Come in ogni crisi che si rispetti (o che stia per arrivare), ecco giungere 
proposte finalizzate a tassare la ricchezza degli italiani attraverso l’introduzione (o l’inasprimento) di imposte patrimoniali.
Con la 
crescita economica che arranca, il bilancio statale in cronica difficoltà è necessario  ottenere gettiti fiscali aggiuntivi. Quindi, cosa di meglio di una bella  imposta patrimoniale? dicono. 
Dei 
cinque rischi capitali dei quali da anni si parla in questo blog, trovo che l’imposta  patrimoniale sia quello che presenta maggiori maggiori difficoltà  applicative, sia a causa degli aspetti tecnici, sia a causa della  sostenibilità politica di un’imposta del genere, che tuttavia piace e  viene evocata da molte parti politiche.
Di seguito vi propongo un  mio ultimo lavoro che riprende e aggiorna i precedenti contributi. Si  tratta di un articolo pubblicato su Investors’ mese di maggio.
Buona lettura.
Quando  si parla di imposta patrimoniale, la mente tende a correre al lontano  1992, quando l’allora Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, durante  la notte, operò un prelievo una tantum del 6 per mille sulle giacenze  dei conti correnti.
Benché in forme differenti rispetto al  1992, imposte patrimoniali sono  già presenti nel nostro ordinamento  tributario e si chiamano principalmente IMU e Imposta sostitutiva sulle  attività finanziarie; ma ne esistono anche altre minori. Al netto delle  modalità censurabili con cui venne effettuato il prelievo dai conti,   a  differenza della patrimoniale di Amato del 1992, quelle attuali sono  addirittura più invasive poiché, essendo strutturali, colpiscono  periodicamente le attività possedute in forma di patrimonio immobiliare e  attività finanziarie (conti correnti, fondi comuni, dossier titoli  ecc). Scopo di questo articolo è quello di cercare di capire in che modo  si potrebbe essere colpiti da un’imposta patrimoniale e quali sono le  attività più esposte a questo rischio.
Quindi, cerchiamo di capire  quali difficoltà potrebbero riscontrarsi nell’applicazione di una  simile imposta.  
Preliminarmente, va osservato  che il governo potrebbe  contare su un ”extragettito”, semplicemente inasprendo il prelievo  fiscale sulle imposte patrimoniali già in essere.  
Ciò  potrebbe esser  fatto agevolmente alzando le aliquote del prelievo sia per l’IMU, che  per l’imposta sostitutiva sulle attività finanziarie. 
Nel caso dell’IMU,  inoltre, per ottenere lo stesso risultato, ad aliquote immutate  , sarebbe sufficiente una rivalutazione degli estimi delle proprietà  immobiliari, tali da attribuire agli immobili un valore superiore,  aumentando così la  base imponibile da colpire e  favorendo quindi un  aumento di gettito. 
Questa soluzione, per quanto di facile applicazione,  presenterebbe comunque delle controindicazioni delle quali il Governo  dovrebbe tenerne conto, almeno si spera.  Innanzitutto, nel pensare ad  un eventuale inasprimento del prelievo fiscale relativo alle imposte  patrimoniali già presenti, non si potrebbe non tenere in considerazione  gli effetti che questo determinerebbe  alla luce del quadro  congiunturale decisamente debole,  dopo un lungo periodo di recessione,  che ha colpito duramente il reddito delle famiglie italiane (Figura 1).
Figura  1: Il Grafico mostra l’andamento dei redditi reali nei vari paesi  considerati, ponendo come base 100 i redditi nell’anno 1995. 
Come si  osserva i redditi degli italiani sono precipitati ai livelli del 1995 e  nessuno dei paesi considerati vanta un prima così negativo. Elaborazione  di Paolo Cardenà su dati Eurostat.
Si consideri che, un eventuale  aumento dell’imposizione, per quanto limitato che sia, andrebbe a  colpire il reddito disponibile delle famiglie, e pertanto  produrrebbe   una ulteriore contrazione dei consumi e quindi aggraverebbe anche il  ciclo economico, già per nulla brillante.  
Questo, inoltre, potrebbe  comportare una diminuzione più o meno marcata della capacità di rimborso  dei mutui al sistema bancario, impattando sugli  istituti di credito  che, a quel punto, si troverebbero nella condizione di  dover esporre  ulteriori sofferenze potenzialmente idonee ad abbatterne il patrimonio,   aggravando così una situazione già complessa (confronta Investors’ n.  1).  
