9 dicembre forconi: 09/23/18

domenica 23 settembre 2018

Bollette, il boom dei prezzi della CO2 fa aumentare luce e gas

L'estate di fuoco dell’energia non è ancora finita. Ora anche i prezzi del petrolio si sono rimessi a correre, riportando il Brent vicino a 80 dollari al barile, ai massimi da quattro anni. È l’ennesimo record, che sui mercati europei si aggiunge a quelli registrati da elettricità, gas, carbone: una sequenza impressionante di rincari – trainati soprattutto, ma non solo dal rally della CO2 – che minaccia di pesare sulle nostre bollette.
Per le imprese si profila un rincaro del 10% per l’elettricità e del 30% per il gas, secondo stime elaborate da Energindustria, consorzio promosso da Confindustria Vicenza. E anche per le famiglie il conto potrebbe essere salato, a meno di una brusca inversione di tendenza sui mercati dell’energia all’ingrosso. Negli ultimi giorni a dire il vero qualche seduta ribassista c’è stata. Ma la volatilità, provocata anche da fenomeni speculativi, è altissima e carica ogni previsione di incertezza. Gli scossoni più forti si sono verificati sul mercato dei diritti per l’emissione di anidride carbonica, in parole povere  i «permessi per inquinare», che utilities e società energivore in Europa sono obbligate a comprare per compensare la CO2 che scaricano in atmosfera: il prezzo è sceso di quasi il 20% la scorsa settimana, ma in questo modo ha solo cancellato il balzo che aveva fatto in un paio di sedute.
Prezzo della CO2 quintuplicato
Rispetto a un anno fa il prezzo della CO2 è quasi quintuplicato, superando 25 euro per tonnellata (ieri sfiorava 21 €): livelli raggiunti molto in fretta, con lo zampino di alcuni hedge funds e di aggressive operazioni di copertura dai rischi condotti da alcune grandi società, ma che trovano una giustificazione fondamentale nella riforma europea che dal 2019 imporrà il ritiro dalla circolazione del surplus di permessi che si era creato con la recessione e che manteneva i prezzi troppo bassi: una situazione che impediva al mercato di svolgere la sua funzione, che è quella di stimolare l’efficienza e l’impiego delle fonti energetiche più pulite.

Le rinnovabili non bastano
L’obiettivo rimane però sfuggente. Anche il gas – meno inquinante del carbone e prezioso per la transizione verso un futuro a zero emissioni – è aumentato di prezzo nelle settimane scorse, a livelli mai visti nel periodo estivo: oltre 28 euro per Megawattora sui principali hub europei. Le rinnovabili intanto sono sì avvantaggiate dai costi record della CO2 e del carbone (anche questo salito ai massimi da 5 anni in Europa), ma fino a poco tempo fa hanno deluso le aspettative: nel Vecchio continente c’è stato molto sole l’estate scorsa, ma non altrettanto vento. E anche altre fonti sono state penalizzate.

«Le temperature hanno raggiunto livelli eccezionalmente alti anche nel Nord Europa – spiega Leonardo Zampiva, direttore di Energindustria – Questo oltre a determinare un grande aumento dei consumi, ha portato a una riduzione della produzione idroelettrica e ha imposto un freno alle centrali nucleari francesi per la scarsità di acqua necessaria al raffreddamento. Tutto ciò ha inciso infine inevitabilmente sui costi delle materie prime energetiche». Secondo i dati del consorzio le quotazioni di questi giorni della componente energia all’ingrosso per l’anno 2019 valgono circa 68-70 euro per Megawattora, mentre nello stesso periodo dello scorso anno le quotazioni fisse per il 2018 si attestavano a circa 48 €/MWh, con un aumento del prezzo dell’energia di quasi il 45% in un anno.
L'IMPENNATA DELLE QUOTAZIONI 
Prezzo delle quote di emissione di anidride carbonica nel mercato europeo in euro per tonnellata. (Fonte: www.eex.com)
Prezzi del gas +50%
«Tenuto conto del fatto che per un’azienda non energivora la componente energia pesa per il 30% circa sul totale in fattura, l’aumento dei costi della bolletta elettrica previsto per il prossimo anno potrebbe essere del 10-13% – rileva il presidente del consorzio Carlo Brunetti – Non va meglio per quanto riguarda il gas naturale, perché le quotazioni di questi giorni per il prossimo inverno sono circa del 50% superiori rispetto a 12 mesi fa, cosa che comporta un impatto sui costi per le imprese che potrebbe arrivare a un +30-40% in bolletta».

«Considerando il medesimo periodo di riferimento mai prima d’ora si era assistito a un simile rincaro», osserva Brunetti. «Continueremo a mettere in atto tutte le strategie utili a limitare gli effetti dei rialzi di prezzo, a partire dal giornaliero monitoraggio dei mercati fino all’esercizio del nostro forte potere contrattuale legato ai grandi volumi trattati». La sfida è impegnativa. Anche i prezzi all’ingrosso dell’elettricità si sono messi a correre (con punte addirittura oltre 120 €/MWh nel corso della giornata per il PUN), entrando in una perversa spirale rialzista: da un lato inseguono il rally della CO2 e i rincari di qualsiasi fonte fossile, dall’altro contribuiscono ad alimentarli, perché i margini nella generazione elettrica rimangono elevati. Persino per le centrali più inquinanti.

