domenica 24 marzo 2019
UN GRUPPO DI RICERCATORI AMERICANI HA INDIVIDUATO ALCUNE MUTAZIONI GENETICHE NEI MALATI DI TUMORE AL PANCREAS E HANNO IDENTIFICATO UN GRUPPO DI PERSONE CHE RISPONDONO MEGLIO ALLE TERAPIE
GRAZIE A QUESTA SCOPERTA SI POTRANNO OTTENERE DIAGNOSI PRECOCI, FONDAMENTALI VISTO CHE SOLO IL 9% DI CHI SI AMMALA SOPRAVVIVE A QUESTO TIPO DI TUMORE
Viola Rita per www.repubblica.it
La genomica colpisce ancora. Lo studio del genoma, infatti, sta aprendo le porte alla medicina di precisione anche alla lotta contro il tumore al pancreas, spesso diagnosticato tardi, tanto che a cinque anni dalla diagnosi appena il 9% dei pazienti è vivo.
Contro questo tumore è disponibile la chemioterapia, ma non ci sono ancora farmaci a bersaglio molecolare e terapie personalizzate. Un passo avanti in questo campo è stato compiuto da un gruppo di ricerca coordinato dall'Università di Pittsburg, negli Stati Uniti, che ha studiato il genoma del tumore al pancreas di un vasto campione di pazienti provenienti da tutto il mondo.
Gli autori hanno individuato alcune mutazioni genetiche potenzialmente associate al tumore e hanno identificato un gruppo di pazienti che probabilmente rispondono meglio alle terapie esistenti. I risultati sono pubblicati su Gastroenterology.
Dalla diagnosi alla terapia: un problema di tempi
Veloce e silenzioso, in molti casi il tumore del pancreas viene scoperto quando è già avanzato, nello stadio metastatico, e per questo non può essere rimosso chirurgicamente: in media su 10 individui che ricevono la diagnosi soltanto 3 o 4 possono essere trattati con la chirurgia e circa il 75% delle persone con questa malattia non sopravvive a un anno dalla diagnosi.
Questo ritardo nella scoperta del tumore è dovuto soprattutto alla sua aggressività e alla rapidità, nonché alla frequente assenza di sintomi evidenti. “Sono pochi i sintomi che possono far pensare a un sospetto di tumore al pancreas", sottolinea Gian Luca Grazi, direttore della Chirurgia Epatobiliopancreatica presso l'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena (Ifo): "Fra questi, per una diagnosi precoce bisogna prestare attenzione a segnali quali la presenza di ittero, ovvero la colorazione gialla della pelle, che può essere dovuta all'ostruzione delle vie biliari causata dal tumore, e all'insorgenza improvvisa di un diabete”.
Ma anche una volta che la patologia è stata scoperta, individuare il trattamento più efficace per il singolo individuo non è semplice. Questo perché ogni forma tumorale è diversa e non tutti i pazienti rispondono allo stesso modo ai vari trattamenti chemioterapici disponibili. L'ideale sarebbe riuscire a conoscere qual è il profilo molecolare associato al tumore del paziente, per comprendere fin dall'inizio quale sia il trattamento più efficace.
In questo senso, lo studio del genoma del tumore è una strada molto importante da percorrere. “Non solo per fare prima la diagnosi – spiega Grazi – ma anche per evitare interventi chirurgici inutili, per comprendere quali pazienti rispondono meglio alle terapie e per identificare quali trattamenti sono più efficaci per il singolo paziente: in questo modo, anticipando i tempi della terapia, potremmo arrivare a rendere operabili anche i tumori che inizialmente non lo sono”.
Lo studio
I ricercatori di Pittsburg hanno studiato quasi 4 mila campioni di tessuti di tumore al pancreas di pazienti provenienti da tutto il mondo. L'obiettivo era quello di cercare, sulla base di un insieme di geni già noti ed associati ad altri tipi di cancro, dei biomarcatori che, come delle bandiere biologiche, permettano di catalogare i tipi del tumore al pancreas e di poter trovare dei trattamenti efficaci e già esistenti contro queste diverse forme tumorali. Un po' come avviene già ora in alcuni tumori, come quello al seno, in cui è possibile personalizzare la terapia sulla base del sottotipo tumorale del paziente.