In tal senso, ad esempio, un aumento della struttura impositiva  dell’IMU (realizzata attraverso un aumento delle aliquote o anche  attraverso una rivalutazione della base imponibile), rischierebbe di  essere troppo severo  o addirittura insostenibile per coloro che non  dispongono di una capacità di reddito adeguata per poter sopportare un  esborso aggiuntivo rispetto a quanto pagato in ragione alle regole  attuali.
Tutt’altro ragionamento potrebbe esser osservato in caso  di aumento delle aliquote patrimoniali sulla ricchezza finanziaria,  ossia quella ricchezza investita in titoli, obbligazioni, azioni, fondi  comuni ecc. In questo caso, benché sia già prevista una imposta  sostitutiva dello 0,20%, ciò che rende possibile un ulteriore  inasprimento dell’imposizione fiscale, risiede proprio nella natura  dell’investimento stesso. E  cioè, il fatto che questo sia  “immobilizzato” e quindi potenzialmente escluso dal soddisfacimento  diretto dei bisogni, e quindi dal sostenimento del ciclo economico  attraverso la spesa di parte delle risorse investite.
Figura  2:  La tabella riporta i dati relativi alle attività reali delle  famiglie italiane nell’anno 2013. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati  Banca d’Italia.
Veniamo ora alla ricchezza finanziaria, quantificata  in 3897 miliardi di euro, tentando di comprendere in che modo potrebbe  essere interessata da un’eventuale imposizione patrimoniale.
Figura  3:  La tabella riporta i dati relativi alla ricchezza finanziaria delle  famiglie italiane nell’anno 2014. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati  Banca d’Italia
Per il ragionamento sopra esposto, quindi,  escludendo le componenti sopra descritte,  la ricchezza che rimarrebbe  rilevante ai fini di un imposizione patrimoniale, per lo più in forma  liquida, sarebbe poco più di 2000 miliardi come è possibile desumere  dalla figura n. 4.
Figura  4: La tabella riporta i dati relativi alla ricchezza finanziaria delle  famiglie italiane nell’anno 2014, a parere dell’autore “facilmente”  tassabile con imposte patrimoniali straordinarie. Elaborazione di Paolo  Cardenà su dati Banca d’Italia.
A rigor di logica, da questo stock  di  ricchezza finanziaria così determinata, dovrebbero essere  scomputate le passività che ammontano a circa 912 miliardi di euro,  restituendo un imponibile tassabile di circa 1100 miliardi  di euro.  Riducendo la base imponibile da colpire, il pericolo è proprio quello  che l’azione dello Stato, a parità di gettito atteso, possa concentrarsi  su patrimoni molto più piccoli e quindi colpire in maniera  indiscriminata anche una platea diffusa di piccoli risparmiatori. Infatti, tenuto conto che i depositi bancari e postali si avvicinano,  già di loro, alla soglia dei 1000 miliardi, ciò significa che questi  sono distribuiti su tutto l’universo dei risparmiatori italiani, piccoli  compresi. Giova ricordare che  in Italia  vige  un sistema di garanzia  dei depositi di conto  corrente fino a 100 mila euro, che dovrebbe  quantomeno escludere  prelievi straordinari fino a tali somme, riducendo  ulteriormente la base imponibile da colpire. Ma su questo,  personalmente, nutro qualche dubbio e comunque, dipende dagli obbiettivi  di gettito prefissati dallo stato, e soprattutto  dallo stato di bisogno.
In  altre parole, proprio perché sono risorse investiste in attività  finanziarie, in un certo qual modo, sfuggono dalla disponibilità del  titolare e quindi anche dalla possibilità di spesa, seppur con le dovute  eccezioni del caso. Il risparmiatore, nel sostenimento delle proprie  spese, difficilmente intaccherà le risorse investite in strumenti  finanziari anche se, in questa crisi,  ciò potrebbe essere parzialmente  smentito, poiché sempre più frequente sembra essere il ricorso  all’utilizzo di risparmi per integrare o sostituire un reddito che si è  contratto o è venuto meno per effetto della crisi. Quindi, in teoria,   il governo potrebbe intervenire per inasprire l’imposizione sulla  ricchezza finanziaria, senza con ciò determinare, in maniera  proporzionale,  una diretta diminuzione dei consumi.
