9 dicembre forconi: 08/22/18

mercoledì 22 agosto 2018

REVOCA CONCESSIONE AUTOSTRADE/ Ecco perché non è una follia da statalisti

Revocare la concessione ad Autostrade per l'Italia come paventato dal Governo è stata indicata come un'ipotesi dannosa e statalista. 
Lapresse

La stampa che conta ha già emesso la sentenza secondo cui togliere la concessione ad Autostrade per l'Italia sarebbe un crimine contro l'umanità e sicuramente indegna di uno Stato serio. Noi crediamo che l'unica cosa indegna di uno Stato serio (e che confermerebbe giustamente l'idea che l'Italia sia una repubblica delle banane) sarebbe soprassedere sul crollo del ponte Morandi. Non riusciamo a familiarizzare con l'idea che un concessionario che ha moltiplicato per N volte l'investimento fatto sostanzialmente beneficiando di un monopolio pubblico, in costante ritardo sugli investimenti e mai sui dividendi, e che ha aveva un tale problema di generazione di cassa e sotto indebitamento da potersi/doversi lanciare in una mega opa per cassa sul principale operatore europeo, non abbia una responsabilità oggettiva del crollo dei ponti della rete che gestisce. Negli stessi giorni in cui leggiamo degli spagnoli che ci bagnano il naso e con i francesi che hanno il bond a due anni in territorio negativo dovremmo accettare l'idea che per una serie di ragioni incomprensibili il concessionario pubblico italiano abbia talmente tanti soldi da comprare pronta cassa la maggiore rete autostradale spagnola e una delle principali francesi (come noto la maggior parte del valore di Abertis sta nelle autostrade francesi) a un tale prezzo che nessun fondo infrastrutturale o sovrano si fa vivo per rilanciare. Possiamo dire che qualcosa è andato storto nelle privatizzazioni italiane? Oppure dobbiamo tacere se no il mercato si arrabbia?
Si è riusciti nell'impresa di usare come scudo umano i "risparmiatori italiani" contro qualsiasi danno ai concessionari. Nel caso di Atlantia si confrontano 5 miliardi scarsi di capitalizzazione in mano italiana contro gli oltre 3 miliardi di euro di pedaggi all'anno (3,3 miliardi per essere precisi nel 2017) al 70% di margine operativo. Nell'arco della concessione i ricavi pagati ad Autostrade supereranno tranquillamente i 100 miliardi di euro con un free cash cumulato che sull'arco della concessione (passato e presente) supera i 50 miliardi di euro. Se vogliamo fare i confronti confrontiamo elementi equiparabili, altrimenti o è malafede o è ignoranza colossale. L'interesse di tutti gli italiani che in quasi tre generazioni pagheranno questi importi varrà di più dei 5 miliardi dei cassettisti italiani… o no?
Ci domandiamo a fronte di quale rischio di impresa si garantiscano a un privato i rendimenti che sono stati garantiti negli ultimi anni e in futuro il 7% reale post tasse sui nuovi investimenti come nel caso della Gronda; il 7% reale post tasse su un'attività che a questo punto è a zero rischio è palesemente una follia e non serve essere statalisti per dirlo; per dirlo bisogna essere contro il mercato. Questi rendimenti sono chiaramente fuori scala per un business che a questo punto non ha rischi. Ha bassissimi rischi di traffico, essendo un monopolio, e nessun rischio operativo se si ammette il principio che non esista una responsabilità oggettiva nemmeno di fronte a crolli di ponte.
Teniamo presente che per molti anni Atlantia ha emesso bond sotto il costo del debito sovrano italiano. Ragioni? Qualsiasi cosa succeda all'economia italiana Atlantia continua a fare soldi e in più c'è una garanzia diretta e reale che sui bond statali italiani non c'è. Ci chiediamo: qual è il rischio di Atlantia se il rischio traffico è bassissimo, un monopolio naturale, e se non c'è responsabilità? Se il rischio è nullo, come si spiega un rendimento del 10% pre-tasse reale garantito per due decenni? Chi non si fa queste domande è contro il mercato.