Il quadro è completato da consumi molto elevati e da un’intensa attività degli operatori sul mercato, con fenomeni speculativi probabilmente anche sui mercati fisici e certamente su quelli dei derivati. È della scorsa settimana la notizia di un trader norvegese che, scommettendo sulla differenza dei prezzi dell’elettricità in Scandinavia e in Germania, è incorso in perdite così forti da provocare un buco di oltre 100 milioni di euro nel fondo di garanzia del Nasdaq. Fonte: ilSole24Ore

L’Italia è un Paese che odia i cervelli

Stranieri, donne, giovani. Nella classifica delle categorie sociali più discriminate in Italia il podio è questo,decidete voi in che ordine. La novità, semmai, è che a queste tre categorie si aggiunge un attributo dirimente. Anche in questo caso, scegliete voi come definirlo – la cultura, l’intelligenza, il titolo di studio -, ma l’importante è che non ve lo dimentichiate, perché dice molto del Paese in cui solo il 18% della popolazione è laureato, penultimi nell’area Ocse, davanti al solo Messico, contro il 37% del dato medio e il 46% di Regno Unito e Usa: un Paese che odia i cervelli, che non sa cosa farsene, che li vorrebbe lontano. E che poi, dopo aver buttato nel cesso la più importante risorsa economica a sua disposizione, in assenza di capitale e risorse naturali, ulula alla Luna contro l’invasione dei migranti e l’Europa cattiva.

Funzioniamo così, c’è poco da fare: ad alibi e invidia sociale verso chi ne sa più di noi. E se non è sufficiente guardarsi attorno per scoprirlo, ci sono sempre i numeri del rapporto “Education at a glance” che l’OCSE pubblica ogni anno, a certificarlo. I numeri dell’edizione 2018, in questo senso, sono più che impietosi. Ad esempio, scopriamo che la distanza tra il tasso di occupazione italiano (più basso) e quello medio dei Paesi Ocse (più alto) aumenta più il grado d’istruzione sale. La diciamo meglio, se volete: all’estero, più studi più lavori. Da noi, molto, molto meno. Talmente assurdo da stropicciarsi gli occhi, per sperare di aver letto male.

Lo sapevate che la spesa per studente, tra il 2010 e il 2015 è diminuita del 7%, anziché aumentare? Che rispetto alla media Ocse l’Italia spende il 27% per ogni singolo studente universitario? Che l’Italia è il Paese Ocse con gli insegnanti più anziani? O che è uno dei pochi al mondo in cui il valore reale dello stipendio di un’insegnante è sceso di 7 punti percentuali tra il 2010 e il 2016?

E non è il solo dato assurdo, che certifica il nostro odio per il sapere: lo sapevate, ad esempio, che la spesa per studente, tra il 2010 e il 2015 è diminuita del 7%, anziché aumentare? Che rispetto alla media Ocse l’Italia spende il 27% per ogni singolo studente universitario? Che l’Italia è il Paese Ocse con gli insegnanti più anziani? O che è uno dei pochi al mondo in cui il valore reale dello stipendio di un’insegnante è sceso di 7 punti percentuali tra il 2010 e il 2016? Anni di inflazione zero, se non ricordiamo male. Come lo volete chiamare, questo, se non odio per il sapere? Come, se non menefreghismo assoluto – o, peggio: totale disinvestimento – per le giovani generazioni?

Se poi si tratta di donne e stranieri le cose peggiorano ulteriormente. Perché tanto siamo bravi a preconfezionare discorsi sulla parità di genere e a piangere lacrime di coccodrillo sui cervelli che partono e su quelli che non arrivano, tanto siamo campioni del mondo a fare l’esatto opposto nel concreto. Le donne, ad esempio, si laureano più degli uomini: il 33% sul totale, contro il 20% dei maschietti, ha il pezzo di carta in tasca. Però, storia vecchia, lavorano meno, hanno stipendi più bassi e possibilità di carriera molto più limitate. Quanto questo generi frustrazione, ce lo spiega benissimo un dato Ocse mai abbastanza sottolineato: che la percentuale record di giovani che non studiano né lavorano, tra le donne, raggiunge la percentuale record del 40%. Dieci punti più del dato medio italiano, che già di suo è doppio rispetto al dato mondiale. Applausi.

Per gli stranieri, poi, l’ipocrisia è doppia, se non tripla. Perché tutto questo avviene mentre ci lamentiamo dei cervelli che scappano e pure delle braccia che arrivano, senza comprendere che è lo stato di cose a cui ci stiamo deliberatamente auto-condannando. Ad esempio, siamo il Paese che più uno straniero è qualificato, meno lo paga. Sembra impossibile, ma è così: i giovani stranieri tra i 25 e i 34 anni non istruiti guadagnano meno del 12% dei loro coetanei italiani, mentre quelli con un’istruzione secondaria guadagnano il 30% in meno. I laureati? Il 44% in meno. Non stupisce, pertanto, che solo il 5% degli studenti universitari sia straniero, contro il 6% di media dei Paesi Ocse e il 9% dell’Europa a 23. O che tra il 2012 e il 2016 la percentuale di studenti stranieri in Italia è cresciuta del 12%, mentre quella degli studenti italiani all’estero del 36%. E non chiamatela fuga di cervelli, per cortesia: siamo noi che li mandiamo via a calci nel sedere.