In base ai risultati, gli autori hanno osservato che nel 17% dei campioni analizzati erano presenti particolari mutazioni genetiche, potenzialmente associate al tumore al pancreas. Fra queste anche alterazioni nei geni della famiglia dei Brca, gli stessi coinvolti i altri tumori, in particolare al seno e alle ovaie. Tali mutazioni, spiegano gli autori, fanno ipotizzare che quando presenti il tumore sia maggiormente vulnerabile, ovvero possa essere più facilmente trattato con gli agenti chemioterapici esistenti.
La presenza di queste mutazioni, inoltre, potrebbe essere associata a un maggior rischio della malattia, e in futuro potrebbe consentire di ottenere una diagnosi precoce. “Riteniamo che sia il più vasto studio sul tumore pancreatico condotto con una profilazione genomica globale - conclude Siraj Ali, tra gli autori della ricerca - per identificare un ampio insieme di alterazioni genomiche e, in ultimo, bersagli terapeutici”.
Fonte: qui
LA GERMANIA VORREBBE CACCIARE A PEDATE L'AMBASCIATORE AMERICANO, CHE IL VICEPRESIDENTE DEL BUNDESTAG VUOLE DICHIARARE PERSONA NON GRATA
DIPLOMATICO ASSAI POCO DIPLOMATICO, VICINO A TRUMP E ALLA FAMIGLIA, TUTTA LA VERVE DI UN EX GIORNALISTA, TUTTA LA DETERMINAZIONE DI UN OMOSESSUALE MILITANTE CHE È ANCHE UN REPUBBLICANO E CONSERVATORE. LASCIATO A BAGNOMARIA PER UN ANNO, HA TRATTATO CON GLI INDUSTRIALI, PROVOCATO I POLITICI E INCORAGGIATO I SOVRANISTI. E ORA…
Maria Giovanna Maglie per Dagospia
Persona non grata, avaria diplomatica, commissario di una potenza di occupazione, termine quest'ultimo che in bocca in tedesco suona sempre sinistro. La Germania è ai ferri corti con un ambasciatore. Chi è il cattivo? E' Richard Grenell, ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino, diplomatico assai poco diplomatico, abilissimo e attivissimo sia negli affari che nella polemica politica, vicino a Donald Trump e all'intera famiglia del presidente, tutta la verve di un ex giornalista convertito alla politica e alla diplomazia, tutta la determinazione di un omosessuale militante che è anche un repubblicano e conservatore.
Trump lo ha mandato a trattare direttamente con gli industriali tedeschi, a provocare i politici, ad incoraggiare i sovranisti.
I tedeschi lo avevano capito per tempo, tanto è vero che prima di accettarne le credenziali lo hanno fatto aspettare un anno giocandosi anche la carta dell'omosessualità, loro che fanno pratiche di politically correct tutti i giorni, pur di evitare la iattura.
Da quando è arrivato, a differenza per esempio del discretissimo ambasciatore americano a Roma, Grenell esterna direttamente, e indirettamente sui social network.
Scrive Bloomberg che lo scontro con l'Europa sulla Cina, Trump non è destinato a vincerlo. Però si battaglia niente male e specialmente con alcuni Paesi, la Germania segnatamente, le relazioni non sono mai state a un livello così critico.
Se Grenell è stato mandato a provocare, il suo scopo è raggiunto, da quel che sta accadendo in questi giorni nella capitale tedesca. Il vicepresidente del Bundestag, il liberale Wolfgang Kubicki, ha chiesto addirittura di considerare l’ambasciatore Usa “persona non grata”.
Kubicki ha utilizzato termini che vanno ben al di là dei semplici canoni della diplomazia: “Chi, da diplomatico americano, si comporta come commissario di una potenza d’occupazione, deve sapere che la nostra tolleranza conosce anche dei limiti”. E a Focus Online ha dichiarato: “Noi siamo un Paese sovrano e non dobbiamo dare l’impressione che gli ambasciatori di altri Paesi possano determinare la nostra politica interna”.
