9 dicembre forconi: 02/11/17

sabato 11 febbraio 2017

BUNDESBANK: GERMANIA NEL MIRINO DI TRUMP!

Noi da tempo vi raccontiamo che uno dei più grandi rischi per i prossimi anni è il protezionismo, il maggiore responsabile della Grande Depressione del ’29!

Guai a fermare il commercio. Il rischio? L’inizio della guerra. Parola di Jack Ma, il fondatore di Alibaba, la piattaforma di e-commerce più grande della Cina, secondo quanto riporta l’Independent. Durante un discorso a Melbourne, dove Ma si trova per il lancio di Alibaba in Australia e Nuova Zelanda, l’uomo più ricco della Cina ha dichiarato: “Tutti sono preoccupati per le guerre commerciali. Se (però) il commercio si ferma, inizia la guerra”. Per questo motivo, ha aggiunto, “il mondo ha bisogno di globalizzazione, ha bisogno di commercio”.“SE SI FERMA IL COMMERCIO INIZIA LA GUERRA”
Sul fatto che il mondo abbia bisogno di globalizzazione ne possiamo discutere, meglio se parliamo di glocalizzazione, la globalizzazione selvaggia a servizio delle multinazionali ha fallito.
In fondo hanno ragione coloro che, come noi, ricordano quotidianamente che la perdita dei posti di lavoro o meglio la difficoltà a crearne di nuovi è un tendenza intrinseca alle dinamiche sociale micro ed economiche di questo tempo dal calo demografico all’innovazione tecnologica. Se poi ci si mettono anche i governi a fare deflazione salariale il gioco è fatto.
Se ci pensate bene non sarebbe un male che i robot riescano a cancellare una serie di lavori alienanti e ripetitivi per l’essere umano si potrebbero creare milioni e milioni di posti di lavoro attraverso i servizi alla persona visto che nei prossimi anni avremo un mondo di anziani avanti di questo passo, dove si vendono più pannolini per adulti che per bambini, come in Giappone.

Ecco la prima scarpa Adidas prodotta interamente da Robot

Chinese factory replaces 90% of human workers with

Si lo so sono discorsi difficili, ma meno di quello che credete.
Ma torniamo al gossip economico visto che in Germania si stanno tutti agitando per l’avvento di Trump al punto tale di identificarlo con Perseo che si porta a spasso la testa di Medusa…
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Si fosse limitato ad esternare le sue ben fondate paure sulla guerra che gli Stati Uniti faranno alla Germania passi, ma rompere i fondamentali ancora tirando fuori la storiella del debito pubblico altrui adesso basta!
La Germania ha ridotto il debito grazie alla truffa del surplus, grazie ai soldi i che i contribuenti europei hanno messo per salvare le loro  anche, grazie a 8 milioni di anime che vegetano con salari da 400 euro al mese (mini non) grazie al fatto che in questi anni se ne sono fregati di fare investimenti in Germania, di alimentare consumi interni e via dicendo, quindi Wiedmann se ne stia zitto e impari a controllare quelle ciofeche di banche che si ritrova in casa!
Industriali e banchieri tedeschi rispondono alle accuse del presidente Trump e dei suoi consiglieri. Jens Weidmann, presidente della Bundesbanke consigliere della Bce, dice in un convegno a Magonza: «A mio avviso i toni protezionistici usati dalla nuova amministrazione statunitense sono molto preoccupanti, tanto più che la Germania sembra essere sempre di più nel mirino del Governo americano».
Weidmann va dritto contro le accuse del funzionario dell’Amministrazione Trump: «È più che assurdo» dire che la Germania trae ingiusto beneficio da un euro debole. Nega anche che la Germania sfrutti i suoi partner commerciali: «Il più recente rafforzamento del dollaro è stato fatto in casa, creato da annunci politici di questo nuovo governo (americano ndr)».
Le imprese tedesche, continua Weidmann in contrattacco, hanno successo «perché si posizionano in modo eccellente sul mercato mondiale, e convincono con prodotti innovativi».
Per favore diciamola tutta! Hanno successo anche perché truccano motori come nel caso Volkswagen o corrompono mezzo mondo come nel caso di Siemens insegna per piazzare i loro costosissimi prodotti!
E mi sono limitato a fare solo due esempi ma ne avrei a decine per questo Paese, il nostro, che non ha il minimo orgoglio per le sue potenzialità!
Da Berlino nelle stesse ore, le imprese tedesche avvertono l’America: l’agenda protezionistica non paga, porterà al declino americano non certo nuovi posti di lavoro.
Il fronte europeo
I Paesi dell’area dell’euro «hanno risparmiato tutti assieme 1.000 miliardi di euro in servizio del debito rispetto ai livelli del 2007» grazie alla politica di tassi bassi condotta dalla Bce, ma «anche in tale scenario diversi Paesi non possono o non vogliono rispettare il limite di Maastricht sul deficit», ha detto Jens Weidmann, nel suo discorso a Magonza, in Germania, aggiungendo che «proprio i Paesi più grandi dell’euro, come Francia, Italia e Spagna, che rispetteranno a malapena o mancheranno la soglia del 3%, hanno usato tutto il risparmio in interessi per aumentare la spesa pubblica e non per diminuire il debito».