Il ricatto assurdo di questi giorni è che chiunque si azzardi a sollevare evidenti problemi di remunerazione a fronte di rischi inesistenti è un pericoloso statalista che vuole ritornare all'età della pietra del rapporto Stato/privato. Si crea una bolla intorno ai concessionari privati che marca come "populista" chiunque provi a evidenziare la palese contraddizione tra rischio e rendimento nel caso delle concessioni autostradali italiane; neanche i cattolici riservano al Papa una tale devozione. Se il rendimento negli anni passati è stato quello che è stato, se un monopolio pubblico di un Paese in declino ha permesso ad Atlantia di diventare il maggior concessionario europeo, allora ci deve essere un rischio commisurato.
Quale società chimica, o quale acciaieria o quale fabbrica può difendersi da un rischio ambientale dicendo di aver svolto tutti i controlli? Ci sono quotidiani italiani, la Repubblica del 15 agosto per esempio, che sono riusciti a scrivere 14 pagine sul crollo del ponte senza mai nominare né Atlantia, né Benetton. Questa sarebbe informazione? Sarebbero questi i commenti "terzi" sulla vicenda? Questo sarebbe il servizio che si rende ai "piccoli risparmiatori"? Su quale base demonizziamo lo Stato imprenditore se il privato imprenditore è sollevato di qualsiasi responsabilità o rischio quando gestisce un monopolio naturale a rendimento garantito?
Citiamo le dichiarazioni rilasciate al Secolo XIX da Enrico Sterpi, attuale segretario dell'Ordine degli ingegneri liguri a riguardo del bando per i tiranti del ponte Morandi pubblicato da Autostrade per l'Italia il 3 maggio: "Questo bando significa due cose: Autostrade aveva focalizzato la criticità ed era disposta a prendersi una bella responsabilità, con una gara ristretta per un importo tanto elevato. È chiaro insomma che a un certo punto ci fosse necessità di accelerare la procedura". Citiamo sempre dal Secolo XIX: "Poiché il viadotto è stato realizzato nel 1967, il gestore non deve fornire un piano di manutenzione (il diktat vige per chi ha in carico le strutture nate dal '99 in poi). Non solo. Autostrade esegue per legge due tipi d'ispezione, certificate una volta compiute: trimestrale con personale proprio (controlli sostanzialmente visivi) e biennale con strumenti più approfonditi. In quest'ultimo frangente, al massimo, la ricognizione viene affidata a ingegneri esterni, ma alla fine sempre pagati da Autostrade. Né gli enti locali, né il ministero delle Infrastrutture intervengono con loro specialisti. E di fatto non esistono certificazioni di sicurezza recenti che non siano state redatte da tecnici retribuiti da Autostrade per l'Italia". Questo parrebbe dire che non c'era un piano specifico su cui eventualmente fare una diffida ad Autostrade per un suo eventuale non rispetto. In questo scenario, se confermato, la revoca della concessione diventerebbe una opzione dello Stato prevista dallo stesso schema unico.
Quale sarebbe lo scandalo di revocare la concessione se si provasse che per negligenza del concessionario o per una manutenzione insufficiente la rete autostradale è spezzata in due e 40 persone sono morte in una figura di palta mondiale senza precedenti? Sarebbe una repubblica delle banane lo Stato che eventualmente chiude due occhi o quello che riaffida la concessione a qualcuno, privato, più bravo? Se gli azionisti o i bond crollano pazienza. Investire in borsa è un rischio e il cigno nero fa parte del mestiere. Gli stessi che si lamentano di questa eventualità sono gli stessi che da anni rimproverano alla Fed di aver falsato per sempre il gioco dei mercati impedendo la "price discovery", ma i cigni neri ci sono e si pagano, altrimenti i soldi si mettono sotto il materasso ma almeno si dorme sereni.
Ma nel nuovo scenario in cui si corre al capezzale del concessionario si invoca il mercato contro lo Stato. Ma un concessionario che non risponde mai sarebbe mercato? Il mercato è rimettere, eventualmente, la concessione a un altro privato, non allungarla sine die e senza concorrenza a rendimenti da capogiro. Allungare la concessione al 2042 con un rendimento del 7% reale post tasse per 20 anni senza gara, ripetiamo senza gara, non è mercato e non è concorrenza. È lo Stato che abdica a qualsiasi ruolo di arbitro e di controllo e lascia le praterie sul controllo di monopoli naturali. 

Mala tempora currunt.
Fonte: qui

We Are All Lab Rats In The Largest-Ever Monetary Experiment In Human History

And how do things usually work out for the rat?