Spagna al Tramonto

Il più spagnolo e insieme più universale degli intellettuali spagnoli del Novecento fu José Ortega y Gasset. Autore della Ribellione delle masse, delle Meditazioni del Chisciotte e di tanti altri testi filosofici, storici e sociologici, spiegò la sua idea di Spagna in un libro dal titolo definitivo, Spagna invertebrata. Sulle tracce del declino della sua patria dopo le sconfitte politiche e militari di fine Ottocento, tratteggiò il quadro di una nazione destinata al disfacimento. Chissà che cosa penserebbe don José se potesse vedere la Spagna d’inizio XXI secolo. Forse, sulle tracce di un altro grande pensatore della sua epoca, Miguel de Unamuno, scriverebbe qualcosa di simile a Nebbia o al Sentimento Tragico della Vita, i capolavori del professore di Bilbao.
La Spagna contemporanea è lo specchio del tramonto dell’Europa e fa impressione che ne rappresenti geograficamente l’estremo occidente. Un tramonto che sbigottisce. Anni fa, discutendo con un colto conoscente di origine spagnola, affermammo che difficilmente la vecchia nazione di Cervantes e dei Re Cattolici sarebbe sopravvissuta al 2020. Temiamo che sia così. E’ buona regola per chi osserva il paese nostro vicino apparentemente simile ma tanto diverso, parlare di Spagne al plurale. Non solo per l’esistenza delle diverse particolarità regionali, catalana, basca, galiziana, ma soprattutto per la sfida secolare tra due modi opposti di essere Spagna. Uno è quello della tradizione cattolica, monarchica, nazionale e universale di ascendenza castigliana, l’altro è quello del suo contrario speculare. La Spagna ferocemente antireligiosa, nemica di se stessa, massonica e poi filobolscevica, ipermodernista, separatista nelle modalità diverse del nazionalismo etnico basco e di quello economico catalano.
La lotta tra le due Spagne è in corso da almeno tre secoli, ma per la prima volta l’esito pare definitivo a favore dell’anti Spagna. La democrazia post franchista ha diffuso benessere, promosso una modernizzazione rapidissima, il cambio accelerato di tutti i paradigmi sociali, culturali, civili vigenti da molte generazioni, un laboratorio di ingegneria antropologica che ha anticipato molti paesi. Fu la Spagna del socialista Zapatero la prima a legalizzare il matrimonio omosessuale, estendere la legislazione sull’aborto alle minorenni e perfino a promulgare una legge a difesa dei primati superiori, le scimmie, equiparate in parte agli esseri umani.
Autentiche rivoluzioni culturali promosse senza vere opposizioni dai governi di un partito che si fa chiamare socialista, operaio e spagnolo, ma che nega nei fatti il suo stesso nome. Il PSOE è un partito liberale progressista, indifferente alla dissoluzione nazionale e allineato con le prescrizioni liberiste delle oligarchie europee. La Spagna mantiene, insieme al poco invidiabile record della disoccupazione, quello del precariato e del lavoro a tempo determinato. La sua struttura industriale resta debole, in compenso la finanziarizzazione dell’economia e del potere è più avanzata di quella italiana. Ha abolito prima di noi il servizio militare obbligatorio, stanca di rincorrere la renitenza diffusa di molti giovani, specie baschi e catalani. Nell’opera di smantellamento progressivo delle strutture dello Stato nazionale, ha ceduto sovranità verso l’alto- le prescrizioni dell’Unione Europea sono seguite dai governi senza fiatare, a costo dell’impopolarità – e verso il basso – con uno “Stato delle autonomie”, questo è il nome del regionalismo spagnolo, che ha pressoché cancellato la presenza dello Stato nazionale in Catalogna e nel Paese Basco, rapidamente imitate dalle altre regioni.
A governi locali – si chiamano proprio governi – di impronta separatista e antinazionale è stato consentito di controllare in termini esclusivi la sanità, la scuola, il welfare e addirittura dotarsi di polizie autonome. Il risultato è che alcune decine di migliaia di uomini armati della basca Ertzainza e dei Mossos de Esquadra catalani non rispondono, di fatto, al ministero degli interni, ma alla sua caricatura locale. L’unico argine alla dissoluzione è la monarchia, ma gli sforzi di Felipe VI, salito al trono alcuni anni fa per l’abdicazione del padre Juan Carlos, si infrangono contro le malversazioni e il discredito della casata. Una delle sue sorelle, Cristina, allontanata dalla Spagna e dalla vita istituzionale, ha il marito il carcere. La sua assoluzione nel processo è risultata assai dubbia. Il vecchio sovrano Juan Carlos, circondato da amanti, è accusato da una di esse di possedere conti milionari in Svizzera frutto di tangenti per affari. E’ nota la sua antica familiarità con il politico che ha costruito l’impianto istituzionale e l’humus civile antispagnolo in Catalogna, Jordi Pujol.