Carsten Schneider, esponente del Spd, ha chiosato definendo Grenell “un caso di avaria diplomatica totale”.
Ma che ha fatto questa volta l'ambasciatore americano? Ha accusato il governo tedesco di non perseguire gli stessi obiettivi finanziari dell’Alleanza atlantica, ovvero ha ribadito lo sconto sul finanziamento della NATO tenuto altissimo dell'Amministrazione Trump.
L’obiettivo del 2% del Pil da destinare alle spese per la difesa, è ben lontano dal piano proposto dal ministro delle Finanze Olaf Scholz. “I membri dell’Alleanza avevano concordato di avvicinarsi al 2% entro il 2024 e non di allontanarsene”, ha detto Grenell “Che il governo federale pensi invece di ridurre il suo contributo, già di per sé inaccettabile, all’efficienza operativa militare è un segnale preoccupante”. Nel bilancio previsto dal ministro, la quota di prodotto interno lordo per la difesa aumenta in questi anni solo all’1,37% per poi ridursi all’1,25% entro il 2023.
L’ambasciatore americano ha ritenuto quindi di avere tutto il diritto di risentirsi e dichiarare. Poi è passato a criticare i contatti con la Cina comunista e in particolare l'annosa questione delle telecomunicazioni e dei rapporti con Huawei che dovrebbe entrare nel 5G tedesco.
Ha detto esplicitamente che la posizione tedesca di non escludere Huawei dalla costruzione della rete 5G in Germania avrebbe potuto mettere a rischio la collaborazione tra i servizi d'intelligence dei due
Non e’ piaciuta al cancelliere Angela Merkel, che detesta Grenell da ancor prima che diventasse ambasciatore per le sue inchieste da giornalista e dichiarazioni da politico esordiente sugli errori micidiali della campagna migratoria tedesca..
La Cancelliera, riprendendo le frasi del rappresentante Usa contro la possibilità che Huawei entri nel 5G tedesco, ha detto: “Ci sono due cose di cui non ho nessuna considerazione: la prima, che si discuta pubblicamente di questioni sensibili legate alla sicurezza; la seconda, di escludere un partecipante solo perché viene da un certo Paese”.
il certo paese sarebbe la Cina, Vale la pena di ricordare che in Italia sta per arrivare il presidente cinese e che dopo una lunga serie di polemiche, dal piano di accordi con il governo italiano è stato cancellato tutto il settore legato alle telecomunicazioni.
Non basta, anche sul tema del budget per la difesa, il capo del governo tedesco ha detto: “La fetta di Pil destinata alla Difesa negli ultimi 10 anni è sempre cresciuta, e continuerà a crescere anche l’anno prossimo, all’1,37%. Ma la pianificazione finanziaria a medio termine non può essere presa come parametro. Decisiva è invece la spesa di anno in anno, e questa viene corretta ogni volta verso l'alto”.
Però "sarebbe un errore puntare sulle spese per la difesa in senso strettamente militare, bisogna ragionare anche in termine di prevenzione delle crisi e di sviluppo”.
LA PROCURA MUOVE L’ACCUSA PIÙ GRAVE DAL CROLLO DEL PONTE MORANDI: AVER TRUCCATO I CONTROLLI SUL VIADOTTO PRIMA DELLA STRAGE, FACENDO RISULTARE UN QUADRO PIÙ RASSICURANTE E DEPISTANDO CHI AVREBBE POTUTO EVITARE IL MASSACRO, MAGARI FERMANDO IL TRAFFICO
SONO CINQUE INGEGNERI LEGATI A SPEA ENGINEERING, CONTROLLATA IN TOTO DA AUTOSTRADE PER L’ITALIA E DELEGATA A MONITORAGGI E MANUTENZIONI
LA REPLICA DELLA SOCIETA'
Matteo Indice per www.lastampa.it
È l’accusa più grave mossa dal 14 agosto scorso, quando il crollo del Ponte Morandi a Genova provocò 43 vittime: aver truccato i controlli sul viadotto «prima» della strage, facendo dolosamente risultare un quadro più rassicurante della realtà e depistando chi avrebbe potuto evitare il massacro in extremis, magari stoppando il traffico. La Procura contesta quest’addebito a 5 ingegneri legati a Spea Engineering, società controllata in toto da Autostrade per l’Italia e delegata a monitoraggi e manutenzioni.
