove vive la maggior parte della popolazione francese – ufficialmente destinati all’estinzione dal “senso della storia” e dalla “costruzione europea”!).

Ovviamente non è l’auto in quanto tale – quale “segno” della loro presunta integrazione nel mondo del consumo (non sono né lionesi né parigini!) – che i gilet gialli oggi difendono. È semplicemente che la loro auto diesel usata di seconda mano (che la Commissione europea sta già cercando di togliergli inventando continuamente nuovi “standard tecnici di qualità”) rappresenta la loro ultima possibilità di sopravvivenza, vale a dire di avere una casa, un lavoro e di che sfamare se stessi e le loro famiglie nel sistema capitalista di oggi, che avvantaggia sempre di più i vincitori della globalizzazione. E dire che è innanzitutto questo cherosene “di sinistra” – quello che naviga di aeroporto in aeroporto a portare nelle università di tutto il mondo (e in tutti i “Festival di Cannes”) la buona parola “ecologista” e “associativa” che osa dar loro lezioni! Decisamente, quelli che non conoscono altro che i loro poveri palazzi metropolitani non avranno mai un centesimo della decenza che oggi si può ancora trovare nei casolari poveri (e di nuovo, è la mia esperienza nelle Landes che parla!).

L’unica domanda che mi pongo è fino a che punto può arrivare un simile movimento rivoluzionario (movimento che non è estraneo, nella sua nascita, nel suo programma unificante e nella modalità della sua evoluzione, alla grande rivolta del Sud del 1907) nelle tristi condizioni politiche quali sono oggi le nostre. Perché non dobbiamo dimenticare che ha davanti a sé un governo thatcheriano di sinistra (il consigliere principale di Macron è Mathieu Laine – un uomo d’affari della City di Londra che ha curato la prefazione alle opere della strega Maggie tradotte in francese), vale a dire un governo cinico e senza paura, che è chiaramente pronto – ed è questa la grande differenza con tutti i suoi predecessori – ad arrivare ai peggiori estremi pinochettiani (come Maggie con i minatori gallesi o gli scioperi della fame irlandesi) per imporre la sua “società dello sviluppo” e questo potere antidemocratico dei giudici, ora trionfante, che ne è il necessario corollario. E, naturalmente, senza avere nulla da temere, su questo piano, dai servili media francesi. Dobbiamo ricordare, infatti, che ci sono già tre morti e centinaia di feriti, alcuni dei quali in condizioni molto critiche. Se la memoria non mi tradisce, bisogna risalire al maggio del ’68 per trovare un costo umano paragonabile a quello di queste manifestazioni popolari, almeno sul terreno metropolitano. Eppure, la copertura mediatica data a questo fatto sconvolgente è, almeno per il momento, adeguata a un dramma di questa portata? E cosa avrebbero detto i cani da guardia di France Info se questo bilancio (provvisorio) fosse stato causato, ad esempio, da un Vladimir Putin o da un Donald Trump?

Infine, ultimo ma non meno importante, soprattutto non dobbiamo dimenticare che se il movimento dei gilet gialli guadagnasse ancora terreno (o se mantenesse, come adesso, il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione), lo Stato Benalla-Macroniano non esiterà un momento a inviare i suoi Black Bloc e tutta la sua “Antifa (come le famose “Brigate rosse” dei vecchi tempi) per screditarlo con qualsiasi mezzo, o orientarlo verso un’impasse politica suicida (abbiamo già visto, per esempio, come lo stato macroniano è riuscito in poco tempo a privare l’esperienza Zadista di Notre-Dame-des-Landes del suo sostegno popolare originale). Ma anche se questo movimento coraggioso dovesse temporaneamente venire interrotto dal PMA (Parti des médias et de l’argent), nel peggiore dei casi significherà che si è trattato solo di una prova generale e dell’inizio di una lunga battaglia. Perché l’ira che viene dal basso (sostenuta, devo ripeterlo ancora una volta, dal 75% della popolazione – e quindi logicamente stigmatizzata dal 95% dei cani da guardia mediatici) non ripiegherà, semplicemente perché la gente non ne può più e non ne vuole più sapere. Il popolo è decisamente in movimento! E a meno che non se ne elegga un altro (secondo il desiderio di Eric Fassin, questo agente d’influenza particolarmente attivo della famosissima French American Foundation), non è pronto a rientrare nei ranghi. Che le Versailles di sinistra e di destra (per usare le parole dei proscritti della Comune rifugiati a Londra) lo tengano per certo!