Turkey’s Financial Crisis Raises Questions About China’s Debt-driven Development Model

Financial injections by Qatar and possibly China may resolve Turkey’s immediate economic crisis, aggravated by a politics-driven trade war with the United States, but are unlikely to resolve the country’s structural problems, fuelled by President Recep Tayyip Erdogan’s counter intuitive interest rate theories.

The latest crisis in Turkey’s boom-bust economy raises questions about a development model in which countries like China and Turkey witness moves towards populist rule of one man who encourages massive borrowing to drive economic growth.
It’s a model minus the one-man rule that could be repeated in Pakistan as newly sworn-in prime minister Imran Khan, confronted with a financial crisis, decides whether to turn to the International Monetary Fund (IMF) or rely on China and Saudi Arabia for relief.
Pakistan, like Turkey, has over the years frequently knocked on the IMF’s doors, failing to have turned crisis into an opportunity for sustained restructuring and reform of the economy. Pakistan could in the next weeks be turning to the IMF for the 13th time, Turkey, another serial returnee, has been there 18 times.
In Turkey and China, the debt-driven approach sparked remarkable economic growth with living standards being significantly boosted and huge numbers of people being lifted out of poverty. Yet, both countries with Turkey more exposed, given its greater vulnerability to the swings and sensitivities of international financial markets, are witnessing the limitations of the approach.
So are, countries along China’s Belt and Road, including Pakistan, that leaped head over shoulder into the funding opportunities made available to them and now see themselves locked into debt traps that in the case of Sri Lanka and Djibouti have forced them to effectively turn over to China control of critical national infrastructure or like Laos that have become almost wholly dependent on China because it owns the bulk of their unsustainable debt.
The fact that China may be more prepared to deal with the downside of debt-driven development does little to make its model sustainable or for that matter one that other countries would want to emulate unabridged and has sent some like Malaysia and Myanmar scrambling to resolve or avert an economic crisis.
Malaysian Prime Minister Mahathir Mohamad is in China after suspending US$20 billion worth of Beijing-linked infrastructure contracts, including a high-speed rail line to Singapore, concluded by his predecessor, Najib Razak, who is fighting corruption charges.
Mr. Mahathir won elections in May on a campaign that asserted that Mr. Razak had ceded sovereignty to China by agreeing to Chinese investments that failed to benefit the country and threaten to drown it in debt.
Myanmar is negotiating a significant scaling back of a Chinese-funded port project on the Bay of Bengal from one that would cost US$ 7.3 billion to a more modest development that would cost US$1.3 billion in a bid to avoid shouldering an unsustainable debt.
Debt-driven growth could also prove to be a double-edged sword for China itself even if it is far less dependent than others on imports, does not run a chronic trade deficit, and doesn’t have to borrow heavily in dollars.
With more than half the increase in global debt over the past decade having been issued as domestic loans in China, China’s risk, said Ruchir Sharma, Morgan Stanley’s Chief Global Strategist and head of Emerging Markets Equity, is capital fleeing to benefit from higher interest rates abroad.
“Right now Chinese can earn the same interest rates in the United States for a lot less risk, so the motivation to flee is high, and will grow more intense as the Fed raises rates further,” Mr. Sharma said referring to the US Federal Reserve.
Mr. Erdogan has charged that the United States abetted by traitors and foreigners are waging economic warfare against Turkey, using a strong dollar as ”the bullets, cannonballs and missiles.”
Rejecting economic theory and wisdom, Mr. Erdogan has sought for years to fight an alleged ‘interest rate lobby’ that includes an ever-expanding number of financiers and foreign powers seeking to drive Turkish interest rates artificially high to damage the economy by insisting that low interest rates and borrowing costs would contain price hikes.
In doing so, he is harking back to an approach that was popular in Latin America in the 1960s and 1970s that may not be wholly wrong but similarly may also not be universally applicable.
The European Bank for Reconstruction and Development (EBRD) warned late last year that Turkey’s “gross external financing needs to cover the current account deficit and external debt repayments due within a year are estimated at around 25 per cent of GDP in 2017, leaving the country exposed to global liquidity conditions.”
With two international credit rating agencies reducing Turkish debt to junk status in the wake of Turkey’s economically fought disputes with the United States, the government risks its access to foreign credits being curtailed, which could force it to extract more money from ordinary Turks through increased taxes. That in turn would raise the spectre of recession.
“Turkey’s troubles are homegrown, and the economic war against it is a figment of Mr. Erdogan’s conspiratorial imagination. But he does have a point about the impact of a surging dollar, which has a long history of inflicting damage on developing nations,” Mr. Sharma said.
Nevertheless, as The Wall Street Journal concluded, the vulnerability of Turkey’s debt-driven growth  was such that it only took two tweets by US President Donald J. Trump announcing sanctions against two Turkish ministers and the doubling of some tariffs to accelerate the Turkish lira’s tailspin.
Mr. Erdogan may not immediately draw the same conclusion, but it is certainly one that is likely to serve as a cautionary note for countries that see debt, whether domestic or associated with China’s infrastructure-driven Belt and Road initiative, as a main driver of growth.
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This article was originally published on the author’s blog site: The Turbulent World of Middle East Soccer.
Dr. James M. Dorsey is a senior fellow at the S. Rajaratnam School of International Studies, co-director of the University of Würzburg’s Institute for Fan Culture, and co-host of the New Books in Middle Eastern Studies podcast. James is the author of The Turbulent World of Middle East Soccer blog, a book with the same title and a co-authored volume, Comparative Political Transitions between Southeast Asia and the Middle East and North Africa as well as Shifting Sands, Essays on Sports and Politics in the Middle East and North Africa and just published China and the Middle East: Venturing into the Maelstrom
Featured image is from Daily Reckoning Australia.