Ma anche una  simile impostazione potrebbe risultare del tutto discriminante per  talune categorie di investimenti o di cespiti, che potrebbero essere  oggetto di imposizione. Si pensi, ad esempio, a due risparmiatori che  dispongono entrambi di un patrimonio di 500.000 euro e che uno di questi  abbia investito i propri risparmi in fondi comuni o titoli, mentre il  secondo acquistando un immobile. Ebbene, nel primo caso, operare un  prelievo a fronte dell’entità del patrimonio, risulterebbe di agevole  portata poiché basterebbe aumentare l’aliquota di imposizione e  la  società di gestione del fondo comune o l’intermediario finanziario  provvederebbe immediatamente ad operare la ritenuta, anche vendendo  titoli per crearsi la liquidità necessaria al pagamento dell’imposta.  Analogo ragionamento potrebbe essere svolto nel caso di azioni o  obbligazioni in custodia su un dossier titoli intrattenuto presso  qualsiasi banca. La quale banca, in questo caso, addebiterebbe l’importo  dell’imposta sul conto corrente agganciato.
E nel caso non  si  dovesse disporre della liquidità necessaria al pagamento dell’imposta,  che si fa? In estrema ratio, si potrebbe comunque vendere dei  piccoli  quantitativi di titoli ed integrare il saldo del conto corrente, in modo  da poter consentire alla banca di operare il prelievo necessario al  pagamento dell’imposta. Una soluzione simile a quella appena descritta,  potrebbe comunque avere delle controindicazioni soprattutto nel caso in  cui dovessero essere introdotte delle patrimoniali straordinarie o una  tantum; ma di questo parleremo a breve.
Come dicevamo, il discorso  si complica, e non poco, nel caso di immobili. Il risparmiatore che ha  investito le sue disponibilità, magari  prosciugandole,  nell’acquisto  di un immobile avvenuto in tempi più favorevoli, oggi potrebbe trovarsi  nella condizione di non poter provvedere al pagamento dell’imposta  patrimoniale, magari aumentata rispetto alle aliquote attuali. In questo  caso, il contribuente in esame, non potrà certamente vendere una  frazione dell’immobile  per poter provvedere all’obbligazione  tributaria. E ciò per evidenti ragioni. E in questo caso, cosa si  potrebbe fare?  
A questo interrogativo, al momento, non è stata fornita  alcuna risposta a mio avviso praticabile. A meno che non si facciano  suonare le trombe della cavalleria e, attraverso l’ente di riscossione  (Equitalia), si aggredisca il patrimonio del contribuente. Ma questo, a  parer di chi scrive, cozzerebbe con gli elementi cardine di uno stato  democratico e di una economia avanzata: ossia la tutela del risparmio e  della proprietà privata, peraltro prevista costituzionalmente.
Inoltre, l’immobile  acquistato potrebbe essere assistito da ipoteca a fronte del mutuo  contratto per l’acquisto; quindi una passività. E’ evidente che, dal  punto di vista del contribuente, è del tutto legittimo considerare a  scomputo del valore del cespite da colpire con imposta anche le  passività finanziaria a fronte dell’acquisto, e quindi l’eventuale  mutuo. Aspetto, questo, che avrà comunque una marcata rilevanza in caso  di applicazione di imposte  a carattere straordinario, poiché, queste,  verosimilmente, oltre ad impattare in modo più significativo,  sconterebbero aliquote progressivamente più alte in ragione del  patrimonio posseduto. 
Quindi, nel rispetto di  elementari ed intuibili  principi di equità,  sarebbe discriminante colpire in maniera identica  due patrimoni, nel caso in cui  uno di questi risulti assistito da un  mutuo (quindi una passività), ancorché esprimano identici valori  patrimoniali.  In buona sostanza, se così fosse, verrebbe confermata  l’attuale impostazione dell’IMU che, come noto, colpisce il “valore”  degli immobili a prescindere dall’eventuale passività (mutuo) in capo  all’immobile stesso, rendendo l’imposta profondamente iniqua.
Senza  dimenticare, poi, che un ulteriore inasprimento dell’imposizione  tributaria sugli immobili, causerebbe  nefaste conseguenze anche sul  valore, deprimendolo ulteriormente. Circostanza, questa, che non  esaurirebbe i suoi effetti solo in capo al proprietario dell’immobile,  che, a quel punto, si vedrebbe diminuire il valore dell’immobile; ma  produrrebbe effetti pericolosi anche nel mondo bancario attraverso la  diminuzione dei valori posti a garanzia di eventuali mutui, con  conseguenze del tutto immaginabili.