Con grande amicizia,
Da Voci dall’estero

Fonte: qui

Perquisite sedi Deutsche Bank per riciclaggio. Quando un giretto nella BCE?

 
Nel frattempo oggi è in corso - in merito agli scandali sul riciclaggio di danaro sporco - una perquisizione di massa che coinvolge 170 poliziotti nella sede Deutsche Bank di Francoforte. Dovrebbero farsi un giretto presso la BCE visto che sono in zona. Non è molto chiaro come sia possibile che sia sfuggito un colossale lavaggio di denaro sporco da 4000 miliardi di euro protrattosi per 10 anni. Ma forse il Professor Mario Draghi e Madame Danièle Nouy erano troppo presi dal controllo degli zero virgola del bilancio dello stato italiano per pensare a queste bazzecole, poverini.

Ci si prepara a una guerra “orrendamente devastante”?

Gli eventi nel mare d’Azov, nelle immediate vicinanze del Ponte di Kerch, che funziona perfettamente nonostante le previsioni catastrofiche di Kiev, hanno attirato i titoli di tutti i media occidentali verso un’area marittima su cui nessuno ha mai soffermato la sua attenzione.
Il mainstream — che ignora platealmente, per esempio, la sanguinosa guerra nello Yemen — è diventato improvvisamente attentissimo sulla sorte dei marinai ucraini, in discrete condizioni fisiche, catturati dalla marina militare russa.
Siamo di fronte a una delle infinite "stranezze" che stanno accentuando la "dissociazione cognitiva" di milioni di lettori/spettatori dei giornali e delle tv occidentali.  I quali non riescono più a spiegarsi come mai quello che viene raccontato loro non corrisponde più, quasi per niente, alla logica e al buon senso. 

Ne è esempio fulgido il fatto che nessun giornale europeo, ma anche nessun giornale americano, ha riportato una notizia che — se fosse stata riferita al grande pubblico — avrebbe provocato sconcerto e terrore. In questo caso ha funzionato un criterio diverso da quello della menzogna. Ha funzionato il criterio del silenzio, che è ben più micidiale della menzogna, in quanto impedisce ogni possibile contestazione, reazione, emozione. La paura, infatti, nasce solo insieme al timore.
Sta di fatto che pochi giorni fa, mentre era in preparazione il fantastico "venerdì nero" globale dei saldi di fine stagione, una commissione bipartisan del Congresso degli Stati Uniti ha varato un voluminoso rapporto a sostegno delle richieste del Pentagono che preludono a una gigantesca guerra degli Stati Uniti contro la Russia, o la Cina, o contro entrambe.
Va notato che si è trattato di una commissione "bipartisan", cioè formata da esponenti repubblicani e democratici. Tutti concordi ugualmente nell'accettare la proposta di ulteriori enormi investimenti militari in preparazione, appunto, di una tale guerra. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti delle abituali manovre lobbyistiche per trovare una spiegazione decente ai favori che i legislatori americani concedono ai loro finanziatori militari.
Ma non è di questo che si tratta, per meglio dire non solo di questo. Il fatto è che la nuova dottrina della Strategia per la Sicurezza Nazionale del Pentagono  rappresenta una svolta radicale rispetto alle teorie in vigore fino a ieri. Ora, dice il documento del Pentagono, "il centro focale primario non sarà più il terrorismo ma la competizione tra le grandi potenze". È stata questa l'autostrada attraverso cui è transitato il più imponente aumento delle spese militari americane mai verificatosi negli ultimi 70 anni. ()

Cioè gli Stati Uniti affermano che è in corso la preparazione per una guerra "imminente", che "coinvolgerà l'intera società" e che avrà effetti "devastanti" sulla popolazione americana. Il discorso è esplicito: "sarebbe poco saggio e irresponsabile non attendersi che i nemici cerchino di debilitare le forze mobili, quelle cyber, con ogni tipo di attacchi contro gli americani sulla loro terra, mentre cercano di sconfiggere il loro esercito all'estero". È lo scenario di qualche cosa molto simile alla terza guerra mondiale, che non sarà più combattuta tra eserciti, ma avrà come obiettivo l'annientamento della popolazione nemica.
Il documento si spinge a descrizioni di impressionante realismo sugli effetti militari e civili di una tale guerra, dove gli Stati Uniti "dovranno fronteggiare combattimenti di una difficoltà senza precedenti e perdite immense, inconfrontabilmente più grandi di ogni esperienza bellica già affrontata" e dove "non si può escludere nemmeno che la guerra potrebbe anche essere perduta". Non resta, di fronte a queste valutazioni, che porsi una domanda: ma non sarebbe più saggio lavorare per non farla, una guerra del genere? A quanto pare nessuno dei membri della commissione è stato in grado di porsela.  
Fonte: qui