Prodi, Draghi & C: chi ha regalato l’Italia, autostrade incluse

Partiamo dall’inizio. Perché una società strategica per gli italiani, con un fatturato annuo di oltre 6 miliardi di euro e introiti certi – che sono aumentati vertiginosamente negli anni com’era prevedibile – è stata ceduta a imprenditori privati? Facciamo un passo indietro: è il 1992; il cartello finanziario internazionale mette gli occhi e le mani sul nostro paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito è quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani. E’ l’anno della riunione sul Britannia, quando il Gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con lo yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in Italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al governo del paese, a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più benemeriti sono Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’Alema. I primi tre erano già entrati a pieno titolo nel Club Bilderberg, nella Commissione Trilaterale e in altre organizzazioni del capitalismo speculativo angloamericano, che aveva deciso di attaccare e conquistare il nostro paese con l’appoggio di banche d’affari come la Goldman Sachs, che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti: Prodi e Draghi prima, Mario Monti dopo.
E’ l’anno in cui in soli 7 giorni cambiano il sistema monetario italiano, che viene sottratto dal controllo del governo e messo nelle mani della finanza speculativa. Per farlo vengono privatizzati gli istituti di credito e gli enti pubblici, compresi quelliGian Maria Gros-Pietroazionisti della Banca d’Italia; è l’anno in cui viene impedito al ministero del Tesoro di concordare con la Banca d’Italia il tasso ufficiale di sconto (costo del denaro alla sua emissione), che viene quindi ceduto a privati. E’ l’anno della firma del Trattato di Maastricht e l’adesione ai vincoli europei. In pratica è l’anno in cui un manipolo di uomini palesemente al servizio del cartello finanziario internazionale ha ceduto ogni nostra sovranità. Bisognava passare alle aziende di Stato: l’attacco speculativo di Soros che aveva deprezzato la lira di quasi il 30% permetteva l’acquisto dei nostri gioielli di Stato a prezzi di saldo, e così arrivarono gli avvoltoi. La maggior parte delle nostre aziende statali strategiche passò in mano straniera o comunque fu privatizzata. Ma la cosa più eclatante fu che l’Iri (istituto di ricostruzione industriale) che nella pancia alla fine degli anni ’80 aveva circa 1.000 società, fiore all’occhiello del nostro paese, fu smembrato e svenduto, sotto la presidenza di Prodi (dal 1982 al 1989 e durante un periodo tra il 1993 ed il 1994), poi premiato dal cartello che favorì la sua ascesa alla presidenza del Consiglio in Italia e poi alla Commissione Europea.
A sostituirlo come presidente del Consiglio in Italia e a continuare il suo lavoro di smembramento delle aziende di Stato ci penserà Massimo D’Alema, che nel 1999 favorirà la cessione, tra le altre, di Autostrade per l’Italia e Autogrill alla famiglia Benetton, che di fatto hanno, così, assunto il monopolio assoluto nel settore del pedaggio e della ristorazione autostradale. Un’operazione che farà perdere allo Stato italiano miliardi di fatturato ogni anno. Le carte ci dicono che in quegli anni il presidente dell’Iri era tale Gian Maria Gros-Pietro. Lo conoscevate? Io credo di no. Invece il cartello finanziario speculativo lo conosceva bene, e nel 2001 lo convocò alla riunione del Bilderberg in Svezia, indovinate insieme a chi? Insieme a Mario Draghi e ad un certo Mario Monti. Entrambi saranno ampiamente ripagati dal cartello stesso, che in futuro riuscì a piazzare Draghi Prodi e Ciampialla Banca d’Italia e poi alla Bce, e Mario Monti dalla Goldman Sachs alla Commissione Europea e poi a capo del governo (non eletto) in Italia. E che cosa ne è stato di Gian Maria Gros Pietro? Qui viene il bello. E arriviamo al tema di questo post.