«Come pubblici ufficiali»
Per focalizzare la svolta è necessario fissare alcuni paletti. Per il disastro sono stati finora iscritti sul registro degli indagati i nomi di 74 persone, appartenenti ad Autostrade/Spea o al ministero delle Infrastrutture, e settantuno rispondono di omicidio colposo plurimo e stradale e attentato alla sicurezza dei trasporti. Tutti reati colposi che certificano, agli occhi di chi indaga, una «sottovalutazione» del rischio per «negligenza». Altri tre sono nel mirino solo per favoreggiamento: secondo i magistrati hanno quindi sviato i rilievi «dopo» il crollo, ma non sono stati protagonisti di comportamenti che in qualche modo lo hanno cagionato.
A cinque dei 71 inquisiti per lo scempio vero e proprio, tuttavia, i pm hanno attribuito negli ultimi giorni pure il «falso commesso da pubblico ufficiale». A parere degli investigatori i presunti responsabili hanno cioè alterato l’esito delle ispezioni sul Morandi, o fatto risultare come avvenuti test in realtà mai condotti, e a distanza di qualche mese il ponte si è sbriciolato mentre lo stavano attraversando decine di mezzi. È un’ipotesi gravissima e sulla carta potrebbe profilare la contestazione di «dolo eventuale», una sorta di omicidio volontario, laddove fosse chiaro che il pool dei controllori modificava i dossier pur sapendo che il ponte poteva collassare.
Possibile assist per il ministero
Di falso erano stati finora incolpati altri tecnici per i report manipolati su vari viadotti della rete italiana rimasti in piedi (tre in Liguria, uno in Abruzzo e uno in Puglia) in un filone d’accertamenti parallelo. Ed è chiaro che il comportamento doloso pre-crollo accollato ad esponenti di Autostrade e Spea può riverberarsi nella bagarre fra azienda e ministero. A questo punto i dirigenti pubblici potrebbero sostenere di non aver ricevuto dal concessionario privato informazioni corrispondenti al reale stato dell’infrastruttura, in particolare nei carteggi allegati al progetto di retrofitting, il restyling dei tiranti deciso nel 2015 e però fatalmente rinviato. Se l’esito dei monitoraggi sul Morandi era stato taroccato, quant’è stata distorta la percezione del rischio per i funzionari ministeriali, sia a Roma sia al Provveditorato alle opere pubbliche della Liguria?
Input dall’alto e interrogatori
Altro nodo cruciale da sciogliere è quello sui possibili input superiori. È possibile che tecnici di medio livello abbiano deciso autonomamente di trasformare le check-list sul Morandi in una prassi da evadere solo a tavolino? Alcune intercettazioni lascerebbero intendere il contrario, così come una serie d’interrogatori condotti nei mesi scorsi dalle Fiamme Gialle. Ieri, sempre nell’ambito degli approfondimenti sulle presunte falsificazioni, i finanzieri del Primo gruppo (coordinati dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco) hanno compiuto perquisizioni a Milano, a Bologna e a Firenze, in sedi sia di Spea sia di Autostrade, per acquisire documentazione.
Il procuratore: “Ipotesi gravi e la ricostruzione può slittare”
Sull’ultimo rivolgimento delle indagini interviene il procuratore capo di Genova Franco Cozzi, e nel confermare la svolta spiega: «Le ipotesi accusatorie vanno formulate per essere verificate, a garanzia di chi è sospettato. È tuttavia evidente che l’inchiesta accelera e registrerà aggiornamenti significativi». Il numero uno dei pm rimarca poi come eventuali ritardi nella ricostruzione collegati alla garanzia di salute e sicurezza (in una delle parti da demolire sono emerse tracce di amianto, che impediscono l’impiego dell’esplosivo) non vadano drammatizzati:
«La scadenza del 15 aprile 2020 per l’inaugurazione del nuovo viadotto? Non stiamo preparando lo sbarco in Normandia, non c’è un D-day prefissato il cui rinvio può alterare in maniera irreversibile l’esito d’una guerra. Io ribadisco che proprio salute, sicurezza e indagini per ristorare i familiari delle vittime, sono una priorità. E in nome di queste priorità, nel caso, si può accettare qualche slittamento dei tempi. È semplice buon senso».