L’Ucraina tra guerra civile e collasso economico


A cento anni dalla fine della Grande Guerra in Europa si continua a combattere, anche in trincea. La guerra civile ucraina, deflagrata tra il 2013 ed 2014 sull’onda delle mobilitazioni di Maidan e dell‘annessione della Crimea da parte di Mosca, ha assunto ormai da tempo le forme di una snervante guerra di posizione a bassa intensità. In Donbass, la regione del bacino carbonifero del Don, le forze di Kiev e gli insorti delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk continuano a fronteggiarsi lungo 450 chilometri di trincee dove si spara e si muore quasi quotidianamente. Secondo le Nazioni Unite quattro anni e mezzo di guerra civile sono costati complessivamente circa undicimila vittime – quasi 250 civili solo nel 2018 – un numero esponenziale di feriti e mutilati e circa un milione e mezzo di profughi.
Sin dal collasso sovietico si è palesato il tentativo dell’Occidente di estraniare dal senso comune degli ucraini la loro comunanza con i popoli slavi d’Oriente e con gli altri popoli del mondo ex-sovietico. L’intento si è rinnovato nei mesi scorsi con lo scisma della Chiesa Ortodossa ucraina – adesso autocefala – e con l’acuirsi delle misure volte a disincentivare nel paese l’utilizzo della lingua russa tutt’ora utilizzata da milioni di cittadini ucraini (Figura 1).
In questi provvedimenti, del tutto incompatibili con un paese multietnico e multinazionale come l’Ucraina, emerge ancora una volta la volontà di Kiev di vanificare le trattative internazionali e la disponibilità da parte del Cremlino di rendere possibile la federalizzazione – in seno all’Ucraina – delle regioni orientali insorte: una decisione, quella ucraina, volta chiaramente a proseguire la guerra contro le regioni orientali, da sempre poco propense ad identificarsi nel potere di Kiev (Figura 2).
Con l’arrivo dell’inverno, a causa degliaumenti delle tariffe pretesi dal Fondo Monetario Internazionale come conditio sine qua non per l’accesso ai prestiti, in aree diverse del paese circa un milione di ucraini stanno affrontando il gelo senza la possibilità, per i costi, di utilizzare acqua calda e riscaldamento con temperature minime ben al di sotto dello zero. Relativamente al problema energetico in cui si trova l’Ucraina il Fondo Monetario Internazionale prevede dunque un’ulteriorecrescita dell’inflazione, dovuta all’impatto degli aumenti del prezzo del gas, mentre il Ministro dell’Energia degli Stati Uniti Rik Perry ha immediatamente rassicurato la popolazione ucraina, rinnovando l’invito rivolto agli ucraini ad acquistare carbone e gas liquefatto (LGN) made in USA per ovviare ai propri problemi energetici.
La situazione economica continua a rimanere assai problematica (Figura 3), in relazione alle spese militari, alla corruzione, alle ruberie oligarchiche ed ai massicci piani di privatizzazione delle aziende pubbliche (Figura 4). Relativamente all’ affaire Donbass la guerra economica sembra il perno fondamentale della strategia attendista del Cremlino: quest’ultimo, pur avendo assicurato nel corso degli anni il proprio determinante sostegno agli insorti di Lugansk e Donetsk, sembra, da un lato, aver rinunciato definitivamente a forzare la mano sul piano militare, dall’altro, di aver inteso derubricare la questione ucraina nell’agenda diplomatica internazionale senza tuttavia abbassare la guardia.