Gian Maria Gros-Pietro, che già nel fatidico 1992 era presidente della commissione per le strategie industriali nelle privatizzazioni del ministero dell’industria, nel 1994 diviene membro della commissione per le privatizzazioni – istituita indovinate da chi? Da Mario Draghi. Ora capite come lavora il cartello finanziario-speculativo per mettere tentacoli ovunque e per far sì che ci sia sempre un proprio esponente nei ruoli-chiave. Ma non finisce qui. Come abbiamo visto, nel 1997 Gros-Pietro è presidente dell’Iri mentre viene organizzata la cessione a prezzi di saldo di Autostrade per l’Italia, che avverrà nel 1999 col passaggio al Gruppo Atlantia Spa, controllato da Edizione srl, la holding di famiglia dei Benetton. Gros-Pietro firma la cessione, la famiglia Benetton gli strizza l’occhio. Cosa voleva dire metaforicamente quella strizzatina d’occhio? Ora immaginate l’inimmaginabile. Cosa accade nel 2002? Gian Maria Gros-Pietro, dopo aver gestito la privatizzazione dell’Eni, andrà a presiedere per quasi 10 anni indovinate che cosa?… proprio la Atlantia Spa, la società alla quale solo tre anni prima, come dipendente pubblico, aveva svenduto la gestione dei servizi autostradali italiani. Le jeux sont fait.
A questo punto proviamo a leggere i termini del contratto di concessione della rete autostradale. Mi dispiace, cari amici. Non si può. Sono stati coperti da segreto di Stato, manco si trattasse di una riservatissima operazione militare. Ma com’è stato svolto in questi anni il servizio di manutenzione ordinaria da parte dei concessionari di Autostrade per l’Italia? La macabra risposta è descritta nei tragici eventi di Genova, e non solo. Leggendo quanto emerge dalla relazione annuale (2017) sull’attività del settore autostradale in concessione pubblicata sul sito del ministero dei trasporti, si evince una crescita esponenziale del fatturato (quasi 7 miliardi) e dei pedaggi. In calo solo gli investimenti (calati addirittura del 20%) e la spesa per manutenzioni in controtendenza, rispetto alla logica che dovrebbe prevedere un aumento dei costi della manutenzione Monti e Draghicontestualmente all’aumento del traffico. Ma la sicurezza degli automobilisti è stata messa in secondo piano rispetto alla massimizzazione dei profitti, già di per sé abnormi.
E com’è andata invece con gli interventi straordinari ad opera dei ministeri preposti? Non c’erano soldi da destinare ad interventi straordinari, seppur richiesti dagli esperti, a causa dei vincoli di bilancio da rispettare e imposti dal pareggio di bilancio. Quali vincoli? Quelli europei. E da chi sono stati imposti questi vincoli? dal Trattato di Maastricht del 1992, da quello di Lisbona del 2007 e dal pareggio di bilancio in Costituzione del 2011. E chi li ha voluti? Indovinate? 

Nell’ordine: Romano Prodi, Massimo D’Alema e Mario Monti, con l’appoggio esterno di Mario Draghi. 

Ma non erano quelli che insieme partecipavano alle organizzazioni del cartello finanziario speculativo che voleva far crollare il nostro paese? 