Il Partito Popolare, di centro destra, non ha mai contrastato le derive socialiste sui temi etici e tanto meno ha mantenuto il ruolo di equilibrio nazionale avverso ai cedimenti separatisti, i quali hanno raggiunto ormai numerose regioni, dalla Navarra filo basca al Levante di Valencia sino alle Isole Baleari e persino le Asturie, culla della patria spagnola. Piagato da una corruzione impressionante, il PP ha mal governato la nazione nonostante il larghissimo mandato ottenuto dopo il fallimento di Zapatero, senza risolvere, anzi aggravando, i problemi lasciati dal governo precedente.
Investito dalla crisi del 2007/2008, l’esplosione della bolla finanziaria immobiliare dell’apparente boom economico spagnolo, il PP del grigio Rajoy ha obbedito a tutte le prescrizioni dell’UE e del sistema finanziario. L’esito è stato un diffuso impoverimento unito alla crescita esponenziale di movimenti neocomunisti, periodico rigurgito dell’anti Spagna dagli anni 20 del secolo scorso, e all’aumento dell’influenza del separatismo catalano e basco. A Barcellona sono convinti di pagare per tutti, ed è questa una delle ragioni dell’auge nazionalista, mentre a Bilbao da anni ottengono privilegi fiscali, fino all’assurdo di trattenere in loco attraverso l’agenzia fiscale regionalizzata tutte le imposte, negoziando di anno in anno le somme da destinare allo Stato.
La fine ingloriosa di Rajoy, travolto dall’incapacità di affrontare la sfida catalana (non è riuscito neppure a ottenere l’estradizione di Puigdemont, simbolo del golpe catalano, riparato in Belgio e Germania) azzoppato da scandali di corruzione del suo partito, ha riportato al governo, con una manovra di palazzo rimasta oscura, un indebolito Partito Socialista, guidato da un mediocre uomo d’apparato, Pedro Sànchez. Tutte le anti Spagne si sono coalizzate dietro di lui, a capo di un esecutivo sostenuto dal forte partito para comunista Podemos (una sorta di Liberi e Uguali più estremista), nonché dall’intero separatismo basco e catalano, di destra e di sinistra. Il risultato dei primi cento giorni di governo è il rafforzamento dei nazionalismi, lo stallo economico e un provvedimento incredibile chiamato legge della memoria storica.
La salma di Francisco Franco, morto nel novembre 1975, sarà esumata e verrà smantellata la Valle de Los Caìdos, il grande mausoleo in cui il generale galiziano volle seppellire insieme i caduti falangisti e repubblicani della guerra civile del 1936/39. Il Partito Popolare, passato nelle mani di un giovane cattolico, Pablo Casado, non ha avuto il coraggio politico del voto contrario, limitandosi a un’imbarazzata astensione sgradita a militanti ed elettori. La nuova Spagna, paradigma dell’Europa, ignora la storia, ha paura dei morti, nega la pacificazione che fu carta vincente del dopo Franco, in un’oscena battaglia funeraria in ritardo di 40 anni. Soprattutto, è ansiosa di abbattere l’immensa croce che Franco fece erigere in cima al sacrario, simbolo di una fede antica rigettata con odio impressionante.
Il governo vuole a ogni costo abolire la trasmissione televisiva della messa domenicale. Sono note le polemiche di Sànchez contro l’Italia in materia di immigrazione, pur nel pugno durissimo contro le infiltrazioni africane attraverso i muri elettronici di Ceuta e Melilla, enclave spagnole in Africa. La Spagna, peraltro, si è riempita di immigrati prima e più dell’Italia, nonostante i drammatici problemi di occupazione, in un disegno di denazionalizzazione chiarissimo, specie in Catalogna. Contemporaneamente, non riesce a contenere il potere delle narco mafie, in grado di controllare capillarmente il territorio della zona prospiciente Gibilterra e Algeciras, di fronte al Marocco.