La mobilitazione permanente sul fronte del Donbass – dove si sono appena svolte le elezioni tra le fila degli insorti – produce deicosti enormi per i conti di Kiev, e per quelli dei sostenitori d’Occidente: sin dal 2014 il bilancio di Kiev ha visto tagli massicci alla spesa sociale mossi sia dalle direttive del Fondo Monetario Internazionale sia dalla volontà del governo ucraino di mantenere vivo il conflitto del Donbass.
Nonostante la situazione disastrosa in cui versa il paese e l’evidente impossibilità di poter riconquistare la Crimea ed il Donbass, Kiev insiste nel rivendicarne la propria titolarità assoluta ed indiscutibile andando così a compromettere l’efficacia di ogni genere di compromesso.
In relazione all’oltranzismo ucraino, durante lo scorso ottobre il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha posto la propria firma su un pacchetto di controsanzioni economiche rivolte contro Kiev. Le misure previste dal pacchetto colpiscono 68 aziende e circa 320 cittadini ucraini: tra i nomi presenti nella lista spiccano quelli dell’ex primo ministro Yatseniuk, dell’ex capo della formazione neofascista Pravy Sektor Yarosh, del Ministro dell’Interno Avakov, di Julia Timoshenko e di molti altri funzionari governativi.

Nonostante il sostegno dell’Occidente alla presidenza di Poroshenko, è verosimile che le controsanzioni provenienti da Mosca infliggano un colpo assai duro alla già precaria situazione ucraina (Figura 5).
La rapida deindustrializzazione del paese ha portato con sé effetti nefasti per il suo sistema economico: nel 2017 secondo il Ministro degli Esteri Pavel Klimkin gliucraini emigrati nello spazio dell’Unione Europea – certamente favoriti dall’abolizione del visto di accesso per chi detiene un passaporto ucraino – sono stati oltre un milione. Negli ultimi mesi si sono svolte numerose proteste di minatori e dipendenti pubblici mosse dai gravi ritardi nei pagamenti degli stipendi. In questo quadro, il recente incontro tra la cancelliera Angela Merkel ed il primo ministro ucraino Volodymyr Groisman ha offerto l’ennesima conferma della prominenza tedesca nel processo diassorbimento del sistema industriale ucraino: le innumerevoli privatizzazioni previste in Ucraina dai piani del Fondo Monetario Internazionale sembrano infatti coincidere con un significativo rafforzamento della proiezione orientale dell’industria tedesca.
Malgrado la stanchezza di milioni di cittadini, nelle dinamiche interne la continua mobilitazionedella società ucraina verso lo sforzo bellico continua a costituire il principale elemento di legittimazione e consenso politico. Senza quello della guerra, infatti, ben pochi sarebbero gli argomenti con cui Poroshenko – ed il governo Groisman – riuscirebbero a legittimarsi e guadagnarsi l’appoggio delle organizzazioni paramilitari apertamente neofasciste come “Corpo Nazionale”, “C-14”, “Svoboda”, “Karpatchka Sich”, “Pravij Sektor” .
In parallelo, se la violenza politica perpetrata da questi nei confronti di ogni dissenso si è rivelata assai proficua per Poroshenko ed affiliati, il fatto di aver permesso alle organizzazioni neofasciste di operare impunemente ha enormemente rafforzato queste ultime, facendo crescere in modo esponenziale il loro potere militare e politico. Con assidua frequenza si sono registrati attacchi ad opera dei gruppi neofascisti contro gli oppositori politici, contro le minoranze ebraiche, rom e contro le persone con un orientamento sessuale non tradizionale.
Le organizzazioni paramilitari neofasciste sono oggi giuridicamente parte dell’apparato ucraino, che sta perdendo il monopolio della violenza. il potere militare consente ai neofascisti di gestire insieme alla criminalità organizzata il contrabbando, il traffico d’armi e quello di stupefacenti. Il proliferare di gruppi, bande e milizie – spesso alle dirette dipendenze degli oligarchi locali –rischia di trascinare il paese verso una nuova fase della guerra civile..... Continua qui

GLOBAL COMPACT: TUTTO QUELLO CHE NON SAPETE SUL TESTO DELL’ONU SUI MIGRANTI CHE NON SARÀ FIRMATO DAL GOVERNO ITALIANO.


UN TESTO CHE VUOLE EQUIPARARE LO STATUS DI RIFUGIATI E QUELLO DI IMMIGRATI ECONOMICI

E OVVIAMENTE C’È LO ZAMPINO DELLA GERMANIA

Maria Giovanna Maglie per Dagospia

Global Compact, Global compact, finirà che tutti lo dicono, anche se non sanno bene che vuol dire, come spread. Quando capiranno che vuol dire  per il futuro delle migrazioni , capiranno anche che dietro c'è il solito zampino della solita Germania uber alles .
migrantiMIGRANTI

Si firma o non si firma?  Si va o non si va a Marrakech,  che di suo e’ un bel posto,  per un weekend? No, non si firma e non si va, e checché se ne scriva, sarà difficile che su questa nuova parola mantra e sconosciuta, Global Compact, (ehi, ma  non vi ricorda il Fiscal Compact?) cada il governo o voti a sorpresa lo stesso Parlamento che ha appena votato la nuova normativa sull'immigrazione, 396 contro 249.