Fonte: qui 

LA GERMANIA VUOLE RIPORTARE A CASA LA METÀ DELLE 3400 TONNELLATE DI ORO DI SUA PROPRIETÀ

111 DI QUESTE SONO CUSTODITE ALLA FEDERAL RESERVE DI NEW YORK 

L'OPERAZIONE FA PARTE DI UN PROGETTO DI RAZIONALIZZAZIONE AVVIATA DALLA BUNDESBANK MA L’ELEZIONE DI TRUMP HA IMPRESSO UN’ACCELERAZIONE

Angelo Allegri per “il Giornale”

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Auric Goldfinger, il cattivo che dà il titolo a uno dei più famosi film di James Bond, mette sotto assedio Fort Knox: con una piccola bomba nucleare vuole rendere radioattive e quindi inutilizzabili, le riserve d'oro americane. I funzionari della Bundesbank entrati negli ultimi mesi nei caveau della Federal Reserve Usa avevano motivazioni più pacifiche: riportare a casa l'oro tedesco immagazzinato nei forzieri statunitensi.

Nel corso del 2016 a lasciare l'America e a prendere la strada di Francoforte sono state 111 tonnellate di metallo giallo: per la precisione 8880 lingotti da 12,5 chili l'uno. Tutti, anzichè a Fort Knox, erano in realtà custoditi nel pieno centro di Manhattan: nei sotterranei della Fed di New York in Liberty Street, a due passi da Wall Street.

IL CAVEAU DELLA FEDERAL RESERVE BANK DI NEW YORKIL CAVEAU DELLA FEDERAL RESERVE BANK DI NEW YORK
L'operazione fa parte di un progetto di razionalizzazione delle riserve avviata dalla Bundesbank tra il 2012 e il 2015, ma per completare l'opera la Banca centrale si era data fino al 2020. Poi, più di recente, ha deciso di stringere i tempi. E volendo basta questo per fare dell'oro tedesco riportato in patria una sorta di simbolo. Nell'era di Donald Trump, delle nostalgie sovraniste, delle polemiche sul possibile ritorno ai dazi doganali, è il segno di un altro ponte levatoio che si alza a separare aree economiche fino a poco tempo unite e convergenti nel nome della globalizzazione.

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L'oro tedesco in Germania è un pezzo di storia dell'economia. Nel sistema monetario nato dagli accordi di Bretton Woods, firmati nel 1944 e incaricati di gestire la rinascita economica del dopoguerra, le banche centrali regolavano in oro i saldi tra i diversi Paesi. E dagli anni Cinquanta il surplus della bilancia commerciale tedesca è un classico dei rapporti internazionali.