Esattamente.

Il cerchio si chiude. 

Solidarietà alle vittime di Genova, per il crollo del ponte autostradale. 

Solidarietà agli italiani per il crollo annunciato e pianificato del loro paese.

Altro che decrescita felice.
(“Giornalista d’inchiesta svela importanti retroscena su Autostrade per l’Italia”, dal blog di Marco Della Luna del 18 agosto 2018. Parte del testo è tratta dal libro-inchiesta “La Matrix Europea”, di Francesco Amodeo. Avvocato e saggista, Della Luna attribuisce il testo della ricostruzione giornalistica a Maurizio Blondet, per anni inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”).

La piovra finanziaria

Marco Cedolin

Già nel 2008, quando pubblicai "Grandi Opere", dal quale è tratto questo breve passaggio, risultavano più che mai chiari gli intrecci fra gli interessi della famiglia Benetton, il mondo bancario, gli organismi dello Stato, la comunicazione mainstream ed i grandi poteri finanziari. In 10 anni sono forse cambiati i nomi dei fondi d’investimento ed è aumentata la quantità delle partecipazioni, ma la sostanza purtroppo è rimasta inalterata.
Smantellare piovre di questo genere non è certo una cosa facile, ma se non si agisce in questo senso è praticamente impossibile sperare di andare da qualsiasi parte....  
“La famiglia Benetton, attraverso la finanziaria “Sintonia”, controlla il pacchetto di maggioranza di “Autostrade s.p.a.”33, che è al primo posto fra i costruttori e gestori di autostrade a pedaggio in Europa, ma al tempo stesso “Autostrade s.p.a.” è fra gli azionisti di riferimento di IGLI – insieme ai gruppi “Gavio”, “Techint” e “Efibanca” – con una quota di partecipazione del 20%. IGLI, con quasi il 30% delle azioni, è l’azionista di maggioranza di “Impregilo”, che risulta fra i principali soggetti impegnati nella costruzione del TAV. 
Sempre  attraverso la finanziaria di famiglia “Sintonia”, Benetton è fra gli azionisti – insieme alla famiglia Romiti e al fondo Clessidra – di “Gemina Holding”, che controlla “Aeroporti di Roma s.p.a. e, ancora per mezzo di “Sintonia”, partecipa con il 24% alla “Sagat s.p.a.”, società che gestisce gli aeroporti di Torino e di Firenze. Benetton, inoltre, attraverso l’altra finanziaria di famiglia “Edizioni Holding”, partecipa con il 32,71% a “Eurostazioni s.p.a.” insieme ai gruppi “Pirelli” e “Caltagirone”.

“Eurostazioni” con il 40%, insieme alle Ferrovie dello Stato con il 60%, gestisce “Grandi Stazioni s.p.a.”, che si occupa della gestione e della riqualificazione delle 16 maggiori stazioni ferroviarie italiane e di 3 importanti scali ferroviari della Repubblica Ceca. Sempre per mezzo di “Edizioni Holding”, Benetton possiede anche quote del capitale del gruppo editoriale multimediale RCS.

Il caso della famiglia Benetton ci aiuta a comprendere come il sistema delle scatole cinesi consenta a interessi apparentemente inconciliabili fra loro di convivere serenamente all’interno del bengodi legato alle grandi opere, senza badare alle contraddizioni. “Benetton” è un gruppo nato nel settore dell’abbigliamento, oggi risulta fra i principali gestori di autostrade, ma partecipa attivamente anche alla costruzione del TAV, che – nelle intenzioni di chi ne è promotore – dovrebbe contribuire a ridurre il traffico autostradale; contemporaneamente, gestisce scali aeroportuali a fianco dei Fondi di gestione del risparmio e grandi stazioni ferroviarie in collaborazione con le Ferrovie, che dovrebbero essere il principale “concorrente” della sua attività in ambito autostradale proprio insieme alle linee aeree; inoltre vanta partecipazioni azionarie in uno dei principali gruppi editoriali e multimediali italiani, RCS, il cui “atteggiamento” mediatico non potrà che essere di favore nei confronti delle grandi infrastrutture autostradali, ferroviarie e aeroportuali.

~ Economia delle grandi opere ~
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33. Dati ufficiali tratti dal sito del “Gruppo Benetton”.
Fonte: qui