Nella libera Repubblica della Camera di Roberto FIco per la verità lo firmano sicuro; vanno come treni, hanno rotto le relazioni con l'Egitto e deciso che il Global Compact serve all'Italia per non isolarsi.

Fuori, nel mondo cattivo, non è proprio così, nel senso che basterebbe leggersi il testo del decreto sicurezza e migrazione, appena approvato anche con il voto dei compagni di partito del presidente Fico, con 36 in tutto non pervenuti tra 22 in missioni all'estero e 14 in gita alla toilette, per capire che le due decisioni e relative scelte non sono compatibili. Se hai votato il decreto sicurezza immigrazione del governo Conte non puoi firmare il  Global compact for safe, orderly and regular migration” e il “Global compact on Refugees” il 10 e 11 dicembre a Marrakech. Se ti è piaciuto uno, come piace alla maggioranza schiacciante degli italiani, o te lo sei fatto piacere, non puoi aderire all'altro. Vediamo perché.
conte salvini di maioCONTE SALVINI DI MAIO

Andiamo per ordine. L’intesa, denominata anche ‘Dichiarazione di New York’,  è stata firmata all’Assemblea generale dell’Onu nel settembre 2016 da 190 Stati, Italia compresa. Tra il 10 e 11 dicembre, questi stessi Paesi sono chiamati ad aderire volontariamente e formalmente all’accordo nel summit di Marrakech, in Marocco.

Da due giorni è chiaro, dopo l'annuncio di Matteo Salvini subito dopo confermato del premier Giuseppe Conte, che l’Italia non parteciperà al vertice. La questione sarà rimessa nelle mani del Parlamento, seguendo così l’esempio della Svizzera, mentre tutti i Paesi del gruppo di Visegrad così come l'Austria, l'Australia, Israele, gli Stati Uniti, hanno deciso di far decidere ai rispettivi governi.

Perché l'Italia non segue lo stesso metodo? Elementare Watson, perché Conte a settembre a New York all'Assemblea delle Nazioni Unite aveva incautamente confermato il sì e la presenza  italiani, e poi, paventando e cercando di evitare, non si sa bene a quale titolo e con quali speranze di successo,  il no che è seguito, riferendo in Parlamento, il ministro degli Esteri, Moavero Milanesi, aveva addirittura espresso un sostegno entusiastico. Qualcuno ci ha provato, non resta che il Parlamento.
DONALD TUSK ANGELA MERKEL GIUSEPPE CONTE MOAVERODONALD TUSK ANGELA MERKEL GIUSEPPE CONTE MOAVERO

Il Global Compact for Migration è composto da 23 obiettivi e 54 punti per un totale di 34 pagine consultabili in lingua inglese.

Nel preambolo è scritto che «i rifugiati e i migranti sono titolari degli stessi diritti umani universali e delle stesse libertà fondamentali, che devono essere rispettate, protette e garantite in ogni momento”. Che vuol dire?  Che si intende equiparare lo status di rifugiati e quello di immigrati, applicando le tutele speciali dei profughi di guerra anche agli immigrati irregolari. Lai differenza tra rifugiati e «migranti economici» verrebbe di fatto a cadere.

Che c'entra la cancelleria tedesca nell'operazione del Global compact? Lo ha scritto Die Welt che “l’obiettivo del Global Compact è immigrazione illimitata e uguali diritti per tutti. Il fulcro del patto Onu sull’immigrazione sta nella regolamentazione di un’immigrazione caotica di richiedenti asilo, profughi di guerra e altri migranti attraverso la legalizzazione dell’immigrazione illegale”.

E una nota del ministero degli Esteri tedesco conferma che «nel 2016 e 2017 il governo federale ha via via intensificato la sua collaborazione con le Nazioni Unite in questo ambito. La Germania ha contribuito attivamente all’elaborazione di entrambi gli accordi con proposte per la stesura dei rispettivi testi». Capito?
moavero salviniMOAVERO SALVINI

Punto 8 del documento. «Le migrazioni hanno sempre fatto parte dell’esperienza umana nel corso della storia, e le valutiamo pertanto come una fonte di prosperità, innovazione e sviluppo sostenibile nel nostro mondo globalizzato».