La replica di Spea: «Noi professionali, se qualcuno ha sbagliato pagherà»
Dopo le rivelazioni sull’indagine, oggi Spea ha deciso di prendere posizione con una nota, in cui la società «ribadisce la propria serenità circa il corretto operato dei suoi dipendenti rispetto alle attività d’ispezione e sorveglianza sul viadotto Morandi. E conferma con forza come la sicurezza di tutti gli utenti sia stata e sia garantita da controlli effettuati da professionisti qualificati sull’intera rete autostradale da oltre trent’anni, nel rispetto delle norme applicabili e delle obbligazioni assunte con la committente Autostrade per l’Italia».
Quindi la puntualizzazione sul prosieguo dell’inchiesta: «Spea ribadisce la massima disponibilità a collaborare con l’autorità giudiziaria. Alla società non risulta, allo stato, alcuna evidenza di comportamenti non regolari che, qualora venissero accertati, la vedrebbero come parte lesa. In tale denegata circostanza, la società non esiterebbe ad assumere tutti i provvedimenti e le azioni a tutela dell’interesse primario alla sicurezza della circolazione, di tutte le persone che quotidianamente svolgono il proprio lavoro con dedizione e professionalità, dei propri clienti e della propria reputazione».
Fonte: qui
L’ASSURDA VICENDA GIUDIZIARIA DEI FIGLI DI MARIANNA MANDUCA, LA CATANESE UCCISA A COLTELLATE IL 3 OTTOBRE 2007 DAL MARITO: ORA LO STATO CHIEDE INDIETRO IL RISARCIMENTO CONCESSO IN PRIMO GRADO PERCHÉ TANTO L'UOMO...L’AVREBBE UCCISA LO STESSO!
DAVVERO LA SUA MORTE NON POTEVA ESSERE EVITATA, NONOSTANTE LA DONNA AVESSE FIRMATO 12 DENUNCE?
Giusi Fasano per il “Corriere della Sera”
È la resa. È lo Stato che alza bandiera bianca e in una sentenza scrive, in sostanza, che l' omicidio di Marianna Manduca non poteva essere evitato. È lo Stato che ammette l' inammissibile, e cioè che qualunque cosa il sistema Giustizia avesse fatto per intercettare le esigenze di lei, lui - suo marito - l' avrebbe comunque uccisa. Una specie di vittima predestinata, Marianna. E, dodici anni dopo la sua morte, oggi diventano più vittime di quanto lo siano mai stati anche i suoi tre figli, ancora tutti minorenni.
A loro il verdetto di primo grado aveva concesso un risarcimento perché la magistratura non aveva fatto abbastanza per proteggere la mamma. A loro adesso la sentenza d' appello chiede di restituire tutto. È lo Stato (formalmente la presidenza del Consiglio) che chiede i soldi indietro a tre orfani. Marianna, 32 anni, vita e famiglia a Palagonia, in provincia di Catania, fu uccisa a coltellate il 3 ottobre del 2007 da suo marito, Saverio Nolfo, poi condannato a 21 anni di carcere.
Lei aveva firmato 12 denunce contro di lui: d' accordo. Nelle ultime aveva spiegato che lui si era presentato con un coltello e che le minacce di sempre erano diventate tangibili: va bene. Era un uomo pericoloso e le aveva promesso di ammazzarla: certo. Ma «ritiene la Corte» che a nulla sarebbe valso sequestrargli il coltello con cui l' ha uccisa «dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità di un' arma simile».
Nemmeno «l' interrogatorio dell' uomo avrebbe impedito l' omicidio della giovane donna», scrivono i giudici. Tutt' al più lui avrebbe capito «di essere attenzionato dagli inquirenti». Men che meno avrebbe avuto effetto una perquisizione a casa sua per scovare il coltello mostrato a lei minacciosamente. In pratica, «ritiene la Corte», che «l' epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato».