Sànchez ha ora un ulteriore problema, quello della sua tesi di laurea, che qualcuno ritiene taroccata, dopo aver imposto le dimissioni a uno dei ministri chiave del governo, Carmen Montòn, ministra della sanità; il femminile è un obbligo grammaticale della lingua castigliana. La piacevole signora, uno dei nuovi simboli del progressismo madrileno, è accusata di plagio del master universitario e ha dovuto lasciare la carica. Il punto, tuttavia, non è il merito della questione, ma l’impressionante contenuto della tesi dell’onorevole signora ministra, simbolo della deriva spagnola, europea, occidentale.
L’elaborato si centra nella descrizione della tecniche di procreazione assistita, considerate come “un chiaro elemento del patriarcato”. Per Carmen Montòn, medico, accesa sostenitrice della teoria del genere, a causa dei complicati trattamenti a cui la donna deve sottoporsi “la medicina e le tecniche di riproduzione assistita contengono chiaramente parametri sessisti” Per questa esponente di vertice della classe dirigente di un grande paese europeo, tali tecniche simbolizzano l’oppressione verso la donna. La prova? “La complessità che implica estrarre un ovulo rispetto alla facilità di ottenere il seme.“  Tombola. Da medico, non la sfiora il sospetto che la ragione stia nella diversa fisiologia maschile e femminile. No, è tutta colpa del patriarcato. Non potendo prendersela direttamente con il Creatore o con la natura, ha però smascherato il colpevole, il maschio della specie umana.
E’ solo l’inizio, giacché l’ineffabile ex ministra se la prende con la famiglia e le madri, anch’ esse eterodiette dall’eteropatriarcato. La famiglia, sostiene, “è la sconfitta storica del sesso femminile, la rovina di ciascuna donna.” Nonne, madri e figlie di ogni tempo sono delle “fallite” e delle “sconfitte” per essersi sposate e aver avuto figli, anzi “procreato”. Forse è per questo che nel breve periodo di gestione del ministero ha legiferato a favore della procreazione assistita di donne sole. Altra sconcertante citazione della tesi è “tutte sono figlie orfane, senza madre”, uno sproposito tratto da un testo di un’altra femminista, la scrittrice Victoria Sau, autrice de La Maternità Vuota. L’ispiratrice ideologica le ha suggerito quest’altra perla: “la maternità è stata fagocitata dalla paternità, semplice ruolo assegnato alle donne assoggettate al suo servizio. Per questo, la condizione di figlie orfane è comune a tutte le donne.“  Dopo aver pensato, scritto e pubblicato quanto sopra, le nominano al governo. Nessuna meraviglia per la dissoluzione incipiente e l’abisso in cui precipitiamo.
Non basta, poiché l’elaborato così prosegue: “il patriarcato, come sistema economico, politico e sociale che opprime e subordina la donna, si sostenta e riproduce attraverso istituzioni che operano in maniera costante. Due delle istituzioni più importanti del sistema patriarcale sono la maternità e la famiglia.” Una nota umoristica in un quadro raggelante: non avevamo mai immaginato la maternità come un’istituzione! Lei medico “non capisce perché tutto il peso dei trattamenti riproduttivi ricada sulla donna”, cosa che “nella prospettiva del genere, non accadrebbe nella medicina”.  Una scienza nuova altamente innovativa, indifferente alla circostanza (istituzionale?) che è la donna a partorire. Segue un’accusa alla ginecologia, colpevole di alleanza con l’aborrito patriarcato.
La conclusione è contundente: “la maternità è schiavitù, la maternità è servitù, anche se è desiderata e volontaria. Le donne si vedono obbligate a generare e partorire dal patriarcato. (Un attacco a Dio, o a “madre” Natura? N. d. R.) Bisogna estirpare l’idea che la maternità sia qualcosa di naturale. La maternità è una costruzione sociale, una posizione, un ruolo”. Nessuno si stupisca più per la deriva delle nostre società, dal momento che sciocchezze come quelle citate formano parte integrante di tesi di laurea, convinzioni culturali di gruppi dirigenti che conquistano il potere accademico, politico, della comunicazione.
Tale è lo stato dell’arte in Spagna, antico bastione dell’Europa cattolica, evangelizzatrice del Nuovo Mondo, nata nel segno di San Giacomo Apostolo, Santiago, terra di Teresa d’Avila, Velàzquez, Goya, Cervantes, culla della scuola di Salamanca, agonizzante come l’Europa a lungo respinta oltre i Pirenei. Il tramonto è davvero ad occidente.
Tocca citare una volta di più Gilbert K. Chesterton.  “La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.”
Fonte: qui
ROBERTO PECCHIOLI