António Guterres, l’attuale segretario generale dell’Onu: «Voglio essere chiaro: quello migratorio è un fenomeno globale positivo, che alimenta la crescita economica, riduce le ineguaglianze, connette società diverse e ci consente di affrontare l’ondivago andamento demografico di crescita e declino della popolazione».

Che cos'è allora il Global compact?

“Per I governanti si tratta di un’occasione senza precedenti per affrontare i pregiudizi contro i migranti e per sviluppare una visione comune in cui l’immigrazione può funzionare in tutte le nostre nazioni»

Con quali vincoli? Articolo 24, paragrafo a: “Assicurare che l’assistenza di natura umanitaria non sia considerata illegale”. Ovvero le ONG, la cui attività è finita abbondantemente sotto accusa perché oltre al soccorso andavano a prendere sottocosta libica i barconi, le quali hanno operato nel Mediterraneo negli ultimi anni, tornerebbero libere di operare perché si tratta di assistenza umanitaria.

Il controllo dei confini? La sovranità delle nazioni? Dopo mesi di dibattito, basterebbe una firma per cambiare tutto.

ANTONIO GUTERRESANTONIO GUTERRES
Non basta, all'obiettivo 16 si dice che i Paesi firmatari “si impegnano a garantire agli immigrati  previdenza sociale e  lavoro commisurato alle competenze di ognuno”.

C'è anche un punto espressamente dedicato a come ti erudisco il pupo, o se preferite direttamente alle fake news.

«Dobbiamo fornire a tutti i nostri cittadini l’accesso a informazioni obiettive, chiare e corroborate dai fatti sui vantaggi e le sfide delle migrazioni, al fine di combattere narrazioni fuorvianti che generano percezioni negative dei migranti». .
Fin qui una descrizione dei propositi del Global compact. Ora, basta un'occhiata rapida ai punti salienti del decreto Salvini che ora è legge, per capire che proprio non ci siamo.

Le misure vanno dall'abrogazione dell'istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari al restringimento dell'azione degli Sprar, dai trattenimenti più lunghi nei Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri) a norme più severe per la concessione della cittadinanza.

LUCIANO BARRA CARACCIOLOLUCIANO BARRA CARACCIOLO
Tutta un'altra direzione, e a chi obietta che quelle del Global Compact dell'ONU sono dichiarazioni di intenti che non obbligano le nazioni si può rispondere come fa in un Tweet fulminante il costituzionalista Luciano Barra Caracciolo, Sottosegretario agli Affari Europei a Palazzo Chigi, che “non si può ignorare che il global migration compact è applicativo di dichiarazioni Assemblea NU, onde rafforza formazione del diritto internazionale generale che, ai sensi art.10 Cost, finirebbe per essere assai vincolante, portando alla dichiarazione di incostituzionalità delle leggi italiani contrastanti”.’ Un cavallo di Troia.

Fonte: qui

This Is How The "Everything Bubble" Will End

I think there’s a very high chance of a stock market crash of historic proportions before the end of Trump’s first term.
That’s because the Federal Reserve’s current rate-hiking cycle, which started in 2015, is set to pop “the everything bubble.”
I’ll explain how this could all play out in a moment. But first, you need to know how the Fed creates the boom-bust cycle…
To start, the Fed encourages malinvestment by suppressing interest rates lower than their natural levels. This leads companies to invest in plants, equipment, and other capital assets that only appear profitable because borrowing money is cheap.
This, in turn, leads to misallocated capital – and eventually, economic loss when interest rates rise, making previously economic investments uneconomic.
Think of this dynamic like a variable rate mortgage. Artificially low interest rates encourage individual home buyers to take out mortgages. If interest rates stay low, they can make the payments and maintain the illusion of solvency.
But once interest rates rise, the mortgage interest payments adjust higher, making them less and less affordable until, eventually, the borrower defaults.
In short, bubbles are inflated when easy money from low interest rates floods into a certain asset.
Rate hikes do the opposite. They suck money out of the economy and pop the bubbles created from low rates.