Come abbiamo visto sin qui, un  inasprimento della imposizione patrimoniale presenta numerose  difficoltà applicative,  soprattutto se si dovesse agire nel rispetto  dei principi di equità che dovrebbero essere comunque garantiti ed  imprescindibili.
Alle imposte patrimoniali presenti nel nostro  ordinamento,  sebbene abbiano carattere strutturale e quindi ripetute  negli anni,  tutto sommato, appartiene la caratteristica della  sostenibilità in termini di possibilità da parte del contribuente di  poter adempiere all’obbligazione tributari; benché in un contesto di  deterioramento delle capacità reddituali e di evidenti difficoltà,  soprattutto in alcuni strati della popolazione. L’applicazione di una  imposta patrimoniale straordinaria, troppo spesso impropriamente evocata  da parte dei nostri politici, verosimilmente,  viene pensata  sulla  base di un feroce inasprimento delle aliquote impositive, tale da  poter  utilizzare il gettito straordinario per abbattere in modo proporzionale  il debito pubblico di  qualche centinaio di miliardi. Senza addentrarci  nei numeri che, a parer di chi scrive, smentiscono (almeno in via di  principio) le aspettative di gettito auspicato dai vari politici che  evocano l’introduzione di una patrimoniale straordinaria, vediamo come  possono complicarsi le cose nel caso che questa imposta venga  effettivamente introdotta. Andiamo con ordine.
E’ evidente che  l’eventuale applicazione di una imposta patrimoniale feroce e magari  progressiva, dovrebbe quantomeno  considerare non solo i patrimoni  facilmente colpibili come nel caso delle imposte già in vigore, ma  l’intera  ricchezza  del soggetto o del nucleo famigliare a cui  l’imposta è rivolta. E ciò per evidenti ragioni di equità impositiva,  secondo cui chi  più possiede più paga in termini di imposta.   E  quindi, cosa comprendere? Cosa potrebbe essere considerato nella  definizione di patrimonio?
Sicuramente gli immobili, anche perché  offrono un’ ottima base imponibile che, tuttavia,  dovrebbe quantomeno  essere abbattuta delle passività (mutui) . Certamente anche il  patrimonio mobiliare (azioni, titoli, obbligazioni, depositi ecc ecc).  Ma, oltre questa ricchezza, peraltro già ampiamente tassata, cos’altro  potrebbe essere considerato nella definizione di patrimonio del  contribuente? 
E qui, potremmo sbizzarrirci con tutto ciò che possa  costituire  asset suscettibile di valutazione economica, purché visibile  ed individuabile dal fisco. Ecco quindi che potremmo considerare il  valore della partecipazione ad una società ancorché non quotata, il  valore della nostra impresa, o una barca, un’automobile, e quant’altro  possa essere individuato e  definibile nella sua dimensione  patrimoniale.
Sicuramente, l’estensione delle tipologie di assets a  cui applicare l’imposta patrimoniale, oltre ad offrire una base  imponibile tanto più ampia quanto più estese saranno  le specie e i  volumi di patrimonio considerati, tenderebbe a favorire  il rispetto di  elementi di maggior equità. Tuttavia,  qui emergerebbero fin da subito  le prime difficoltà applicative. Innanzitutto, non sempre ciò che  costituisce un valore patrimoniale è ben identificabile ed individuabile  da parte del fisco. Si pensi, solo per citare alcuni esempi, a  dei  quadri di valore, a delle  opere d’arte,  a vasi antichi, o una  collezione di arazzi. Questi, in genere, sono beni che talvolta possono  rappresentare dei grandi valori, ma difficilmente intercettabili da  parte del fisco, poiché raramente censiti e quindi conosciuti  all’anagrafe tributaria  nella dimensione patrimoniale (valore) e nella  sua collocazione. Ma questi, non sono gli unici valori patrimoniali che  potrebbero sfuggire all’interesse del fisco. 
Si pensi, ancora, al denaro  contante, a monetati aurei,  a lingotti in oro o altri metalli  preziosi, detenuti anche fuori dal perimetro bancario. 
Ecco quindi che,  in questi casi, risulta impossibile che il fisco possa colpire beni di  cui non ne conosce il valore e soprattutto la collocazione. A meno che  lo stato non obblighi il contribuente a produrre una dichiarazione  patrimoniale dalla quale emerga anche le ricchezze non note al fisco.