Anno dopo anno i tedeschi hanno sempre venduto più di quanto comprassero e accumulato così veri e propri tesori nelle casseforti delle principali banche centrali: negli Usa, in Gran Bretagna e Francia. In tempi di guerra fredda, e tenendo presente i possibili pericoli di invasione russa, il governo di Bonn decise che i tesoretti andavano lasciati dove stavano e che, anzi, rappresentavano una specie di polizza assicurativa. Così le montagne d'oro detenute all'estero sono cresciute.

BUNDESBANKBUNDESBANK
Il sistema di Bretton Woods crollò nel 1973, e l'oro perse molto del suo valore pratico, pur mantenendo quello simbolico. Tenere diversificati i depositi sembrò comunque una scelta saggia e nessuno tocco i lingotti. Di più: la questione rimase praticamente dimenticata fino al 2012, quando un politico dell'ala destra della Csu bavarese, Peter Gauweiler, imbastì sulla questione una campagna d'opinione.

Non solo non sappiamo più esattamente dove è finito il nostro oro, era il suo slogan, ma in periodi di incertezza valutaria sarebbe bene poterne disporre senza ritardi riportandolo sotto il controllo della Bundesbank. Così la polemica sull'oro ha finito per mescolarsi, almeno agli occhi dei «falchi» teutonici, con quella sulla moneta unica.

ORO LINGOTTOORO LINGOTTO
Anche perchè sul tema hanno iniziato a circolare fantasiose teorie complottistiche. La Fed non rispose a una prima richiesta della Bundesbank. Un disguido burocratico, pare. Ma in Rete si diffuse la spiegazione che in realtà l'oro non c'era più. Alla fine, per mettere a tacere le voci, la Corte dei Conti ordinò un'inchiesta.

Oggi la Germania è vicina al suo obiettivo: riportare in patria la metà delle 3400 tonnellate di sua proprietà (solo gli Stati Uniti con 8mila ne hanno di più). Oltre alle 111 tonnellate arrivo da New York nel 2016 (che si aggiungono alle 190 trasferite tra il 2013 e il 2015) si sta completando il trasloco di quelle custodite a Parigi (374).

Non tutto l'oro dei Nibelunghi volerà però a Francoforte. Come da programma resteranno attivi i depositi dei due maggiori centri finanziari internazionali, dove almeno potenzialmente, in caso di cataclisma valutario, sarebbe necessario mobilitare delle riserve. In America resteranno 1236 tonnellate, a Londra 436. Ancora molte. Ma con qualche lingotto in più sotto il materasso di casa, i nostalgici del vecchio marco si sentono oggi più tranquilli.

Fonte: qui

IL FIGLIO DI MARIO DRAGHI, GIÀ TRADER PER MORGAN STANLEY DOVE VENDEVA DERIVATI (GIÀ SPECIALITÀ DEL PAPA') VA A LAVORARE IN UN HEDGE FUND DA 2,5 MILIARDI DI DOLLARI


Sara Bennewitz per ‘la Repubblica

Giacomo Draghi, figlio del governatore della Banca centrale europea Mario Draghi, avrebbe dato le dimissioni da Morgan Stanely per andare a lavorare ad un fondo hedge Lmr Partners. Dopo 13 anni ai vertici della banca d’affari americana, il finanziere italiano avrebbe deciso di cambiare mestiere.

Giacomo Draghi presso Morgan Stanley si è sempre occupato di strumenti derivati(MENTRE IL PADRE SI OCCUPA DEI TASSI DI INTERESSI E DI RIFINANZIARE BANCHE ED ASSICURAZIONI FALLITE!!!) denominati in euro e franchi svizzeri. Lmr è un fondo hedge basato a Londra e Hong Kong che gestisce 2,5 miliardi di dollari ed è stato fondato da due ex dipendenti di Ubs, Ben Levine e Stefan Renold.
mario draghiMARIO DRAGHI

Negli anni, giornalisti e altri professionisti avevano spesso chiesto al padre, Mario Draghi, se il lavoro del figlio, che ha studiato all’università Bocconi a Milano, non fosse in conflitto con quello del governatore. Il problema non sussiste - è sempre stata la difesa della famiglia Draghi - perché Giacomo per Morgan Stanley si è sempre occupato di trading, vale a dire di acquisto e vendita di derivati(su valute e tassi di interesse) sul mercato, e non di vendere per conto della banca Usa prodotti sui quali percepire una commissione.