It Almost Always Ends in a Crisis

Almost every Fed rate-hiking cycle ends in a crisis. Sometimes it starts abroad, but it always filters back to U.S. markets.
Specifically, 16 of the last 19 times the Fed started a series of interest rate hikes, some sort of crisis that tanked the stock market followed. That’s around 84% of the time.
You can see some of the more prominent examples in the chart below.
Let’s walk through a few of the major crises…
• 1929 Wall Street Crash
Throughout the 1920s, the Federal Reserve’s easy money policies helped create an enormous stock market bubble.
In August 1929, the Fed raised interest rates and effectively ended the easy credit.
Only a few months later, the bubble burst on Black Tuesday. The Dow lost over 12% that day. It was the most devastating stock market crash in the U.S. up to that point. It also signaled the beginning of the Great Depression.
Between 1929 and 1932, the stock market went on to lose 86% of its value.
• 1987 Stock Market Crash
In February 1987, the Fed decided to tighten by withdrawing liquidity from the market. This pushed interest rates up.
They continued to tighten until the “Black Monday” crash in October of that year, when the S&P 500 lost 33% of its value.
At that point, the Fed quickly reversed its course and started easing again. It was the Chairman of the Federal Reserve Alan Greenspan’s first – but not last – bungled attempt to raise interest rates.
• Asia Crisis and LTCM Collapse
A similar pattern played out in the mid-1990s. Emerging markets – which had borrowed from foreigners during a period of relatively low interest rates – found themselves in big trouble once Greenspan’s Fed started to raise rates.
This time, the crisis started in Asia, spread to Russia, and then finally hit the U.S., where markets fell over 20%.
Long-Term Capital Management (LTCM) was a large U.S. hedge fund. It had borrowed heavily to invest in Russia and the affected Asian countries. It soon found itself insolvent. For the Fed, however, its size meant the fund was “too big to fail.” Eventually, LTCM was bailed out.
• Tech Bubble
Greenspan’s next rate-hike cycle helped to puncture the tech bubble (which he’d helped inflate with easy money). After the tech bubble burst, the S&P 500 was cut in half.
• Subprime Meltdown and the 2008 Financial Crisis
The end of the tech bubble caused an economic downturn. Alan Greenspan’s Fed responded by dramatically lowering interest rates. This new, easy money ended up flowing into the housing market.
Then in 2004, the Fed embarked on another rate-hiking cycle. The higher interest rates made it impossible for many Americans to service their mortgage debts. Mortgage debts were widely securitized and sold to large financial institutions.
When the underlying mortgages started to go south, so did these mortgage-backed securities, and so did the financial institutions that held them.
It created a cascading crisis that nearly collapsed the global financial system. The S&P 500 fell by over 56%.
• 2018: The “Everything Bubble”
I think another crisis is imminent…
As you probably know, the Fed responded to the 2008 financial crisis with unprecedented amounts of easy money.
Think of the trillions of dollars in money printing programs – euphemistically called quantitative easing (QE) 1, 2, and 3.
At the same time, the Fed effectively took interest rates to zero, the lowest they’ve been in the entire history of the U.S.
Allegedly, the Fed did this all to save the economy. In reality, it has created enormous and unprecedented economic distortions and misallocations of capital. And it’s all going to be flushed out.
In other words, the Fed’s response to the last crisis sowed the seeds for an even bigger crisis.
The trillions of dollars the Fed “printed” created not just a housing bubble or a tech bubble, but an “everything bubble.”
The Fed took interest rates to zero in 2008. It held them there until December 2015 – nearly seven years.
For perspective, the Fed inflated the housing bubble with about two years of 1% interest rates. So it’s hard to fathom how much it distorted the economy with seven years of 0% interest rates.

The Fed Will Pop This Bubble, Too

Since December 2015, the Fed has been steadily raising rates, roughly 0.25% per quarter.
I think this rate-hike cycle is going to pop the “everything bubble.” And I see multiple warning signs that this pop is imminent.
• Warning Sign No. 1 – Emerging Markets Are Flashing Red
Earlier this year, the Turkish lira lost over 40% of its value. The Argentine peso tanked a similar amount.
These currency crises could foreshadow a coming crisis in the U.S., much in the same way the Asian financial crisis/Russian debt default did in the late 1990s.
• Warning Sign No. 2 – Unsustainable Economic Expansion
Trillions of dollars in easy money have fueled the second-longest economic expansion in U.S. history, as measured by GDP. If it’s sustained until July 2019, it will become the longest in U.S. history.
In other words, by historical standards, the current economic expansion will likely end before the next presidential election.
• Warning Sign No. 3 – The Longest Bull Market Yet
Earlier this year, the U.S. stock market broke the all-time record for the longest bull market in history. The market has been rising for nearly a decade straight without a 20% correction.
Meanwhile, stock market valuations are nearing their highest levels in all of history.
The S&P 500’s CAPE ratio, for example, is now the second-highest it’s ever been. (A high CAPE ratio means stocks are expensive.) The only time it was higher was right before the tech bubble burst.
Every time stock valuations have approached these nosebleed levels, a major crash has followed.