Ventuno pagine di sentenza per descrivere il senso di totale impotenza della magistratura (in quel caso la Procura di Caltagirone) davanti alle suppliche di aiuto di Marianna. E per smentire la decisione di primo grado che invece aveva parlato di «grave violazione di legge con negligenza inescusabile» nel «non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati» e nel «non adottare nessuna misura per neutralizzare la pericolosità di Saverio Nolfo».
Il giudizio d' appello, invece, sostiene che la Procura fece il possibile date le leggi del momento (ancora non c' era la legge sullo stalking). Dice che - è vero - non eseguì la perquisizione e quindi non sequestrò il coltello, ma le due non-azioni, appunto, non sarebbero bastate a scongiurare il peggio.
Per i maltrattamenti e le minacce di morte era previsto anche allora l' arresto (quello sì che avrebbe scongiurato il delitto) ma i comportamenti di Nolfo non furono interpretati all' epoca, e non lo sono in questa sentenza, come gravi: «Non consentivano l' applicazione della misura cautelare». Nemmeno quando lui accolse Marianna mostrandole un coltello a serramanico con il quale finse di pulirsi le unghie. Nessuna responsabilità significa niente risarcimento, «e se la Cassazione non rivedrà il giudizio per i miei figli sarà la rinuncia al futuro che avevano sperato, per esempio all' università» si tormenta Carmelo Calì, il cugino di Marianna che, già padre di due figli, subito dopo l' omicidio adottò i suoi tre bambini senza averli mai conosciuti prima.
È suo il nome che figura nella causa contro la presidenza del Consiglio. I suoi avvocati, Licia D' Amico e Alfredo Galasso, si dicono «sconcertati» e parlano di una magistratura che «dovrebbe riflettere su questa permanente tendenza all' autoassoluzione». Fa sentire la sua voce anche Mara Carfagna, che definisce la sentenza «sconvolgente» e scrive: «La Corte d' Appello dice agli orfani e a tutti noi che quel femminicidio non poteva essere evitato, denunciare i violenti è vano». Per Marianna andò esattamente così: dodici denunce. Tutto vano.
Fonte: qui
PIÙ EUROPA, PIÙ SOROS, PIÙ SOLDI.
IL FINANZIERE NEMICO DEI SOVRANISTI HA DONATO 200MILA EURO AL PARTITO DELLA BONINO (CHE SI DICE ''ORGOGLIOSA'' DI AVERE IL SUO APPOGGIO).
MA SOLO PERCHÉ LA LEGGE IMPEDISCE DI VERSARE DI PIÙ: L'ANNO SCORSO PETER BALDWIN. STIMATO STUDIOSO AD HARVARD, HA MESSO A DISPOSIZIONE DEL MOVIMENTO EUROPEISTA 1,6 MILIONI, DA RIPARTIRE SUI SINGOLI CANDIDATI VISTO CHE LA SOGLIA è 100MILA…
Alberto Battaglia per https://www.wallstreetitalia.com
Più Europa, il partito guidato da Emma Bonino, ha ricevuto quasi 200mila euro di finanziamenti da George Soros e da sua moglie, Tamiko Bolton, in vista delle prossime elezioni europee. I contributi, versati con due operazioni datate 22 e 30 gennaio 2019, sono stati pubblicati sul sito del partito, in seguito all’entrata in vigore della legge Spazzacorrotti (l. 9 gennaio 2019, n. 3). Dal 31 gennaio, infatti, i partiti sono tenuti a pubblicare le identità dei finanziatori il cui contributo superi i 500 euro.
Da inizio anno George Soros e sua moglie risultano gli unici finanziatori di Più Europa ad aver superato tale soglia. La legge italiana proibisce donazioni individuali superiori ai 100mila euro nell’arco di un anno. Per tale ragione, Soros e la moglie non potranno effettuare ulteriori donazioni al partito nel 2019.
In occasione delle elezioni politiche del 2018 si era fatto strada il dubbio che, dietro all’imponente cartellonistica del piccolo partito, si celassero grossi finanziatori. Il nome di Soros, finanziere e filantropo dalla storia controversa, fu il primo a circolare fra i possibili donatori.