MORGAN STANLEYMORGAN STANLEY
E ora che il giovane finanziere andrà a lavorare per il fondo hedge, la questione dovrebbe diventare meno rilevante e nessuno potrà dire che Morgan Stanley è una banca che sta a cuore a Mario Draghi, che peraltro prima di andare alla Bce aveva lavorato per anni in Goldman Sachs.


CIMICI E INTERCETTAZIONI INGUAIANO BAZOLI. E NON SOLO PER LE OPERAZIONI SU UBI BANCA

CONVINSE NAPOLITANO CHE ALL’ENI BISOGNAVA METTERE DESCALZI, SU CONSIGLIO DI SCARONI 

RENZI VOLEVA UNA DONNA, MA KING GEORGE LO DISSUASE
Maurizio Tortorella per la Verità

GIOVANNI BAZOLIGIOVANNI BAZOLI
Non ci sono soltanto gli incontri e i suggerimenti del presidente emerito Giorgio Napolitano, che nel marzo 2015 introduceva l' indagato Giovanni Bazoli presso il neoeletto capo dello Stato, Sergio Mattarella. Non c' è solo quello, nei brogliacci di migliaia di telefonate intercettate depositati dalla Procura di Bergamo lo scorso 17 novembre, alla conclusione delle indagini sui vertici di Ubi Banca. 

Gli inquirenti, che con Bazoli accusano 38 manager e azionisti di ostacolo alla vigilanza e d' illecita influenza sull' assemblea dei soci, dall' inizio del 2014 e per metà del 2015 hanno messo sotto controllo una serie di telefoni.

DE BORTOLI E BAZOLIDE BORTOLI E BAZOLI
Di certo il più «interessante» è il cellulare dello stesso Bazoli, nel 2007 fondatore di Ubi Banca, ma anche di Intesa-SanPaolo, il colosso creditizio di cui nel 2014 era ancora al vertice (si dimetterà il 27 aprile 2016). E proprio quel telefono conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l' ottuagenario banchiere è al centro di mille intrecci e di continue trattative: dalle nomine nel consiglio d' amministrazione della Scala di Milano, su su fino alla guerra per conservare il controllo del Corriere della Sera.

RENZI NAPOLITANORENZI NAPOLITANO
Il suo cellulare è in contatto diretto con alti prelati, direttori di giornali, sindaci, parlamentari, grand -commis di Stato, ministri, banchieri, e alcune delle più alte cariche della Repubblica. Ci sono addirittura cardinali che premono per conservare le consulenze di Intesa-SanPaolo a un loro protetto, uno che (così dice Bazoli, con un filo di cinico realismo) «deve avere fatto loro tutta una serie di piaceri...».

L' 11 aprile 2014 chiama anche Paolo Scaroni, amministratore delegato dell' Eni, colosso dell' energia controllato dal Tesoro, il quale rivela a Bazoli che «il nuovo amministratore delegato sarà Claudio Descalzi», o almeno questo è quello che lui vorrebbe fosse designato come suo successore, mentre il nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi «vorrebbe che fosse una donna». Nel brogliaccio si legge che Scaroni aggiunge di «averne parlato con il presidente Giorgio Napolitano». Scaroni richiama allarmato due giorni dopo, il 13 aprile, per avvertire che «l' indomani Renzi andrà da Napolitano con la lista delle nomine, per cui se uno vuole poter dire qualcosa...». Insomma, Bazoli deve intervenire in fretta.
Descalzi ScaroniDESCALZI SCARONI

Il banchiere rivela di avere già chiesto un appuntamento al Colle per giovedì 17. I due si risentono il 18, e Bazoli riferisce dell' incontro con Napolitano: «Ho capito che alcune cose sono andate per il verso giusto», attacca Bazoli, poi aggiunge poche parole: «L' azienda rimane in mani fidate». Insomma, quattro importanti cariche all' interno del gruppo. La mattina del 14 maggio 2014, quando l' inchiesta viene svelata dalle prime perquisizioni tra Brescia e Bergamo, i telefoni di molti indagati diventano roventi. Alcuni, però, sono più accorti di altri.