Preparing for the Pop

The U.S. economy and stock market are overdue for a recession and correction by any historical standard, regardless of what the Fed does.
But when you add in the Fed’s current rate-hiking cycle – the same catalyst for previous bubble pops – the likelihood of a stock market crash of historic proportions, before the end of Trump’s first term, is very high.
That’s why investors should prepare now. One way to do that is by shorting the market. That means betting the market will fall.
Keep in mind, I’m not in the habit of making “doomsday” predictions. Simply put, the Fed has warped the economy far more drastically than it did in the 1920s, during the tech or housing bubbles, or during any other period in history.
I expect the resulting stock market crash to be that much bigger.
Authored by Nick Giambruno via InternationalMan.com


The Cracks Appear: A Record $90 Billion A-Rated Bonds Downgraded To BBB In Q4

Having written about it for over a year, it sometimes feels like the topic of "fallen angel" bonds, and the danger they present to the broader credit market and overall economy has been beaten to death (see most recently"The $6.4 Trillion Question: How Many BBB Bonds Are About To Be Downgraded").
But what if the market is focusing on the wrong tier when it comes to the upcoming downgrade deluge? What if instead of BBB credits, whose downgrade risk is, or should be, largely priced in by now (although the recent plunges in GE and PG&E bonds put this assumption to doubt) the real risk is just above the pre-fallen angel tier?
That's the point made by Goldman Sachs overnight, which argues that while some of the "BBB risks" warrant close monitoring, the bank's credit analysts "continue to struggle to see any recent developments that would make BBB-rated bonds a canary in a coal mine." To support their claim that BBB is not the time bomb many others claim it is, Goldman shows that BBB spreads have moved largely in line with their A-rated peers, while demonstrating that BBB bonds have not been an outsized source of weakness in IG.
The bank's assessment is that in the absence of a full-blown recession, downgrade risk among BBB-rated issuers is likely to remain  contained to structurally and cyclically challenged sectors and firms. As a result, Goldman's credit analysts view the risks as most pronounced in sectors including Food and Beverage, Retail/Consumer, and Autos. Meanwhile, they see value in other BBB-heavy  sectors such as Banks and Telecom.
In any case, the bottom line is that according to Goldman at least, investors should not be worried about BBB (that said, on Nov 1 Goldman told clients to buy oil; what followed next was the worst month for oil in 10 years).
So if not BBB, then where is the biggest credit risk in the investment grade space?
According to Goldman, the more pronounced risk facing IG investors, is a wave of downgrades among firms rated A and AA.
In our view, these companies are more likely to use their debt capacity for shareholder returns and/or M&A to diversify their businesses. In contrast, firms at the cusp of HY ratings should be inclined to manage their balance sheets more conservatively.
Is Goldman right this time? Who knows, but recent rating actions suggest that the bank may have a point: in the fourth quarter alone, a record $90 billion worth of "pre-fallen angel" were downgraded to BBB from A, and Goldman adds that the risk "remains skewed towards further negative actions."
But while rating agencies are clearly adding to the pre-fallen angel camp, there is no denying that the big threat is what happens if and when the BBB downgrade deluge begins. As Deutsche Bank calculated last week, when looking at those bonds most at risk of getting junked, $150bn of the $736bn of BBB- bonds are currently on negative watch/outlook with at least one rating agency, and in danger of imminent "junking."
And while Goldman remains clearly complacent about the BBB space at least until a recession hits, as Deutsche Bank warned last week, even before we get to an economic slowdown - some time in 2020 - or even before the market start pricing the slowdown in, "it feels like the tide might be turning and we start to see fallen angels outpace rising stars over the next year."

So there you have it: for those who believe a recession is either imminent or will soon be priced in, keep shorting the BBB space. Meanwhile, those who think it will take some more time before the rating agencies filter out the noise, the best place to be short is those "pre-fallen" A bonds who will first become BBBs, before they too join the deluge into the junk space some time around late 2019/early 2020.
Fonte: qui