Gli effetti della “cura Trump” sul sistema mondiale. Altra deflazione.

Impressionante la quantità e  qualità tecnologica  dei prodotti che l’America importa dalla Cina (per 507 miliardi di dollari l’anno) e  che ora colpisce con dazi.   Mica riso e soya. Ai primi posti ci sono smartphone,  computer, schermi,  lettori ottici e magnetici, memorie elettroniche, circuiti integrati, microscopi e telescopi.  Seguono stampanti,  elettrodomestici di ogni tipo e complessità,  dall’aspirapolvere al ventilatore.  E ancora:  macchinari meccanici, pistoni per diesel, scatole del cambio e trasmissione, valvole a controllo termostatico,  turbogetti, altre turbine a gas,  refrigeratori da negozio, presse, macchina per forgiare e  laminare metalli….e ovviamente  vestiti, scarpe, auto, pneumatici, qualunque oggetto in plastica, yacht a vela,  giù fino ai pesci d’acquario e  le cosce di rana: tutto per 193  fittissime  pagine in formato pdf.
(Potete farvene un’idea agghiacciante   cliccando sul geniale sito animato qui:
Un elenco che mostra la misura mostruosa della de-industrializzazione  americana ed occidentale, e l’immane regalo che i globalisti  e finanzieri fecero alla Cina, spalancandole il commercio mondiale  esentasse senza esigere che aprisse agli scambi anche la sua moneta – sicché ha esportato con moneta svalutata, facendo un dumping colossale non solo coi suoi salari bassi ma  con lo yuan a corso forzoso di Stato, mentre sfornava  ogni anno 2 milioni di ingegneri capaci di impadronirsi delle  alte tecnologie nate in Usa ed Europa.
Le misure che adesso prende Trump (ammesso che non torni indietro)  doveva prenderle un presidente americano 30 anni fa, Bill Clinton. Perché i dazi  contro le merci cinesi hanno senso, se  al suo riparo l’America è capace di sviluppare le industrie nazionali di sostituzione. 
Ci riesce? 
A giudicare dalle vociferanti lamentele  degli industriali e persino dei lavoratori,  che lavorano su materie prime o semilavorati esteri, pare di no.
Di fatto, quindi, i dazi trumpiani  possono ridursi ad una tassa sul consumatore, che continuerà a dover importare smartphone cinesi col 25% di sovrapprezzo.
A  vedere quella lista di importazioni, ci si chiede che cosa produca, oggi, il lavoratore americano  industriale. Ma già,  la memoria corre a Wall Street, le colossali GAFAM  (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft)  che rendono centinaia di miliardi ai loro padroni giovani e  geniali,  il dominio incontrastato dell’industria dello spettacolo (Disney, Netflix):   l’America vive del suo patrimonio “culturale” e immateriale, che scambia con il lavoro operaio del mondo, essenzialmente dell’Asia  che ha sviluppato con la propria de-industrializzazione.  
Il “terziario avanzato”, che  può infischiarsene dei milioni di senzatetto che muoiono di oppiacei, perché  la finanza non ha  più bisogno di loro.  
Una  economia da  rentiers,  sotto le forme apparentemente avanzate.
Ma nel suo modo brutale e caotico, Donald Trump sta andando molto al di là di una guerra commerciale. “Sta distruggendo il sistema monetario e finanziario vigente dal 1971”, spiega l’economista Bruno Bertez, “distrugge il sistema  di Bretton Woods II”, ossia di quando Nixon sganciò il dollaro dall’oro ponendo fine all’ultima finzione.
Questo sistema consisteva (Bertez usa già il passato) a lasciar gonfiare i deficit commerciali americani  allo scopo di alimentare la domanda mondiale, purché il resto del mondo non esigesse il rimborso dei dollari inviati ai produttori esteri, che Washington stampa a volontà. Gli esportatori  hanno venduto merci reali  e gli Usa pagano in carte e  cambiali, promesse di pagamento (i buoni del Tesoro).  Il sistema è espansionista perché si tratta di un immenso “credito del venditore” al compratore. Il potere d’acquisti dei consumatori americani non ha limite alcuno.  Ad ogni aumento del deficit, era una linea di credito che si  apriva.
Gli stato esteri esportatori in compenso accumulavano attivi, speculari al deficit Usa, e usavano i dollari eccedenti per acquistare titoli Usa, buoni del Tesoro, azioni, obbligazioni,  titoli d credito, immobili.  Insomma  la Cina, acquistando Treasuries, finanziava i consumatori americani perché comprassero le sue merci.
Bertez usa un’altra metafora: il giocatore di biglie americano perdeva continuamente le sue biglie, ma gli altri giocatori gliele rendevano perché continuasse a giocare. E più biglie perdeva, più la massa dei dollari circolanti  fuori dagli Stati Uniti aumentava, dando a tutti una straordinaria sensazione di benessere: la rarità era vinta”.
Tutti erano contenti: gli americani super-consumatori, gli esportatori esteri  che super vendevano le  loro mercanzie, i governi che accumulavano riserve,  Washington che finanziava i suoi deficit  senza dolore e le sue spese senza limiti: “finanziava burro e cannoni”, letteralmente, le titaniche forze armate più costose della storia, senza dover imporre sacrifici ai consumatori. Ma  anche il resto del mondo era felice: investiva, riduceva la disoccupazione, accumulava riserve di cambio, si poteva permettere anche spese militari con cui un giorno avrebbe contrastato  l’egemonia Usa.
Questo ordine mondiale basato sull’inflazione dei segni monetari Usa è naturalmente favorevole alle Borse, alla finanza e alla speculazione. I capitalisti finanziari, crescendo in potenza, preso il potere reale, ne  hanno impedito ogni moderazione: le  loro finanziarie ci guadagnavano più di quello che avrebbero guadagnato in un ordine normale,  imposero l’ideologia della “efficienza”  del capitale privato perché i loro profitti – anche delle imprese reali – aumentavano grazie alla messa in concorrenza del lavoro e dei salari sul piano mondiale.
E quando i lavoratori dell’Occidente hanno visto ridurre i salari o hanno perso il lavoro a beneficio di cinesi e coreani o messicani e polacchi, ecco che il sistema li ha mantenuti grandi consumatori prestando loro il denaro che non guadagnavano più. Tutto  il sistema è malsano, ma troppi interessi convergenti sono ormai investiti nel  suo proseguimento, per provare a riformarlo.