Ragionando  invece su altre tipologie di patrimoni  quali, ad esempio, aziende,   quote di partecipazione in società, o più semplicemente una piccola  impresa individuale, si porrebbe il problema di attribuire un valore a  queste attività, che tenga conto di moltissime variabili e fattori,  attraverso i quali, tuttavia,   non sempre si riesce a valorizzare in  maniera pertinente l’esatto valore di questi patrimoni. E ciò, neanche  attraverso apposite perizie effettuate da professionisti. Il rischio,  quindi, è proprio quello di subire una valorizzazione amministrativa da  parte dello Stato attraverso delle procedure  che, in maniera più o meno  arbitraria, possano valorizzare determinati attivi. Ecco quindi che  l’applicazione di imposte patrimoniali straordinarie incorpora  molteplici difficoltà che tendono ad aumentare anche in ragione al  gettito che si vorrebbe ottenere.
Alcuni esponenti politici, nel  recente passato, hanno addirittura evocato una tassa patrimoniale di 400  miliardi di euro, destinata alla riduzione del debito pubblico ( Si  confronti, ad esempio, LInkiesta del 24 febbraio 2014  
linkiesta.it).  
Per comprendere se è possibile estrarre un gettito così rilevante dalla  ricchezza degli italiani,  è opportuno considerare qualche numero  fornito dalla Banca d’Italia, nel suo ultimo rapporto sulla ricchezza  delle famiglie italiane.
Secondo la Banca d’Italia la ricchezza degli italiani è così costituita:
Attività reali 5.848 miliardi
Attività finanziarie 3.793  miliardi
Passività 912 miliardi.
Le  prime  due macro classi di attività, dedotte dalle passività,  costituiscono la ricchezza netta degli italiani, che  quindi viene   quantificata in euro 8.477 miliardi di euro.
Il dato, essendo  multiplo di oltre quattro volte lo stock di debito pubblico, fa un po’  impressione e suscita l’interesse di chi vorrebbe che, almeno parte di  questa enorme ricchezza, possa essere utilizzata per abbattere il debito  pubblico confinandolo entro volumi di maggio sostenibilità.
Più  in dettaglio, osservando i dati riportati nella figura n. 2 (Le attività  reali delle famiglie italiane) si desume che la parte prevalente della  ricchezza è costituita da abitazioni, già ampiamente tassata con l’IMU o  con altre imposte minori (ma non marginali). Gli oggetti di valore,  essendo per lo più costituiti da beni non registrati (preziosi, oggetti  di antiquariato, d’arte e da collezione), come abbiamo detto,  sfuggono  dalla possibilità di poter essere tassati, per il semplice fatto che il  fisco non potrà mai tassare ciò di cui non ne conosce la collocazione e  quindi la proprietà.
I fabbricati non residenziali e i terreni,  sono anch’essi già tassati. Mentre gli impianti e i macchinari,  attrezzature e avviamenti (capitale fisso), rientrando prevalentemente  nelle disponibilità delle imprese per l’esercizio delle proprie  attività, non potrebbero essere tassati, poiché ciò graverebbe sulle  imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile.  Quindi, la parte di ricchezza effettivamente tassabile e che desta  l’attenzione da parte del fisco è costituita dai 5 miliardi delle  abitazioni, peraltro già ampiamente tassata. In sintesi, da questa  ricchezza, è pressoché impossibile estrarre rilevanti gettiti tributari  rispetto a quelli già ottenuti dalla tassazione in vigore.
In  questa categoria di ricchezza sono ospitate un numero di  attività che,  l’analisi prodotta da Bankitalia, sostanzialmente, scompone come  riportato nella figura n. 3.
Molta materia imponibile da colpire  con un’imposta patrimoniale feroce,  si direbbe! Ma le cose non stanno  esattamente in in questi termini. Vediamo perché.
Prima di tutto  occorre scomputare il denaro contante: tassare il contante, fino a  quando questo rimane tale, è un esercizio impossibile da praticare. 
Non  deve sorprendere, infatti, che sempre più spesso si sente dire che il  mondo politico sarebbe favorevole ad una progressiva abolizione del  denaro contante. Ciò perché, per obbligo normativo, questo verrebbe  depositato in banca e quindi diverrebbe individuabile da parte del  fisco, facendo emergere materia imponibile da colpire.