Emma Bonino e Soros, del resto, sono legati da un’amicizia di lunga data.
Si può escludere, però, che il fondatore della Open Society abbia direttamente finanziato Più Europa nel 2018. Dal bilancio del partito, infatti, si apprende che i contributi dall’estero (pari a 100mila euro) sono stati tutti ascrivibili al professor Peter Baldwin. Stimato studioso ad Harvard, Baldwin ha messo a disposizione del movimento europeista 1,6 milioni di euro, di cui solo 100mila, per legge possono finire nel bilancio del partito (la parte restante è andata a finanziare le campagne di singoli candidati).
Il contributo di George Soros, perfettamente legale, colpisce per il peso specifico che assume nelle finanze di un partito relativamente piccolo, che conta circa 5.200 iscritti e che l’anno scorso ha raccolto appena il 2,56% dei voti alla Camera. Per fare un confronto, Più Europa nel 2018 ha raccolto da tutti i suoi tesseramenti la stessa cifra donata, a gennaio, da Soros e consorte. I finanziamenti e contributi complessivi ricevuti l’anno scorso dal partito, ammontano a 751.164 euro. Detta altrimenti, se il bilancio di quest’anno racimolasse le stesse cifre del 2018, Soros avrebbe contribuito al 26,6% delle finanze di Più Europa.
L’appoggio di Soros alla politica, una storia nota
Per il fondatore della Open Society, finanziare campagne politiche è tutt’altro che una novità. Convinto sostenitore di una visione progressista e aperta della società, Soros ha ripetutamente denunciato i rischi del populismo europeo. Non stupisce, quindi, che il suo contributo vada a favore della forza politica che più radicalmente si oppone ai sovranisti. Un altro esempio di attivismo politico, dietro le quinte, è stato il finanziamento della campagna presidenziale di Hillary Clinton nel 2016, con un contributo da 9,5 milioni di dollari (fu il quinto maggior donatore dell’ex first lady). Nonostante la cifra imponente, l’aiuto di Soros non costituì che l’1,68% dei fondi raccolti dalla Clinton.
L’utilizzo politico del patrimonio di Soros, stimato a 8,3 miliardi di dollari, a supporto dei movimenti affini al suo pensiero gli è valso la fama di manovratore oscuro dei processi democratici. Com’è del tutto evidente dall’esperienza Clinton, però, i soldi non sono una condizione sufficiente per la vittoria delle elezioni. Allo stesso tempo, restano un vantaggio competitivo notevole rispetto a quei movimenti che non attirano le simpatie di supporter multimiliardari.
I finanziatori che hanno messo in imbarazzo l’Alde
Più Europa rivendica con orgoglio di essere l’unico membro italiano dell’Alleanza dei liberali e democratici europei (Alde). Anche i liberali dell’europarlamento hanno dovuto fare i conti con la cattiva pubblicità derivante dai loro finanziatori. Un’inchiesta pubblicata dal quotidiano Le Monde il 10 marzo ha rivelato che Alde aveva ricevuto, solo nel 2018, circa 122mila euro da lobby e società come Bayer, Uber, Google e AT&T.
“È perfettamente legale”, è stata la prima linea di difesa del direttore della comunicazione dell’Alde, Didrik de Schaetzen. Tre giorni dopo, in seguito alle rimostranze del partito di Macron, En Marche, il gruppo Alde ha annunciato che non avrebbe più accettato contributi finanziari da parte delle imprese (in Francia questa pratica è illegale). En Marche ha fatto sentire la sua voce perché sta considerando di entrare nel gruppo liberale il vista delle europee.
Una questione di trasparenza
In un contesto politico sempre più dipendente dai finanziamenti privati, favorito dall’avversione dei cittadini al finanziamento pubblico ai partiti, la trasparenza assume un’importanza cruciale. Emma Bonino, nel 2017, aveva dichiarato (nel video) che il sostegno finanziario da parte di Soros non è motivo d’imbarazzo, bensì di orgoglio. Di certo è un contributo che, sulle disponibilità di cassa di Più Europa, fa sentire il suo peso.
Fonte: qui
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