Fine della macchina dei dollari fuori USA

E’ questo  l’ordine del mondo che sta distruggendo Trump.
A dire il vero, aveva  già trovato il suo limite nel 2008,  nella crisi dei subprime  –  appunto montagne di prestiti e mutui  fatti a gente senza salario o quasi perché si comprassero a rate case o auto, che non si potevano permettere,  per giunta rifilando il rischio di insolvenza a terzi, essenzialmente fondi pensione, con la vendita a loro di quei debiti che promettevano un flusso sicuro di interessi – sicuro beninteso se la ragazza-madre negra che aveva contratto il mutuo avesse pagato regolarmente. Ciò che non avvenne.
E  siccome su quegli interessi “sicuri” erano stati impegnati prodotti finanziari creativi, quei prodotti derivati “divennero incomprensibili a quelli stesi che li avevano inventati”, la banche non sapevano più valutare le proprie perdite, i derivati che avrebbero dovuto “assicurare”  gli speculatori  contro il default si  dimostrarono illusori,  perché gli assicuratori stessi erano – ovviamente  – falliti.
Salvò tutto la Federal Reserve, inondando di capitali fittizi quel mondo, e così fecero le altre banche centrali.  Di fatto, a spese dei contribuenti.  Un trionfo che Stiglitz elucidò così: “Il capitalismo attuale consiste nel  privatizzare i profitti  e statalizzare  le perdite”.  Ma non è stato sempre così, in  fondo?
Si è dunque andati avanti ancora. Ma  proprio allora Bruno Bertez aveva scritto:  “Benché si finga di prolungare il tutto, la crisi del 2008 ha aperto la porta a un’altra epoca. Questa epoca sarà segnata dal ritorno alla violenza, alle guerre, alle menzogne, al “alla malora i deboli”. Quando il bottino diventa magro, i banditi si sparano tra loro. Ciò vale anche per l’Europa cosiddetta “Unita”, dove la Germania aumenta il suo surplus a spese del deficit dei paesi del Sud, e li rimprovera pure di vivere sopra i propri mezzi, li schiavizza e li distrugge come la  Grecia, li obbliga al servaggio  come l’Italia sotto Monti e Padoan. La ricorrente guerra intra-europea è un fatto ed è in atto, anche  se tutti fanno finta di essere “europeisti”.
Cosa succederà adesso, come si configurerà la distruzione di Bretton Wood II, lo spiega Bertez: “Nel vecchio sistema,  il riciclaggio dei capitali mondiali creati dagli eccedenti degli uni e dai deficit degli altri, si è tradotto in una massa immensa di denaro in cerca di impiego. Ciò  ha fatto abbassare i tassi d’interesse e incitato le banche a creare veicoli sempre più sofisticati e pericolosi, la cui complessità serve appunto a mascherare il rischio”: il rischio che qualcuno, debole, in fondo alla piramide, non riesca più a servire il suo debito, facendo crollare tutto.
E’ quel che abbiamo visto avvenire alla Grecia e quel che le hanno fatto i banditi.
Perché non deve emergere la verità: tutto il vecchio sistema ha fatto calare i “premi di rischio”  e i “premi di durata”  sui debiti, una finzione che dura finché dura l’inondazione di dollari creati dal nulla per colmare i deficit Usa.
“Bernanke chiamava questa massa di dollari extra-Usa un eccedente di risparmio mondiale (sic). Se il sistema sta terminando, allora questo eccedente di risparmio diminuisce o sparisce, i tassi d’interesse mondali saliranno e possono anche galoppare, perché i  fattori di rischio si cumuleranno, rendendo il mondo più fragile”.
Non sarà certo Pechino a fare le ritorsioni, vendendo magari i buoni del Tesoro Usa in massa: si sparerebbe sul  piede, e la Fed   si sostituirebbe ai cinesi per sottoscrivere i buoni del Tesoro a volontà.  Il punto è che il mondo si avvia organicamente verso la sparizione dell’eccedente mondiale in dollari.  La  massa di dollari che circolano fuori dagli Usa ha già cominciato a contrarsi da anni. Il rifinanziamento in dollari delle grandi banche mondiali fuori dagli Usa diventa più serrato e costoso. I dollar short, i paesi debitori in dollari –  come quelli emergenti, tipo Turchia o Brasile   — soffrono già, e soffriranno anche di più. Tutti  coloro che si sono indebitati in dollari, sia per fare ingegneria finanziaria, sia invece per  investire produttivamente, non troveranno dollari per pagare  gli interessi e rimborsare il capitale;  i pochi dollari, se li strapperanno l’un l’altro in concorrenza pagando alti prezzi. I rifinanziamenti dei debiti  i prolungamenti (roll-over) diverranno più difficili.
Ciò che Trump sta distruggendo, probabilmente senza capirlo, è la macchina per produrre dollari fuori dagli Usa; l’effetto sul mondo è potentemente deflazionista. Per l’Europa dove il dominio tedesco ha già imposto la deflazione interna in base alla sua ideologia, l’effetto sarà raddoppiato. Volete che lo capiscano i Weidmann? Le Merkel? I Draghi?