Esistono  inoltre altre categorie di attività che, sebbene parzialmente note al  fisco, tassarle con un’imposizione patrimoniale, risulterebbe abbastanza  difficile e soprattutto rischierebbe di fare più danni che altro. E’ il  caso, ad esempio, dei crediti commerciali. Tassare un credito vantato  da un’azienda, benché tecnicamente possibile -obbligando ogni impresa a  rendere noti al fisco i rispettivi crediti commerciali attraverso  apposita comunicazione-  appare poco ortodosso, oltreché distruttivo. E  poi, è evidente che al credito di un’azienda, corrisponda un debito di  un’altra azienda. Siccome sarebbe ragionevole attendersi che il credito  possa essere scomputato dal debito, alla fine, la base imponibile   sarebbe comunque limitata e un’eventuale imposizione patrimoniale,  anche in questo caso,  graverebbe sulle imprese che già scontano livelli  di prelievo fiscale insostenibile.
Discorso del tutto simile può  essere osservato per le riserve assicurative. Anche queste potrebbero  essere tassate, ma non senza difficoltà, contraddizioni, e non senza  arrecare più danni che guadagni. L’applicazione di una imposta  patrimoniale feroce, verosimilmente, andrebbe a colpire anche i fondi  pensione e i fondi assicurativi, verso i quali un numero non del tutto  indifferente di risparmiatori  hanno riposto le speranze per  ottenere  l’integrazione pensionistica, al fine di  integrare (o sostituire) la  pensione erogata  dai vari enti previdenziali.  
Sotto questo punto di  vista, le scelte del governo volte all’applicazione di una imposta  patrimoniale straordinaria, contrasterebbero con le politiche di welfare  e con le varie riforme pensionistiche varate negli ultimi 10/15 anni, o  forse più. Al riguardo, vale la pena ricordare che tali politiche hanno  impresso uno stimolo allo sviluppo di forme pensionistiche alternative,  capaci di integrare i flussi  finanziari del risparmiatore in età  pensionabile, al fine di arginare la progressiva diminuzione delle  prestazioni garantite dai veri enti pensionistici. Non un problema da  poco, direi
Anche la ricchezza riconducibile alle partecipazioni  in società di capitali non quotate (circa 562 miliardi di euro) o alle  partecipazioni in società di persone o quasi società (circa 211 miliardi  di euro) è di difficile imposizione poiché, essendo questa  una  ricchezza riconducibile essenzialmente a partecipazioni in piccole  società che non hanno una valutazione di mercato giornaliera (come  invece avviene per le società quotate), oltre ad essere del tutto  astratta, occorrerebbe definire un criterio attendibile di valutazione  della partecipazione. Benché sia possibile effettuarlo per via  amministrativa, il rischio è proprio quello di subire una valorizzazione  arbitraria da parte dello Stato attraverso delle procedure  che possano  valorizzare determinati asset non in maniera pertinente. In sostanza, è  un po’ come oggi avviene con  gli studi di settore per la  quantificazione dei  redditi di impresa. 
E   anche in questo  caso l’esperienza ci  conferma quanto possano risultare arbitrarie e non  pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel caso di imposte  patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che queste  comporterebbero anche un’ulteriore abbattimento della competitività  della imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione  di redditività patita  con l’imposta applicata, attraverso un aumento di  prezzi che le renderebbero ancor meno competitive,   aggravando una  situazione già critica.
Figura 4: La tabella riporta i dati  relativi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane nell’anno  2014, a parere dell’autore “facilmente” tassabile con imposte  patrimoniali straordinarie. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca  d’Italia.
Gli investimenti finanziari (ossia in titoli di stato,   fondi comuni, azioni ecc) per loro natura, si prestano  ad essere  colpiti con maggiore attitudine rispetto ad altre tipologie di asset. Ma  anche in questo caso, l’applicazione di una imposta patrimoniale  straordinaria fortemente invasiva in termini di prelievo fiscale,  rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad esempio,  ad un pacchetto di azioni  detenute da un risparmiatore, supponiamo per  100.000 euro,  e che vengano colpite da un imposta straordinaria di  qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore non  dovesse disporre di liquidità sufficiente  per provvedere al pagamento  dell’imposta, egli sarebbe costretto a liquidare  parte del proprio  investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere al  pagamento dell’imposizione tributaria. Questo,  se effettuato su scala  rilevante, determinerebbe pericolose distorsioni di mercato. 