Francesca, per esempio, parla dell' inchiesta con un notaio di Milano, il quale sostiene che l' accusa «che gli fa più paura» è quella che ipotizza che Bazoli abbia gestito tutte le nomine di comune accordo con Emilio Zanetti, il leader dell' Associazione amici di Ubi, la compagine azionaria bergamasca.
UBI BANCAUBI BANCA

È proprio la «cabina di regia» che ipotizzano i magistrati di Bergamo, Walter Mapelli e Fabio Pelosi. Il notaio aggiunge che l' Associazione banca lombarda e piemontese, la compagine azionaria bresciana di cui proprio Giovanni Bazoli è presidente, «si può considerare un patto parasociale che...». Ma Francesca lo interrompe bruscamente: «Meglio non parlare al telefono». La stessa preoccupazione traspare il 16 maggio, quando Francesca chiama un amico al dipartimento della pubblica sicurezza presso il ministero dell' Interno e gli confida, forse provocando qualche legittimo imbarazzo, che le «hanno detto che i telefoni sono sorvegliati».
victor massiahVICTOR MASSIAH

Francesca, comunque, non riesce sempre a trattenersi. Lo stesso 14 maggio 2014, alla fine della convulsa giornata delle perquisizioni, parla al cellulare con l' amministratore delegato di Ubi, Victor Massiah, a sua volta indagato. Costui si dice ottimista sull' inchiesta: «Ne usciremo», dice, «anche perché lo spessore di chi ci accusa non è...». E lei risponde: «La cosa più triste è che una Procura si presti a tutto ciò».

FRANCESCA BAZOLI













FRANCESCA BAZOLI
Mesi dopo, nel febbraio 2015, padre e figlia sembrano un poco più preoccupati dell' inchiesta che avanza. Il 13 di quel mese, Giovanni Bazoli per chiamare Francesca usa il telefono di un dipendente di Banca Intesa e fa mostra di grande pessimismo: contro di loro, dice, «c' è un piccolo oltretutto una mole di materiale immenso, non si fermano nel modo più assoluto».

Nelle carte depositate dalla Procura c' è infine il brevissimo capitolo della microspia piazzata nell' ufficio di Giovanni Bazoli. Verso le ore 13 di giovedì 15 maggio 2014, l' indagata Francesca Bazoli è a colloquio con suo padre Giovanni. La donna, che forse sospetta di essere stata intercettata per mesi e tra quelle mura si crede più al sicuro, cerca di consolare l' anziano banchiere e parla degli articoli appena usciti. Giovanni Bazoli le risponde con un implicito invito alla cautela: «Per i reati contestati c' è la possibilità di effettuare le intercettazioni».

BAZOLIBAZOLI
L' audio a quel punto si abbassa, forse la cimice comincia a funzionare male, o forse i due parlano più piano. Francesca si lascia andare: «Ma com' è possibile che un' indagine tanto delicata sia in mano a un pubblico ministero giovanissimo, inesperto? Queste notizie lasciano allibita la gente e l' opinione pubblica». A quel punto, la conversazione diventa per un breve tratto incomprensibile. Quindi Francesca sostiene che «in questo momento è impossibile tirarsi fuori da questi attacchi» e consiglia al padre di «lasciare perdere le relazioni con Ubi». Bazoli si lamenta dell' esposizione mediatica.

Un vero peccato che la «cimice» piazzata in quell' ufficio, da quel momento in poi, smetta di funzionare. Perché da quel momento, annotano i funzionari di polizia giudiziaria, si sentono praticamente solo rumori di fondo.

Fonte qui