No, se non li si caccia dal potere a fucilate. Instaurando il sistema che loro sono nati e cresciuti per cancellare: il ritorno alle banche centrali che comprano i debiti pubblici direttamente dagli Stati, in modo che gli Stati sviluppino infrastrutture e assorbano i disoccupati e le risorse inutilizzate a causa della deflazione.  Negli anni  20 e ’30, per farlo, ci vollero non  Leghe e 5 Stelle, non gentili e educati economisti come Borghi e Bagnai,  gran gentiluomini  come Savona. Ci  vollero partiti armati,  capaci di far paura agli usurai e cacciarli a manganellate fuori dalle banche dove pubblicizzavano le perdite tenendosi i profitti.  Non lo auspico. Mi limito a notarlo.
Fonte: qui

David Stockman Exposes The "$20 Trillion Elephant In The Room"

That US stocks returned to record highs last month - picking up steam even as the world teetered on the bring of another debt crisis - has prompted even the most tenacious bears to recalibrate their forecasts, an effort, we think, to appease investors and clients who are luxuriating in the seemingly unstoppable gains of what is now the longest bull market in US history.
But while the wash of record returns (on paper, at least) has helped assuage the nagging doubts of many a "rational" investor, others are clinging ever-tighter to a pragmatic - if uncomfortable - realism. And one of the most strident voices among this group has been David Stockman, formerly the director of the OMB under Ronald Reagan and now the author of Stockman's Contra Corner.
In a recent interview with Sprott Media in Vancouver, Stockman reiterated that he remains a skeptic, particularly in an era where central banks (thanks to their $20-trillion-plus aggregate balance sheet) have destroyed price discovery and contributed to the blowing of a debt bubble that - when it finally pops - will make the aftermath of the financial crisis appear tame by comparison.
CBs
Stockman begins his interview by clarifying that he would be optimistic about the long-term prospects for growth and markets if it wasn't for this $20 trillion 'elephant in the room'.
"I am an optimist, I truly am - if it weren't for the fact that central banks are totally out of control. So my talk centered on the Great $20 trillion elephant in the room, which is the balance sheets of all the central banks in the world, in excess of what it probably should be in a rational stable historically prudent world"
As central banks have bought up assets, they've repressed interest rates, rigged equity prices and provided the fuel for the explosion of debt that has occurred over the past 20 years, Stockman said.
And when the music finally stops - as they say - it will be the central banks that bear the brunt of the blame.
"And it's that $20 trillion, built up over the last two decades, that has basically distorted everything - falsified prices, repressed interest rates, caused an explosion of debt. Twenty years ago there was $40 trillion of debt in the world today there is $250 trillion worth of debt in the world. The leverage of the world has gone from 1.3 times which is stable...to 3.3 times, which basically means the world has created a huge temporary prosperity by burying itself in debt.
One of the reasons why investors have so easily overlooked this phenomenon is that investors have short memories. They assume that, since this is the way things are today, that central banks have always been this active...but that simply isn't true.
"We take these things for granted. In other words, this has been building for so long now - two decades - that when you have central banks intruding this massively in financial markets...we take it as a matter of course...people assume it's always been that way but it hasn't."
But as Stockman points out, historically, the US economy flourished before this massive bout of debt creation. Even the notion that central banks have created a kind of "temporary prosperity" isn't accurate because our economy is growing much more slowly today than it did between 1950 and 1970.
"As far as I know, the world in the 1950s, 1960s and 1970s did pretty well. In fact, real GDP growth form 1954 to 1972 was 3.8% for the last 12 years it has been 1.4%. In other words it wasn't that we had too little debt and our domestic economy lagged and suffered...the opposite is true, the more debt we build up, the more difficult it is to drag these economies forward."
Looking ahead to what might trigger the great unraveling, Stockman predicts that a grand policy error - like President Trump's trade war, for example - will help.
"Policy makers are going to make huge mistakes that are going to bring the party to an end. Like Trump carrying on this crazy trade war...now he has a point that we haven't been creating good jobs...but it's not the result of bad trade deals but of bad money...and we haven't even begun to cope with that problem."
Instead of focusing on trade barriers, Stockman said, Trump shoud be looking "down the street" toward the Eccles Building.
"The point is, world wide the average tariff today is 2% of imported goods value. Ours happens to average 1.7%, Canada is 1.59% and France is 1.94% - it's a rounding error. Nobody has meaningful tariffs on most of the goods that are exchanged in world trade."
[...]
"He should be looking down the street at the Fed, because that's where the whole problem started. The Fed has driven the world to this totally unsustainable debt-driven system."
Moving on to examples of how easy money policies have warped valuations, Stockman arrives at his most obvious target: the FAANG stocks that have powered the benchmarks higher. Amazon is one example, Stockman said, claiming that its current valuation, at 160x free cash flow, is simply impossible to justify.
"The crash of Amazon it will thunder across the planet," Stockman said.
But if he had to pick a poster child for the excesses of contemporary markets, it would be Tesla.
"Tesla isn't a car manufacturer, it is a con. It is the greatest short of this cycle. If somebody has a strong stomach, go out and short the damn thing because it will go to zero. It's just living off of raising new money. Anybody can do that as long as you keep the con going. It will end up being the posterboy for this greatest bubble yet of this century."
"The market cap is $60 billion going to zero - you can feel that happening. Pets.com was only a couple hundred million."
stockman
We imagine David EinhornJim Chanos and Mark Spiegel would be happy to hear that...
Fonte: qui