Si pensi,  ad esempio, alla caduta dei prezzi che si potrebbero determinare su un  titolo: il risparmiatore ne risulterebbe doppiamente penalizzato poiché,  oltre a subire una diminuzione del patrimonio per effetto  dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento  del proprio  portafoglio titoli per effetto delle vendite sui titoli.  Questo appare   tanto più vero nel nostro mercato finanziario, il quale, essendo di  modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla possibilità di  variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui. Inoltre,  ciò rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri (quindi esenti  da imposta), che in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti  azionari  a buon mercato per effetto della depressione dei prezzi  causata da una patrimoniale feroce. Evidentemente. le conseguenze  nefaste non si esaurirebbero con le casistiche appena descritte, ma  andrebbe ben oltre.
Discorso analogo potrebbe essere effettuato  per le obbligazioni societarie (soprattutto bancarie) e i titoli di  stato. Ma, in quest’ultimo caso, occorre effettuare qualche ulteriore  ragionamento in virtù del fatto che, il titolo di stato, essendo un  debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio attraverso  l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe essere  tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante  dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di  Stato nel portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo  caso, laddove  non si dispongano di risorse necessarie per poter  corrispondere l’imposizione tributaria, lo  Stato potrebbe effettuare  una compensazione tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il  proprio debito (titolo di stato), diminuendone o azzerandone gli   interessi previsti o, nei casi più “estremi”, decurtandone il capitale  alla scadenza del titolo. In buona sostanza, un default mascherato da  una patrimoniale.
Concludendo, le classi di attività che si  prestano ad essere colpite con maggior attitudine, anche con imposizioni  feroci,  sono proprio quelle liquide (ad esempio depositi bancari, di  conto corrente, o postali), poiché aggredire tali patrimoni costituisce,  per lo stato, garanzia della celerità e del buon esito  della pretesa  tributaria. In tal senso, anche quelle attività in cui lo stato risulta  essere debitore (titoli di stato) si prestano con particolare attitudine  a soddisfare le proprie esigenze, in quanto, lo stato, potrebbe  agevolmente compensare la sua posizione debitoria  con il credito emerso  per effetto dell’imposizione fiscale.
Analogo discorso può essere  osservato per le obbligazioni bancarie, le quali, come noto anche per  via della recente introduzione della normativa sui salvataggi  bancari, potrebbero essere sottoposte all’azzeramento (o alla riduzione)  al fine di obbligare  il risparmiatore a contribuire al salvataggio di  qualche banca che potrebbe trovarsi in stato di difficoltà.
A mero  titolo informativo, giova segnalare la proposta di iniziativa popolare  avanzata dalla Cisl. La proposta avanzata dal sindacato prevede  l’introduzione di un’imposta patrimoniale  ordinaria sulla ricchezza  netta che cresca al crescere della ricchezza mobiliare e immobiliare  complessiva, con l’esenzione totale sugli imponibili delle famiglie fino  a 500.000 euro di ricchezza, con l’esclusione da tale computo della  prima casa. L’imposta andrebbe a colpire l’ammontare complessivo dei  valori mobiliari ed immobiliari con aliquote crescenti su diversi  scaglioni di valore, dai 500 mila euro in su (si veda Il Sole 24 Ore del  2 settembre 2015, 
ilsole24ore ).
Pensare  che con un’imposizione patrimoniale straordinaria possa ottenersi un  gettito di 400/500 miliardi di euro come quanto auspicato da  “autorevoli” commentatori, appare del tutto irrealistico, oltreché  destabilizzante per uno stato di diritto, ove la proprietà privata e la  tutela del risparmio è anche garantita costituzionalmente. Ma ciò non  toglie che questo patrimonio  possa essere comunque esposto al rischio  di qualche forma di imposizione patrimoniale o, peggio, confisca.
L’imposta  patrimoniale, oltre ad essere una tassa iniqua ed ingiusta per  definizione (poiché  andrebbe a colpire anche i patrimoni realizzati con  flussi di reddito già ampiamente tassati), comporterebbe il  concretizzarsi di un evento deprecabile che comprometterebbe in maniera  sostanziale anche la già precaria fiducia dei risparmiatori nei  confronti dello Stato. Tuttavia, i risparmiatori dovrebbero comunque  adottare quelle strategie più idonee (anche in relazione al proprio  status e alla composizione del proprio patrimonio) a limitare l’impatto  di un’eventuale inasprimento delle imposte esistenti o dall’introduzione  di qualche forma di imposizione patrimoniale straordinaria.