9 dicembre forconi: 07/15/18

domenica 15 luglio 2018

Pd e Forza Italia, un inutile weekend di fuffa

Doveva essere il week end delle opposizioni alla riscossa, con la nomina dei nuovi capi di Forza Italia e una robusta discussione sul segretario del Pd, e si immaginava che sarebbe stato anche il punto di ripartenza della destra e della sinistra dopo un ko che dura dal voto del 4 marzo. I risultati sono piuttosto deludenti, non solo sotto il profilo delle scelte alquanto timide in materia organizzativa – né in area FI né in area Pd c’è un appuntamento, una data, un evento a cui appendere la nuova fase, solo molta confusione – ma anche in termini di linea politica.
Sia la sinistra (e in specie quella renziana) sia la destra temono palesemente di entrare in conflitto con quello che dovrebbe essere il loro naturale competitor/avversario, Matteo Salvini. È lui che ha sottratto voti a entrambi, lui che ha preso le periferie al Pd e il ceto medio alla destra, eppure entrambi gli schieramenti politici preferiscono additare come nemico il Movimento Cinque Stelle, con motivazioni simmetriche e opposte: per Matteo Renzi i grillini «sono la vecchia destra», per il neo vice-presidente di FI Antonio Tajani «sono la nuova sinistra».
L’anomalia pentastellata, insomma, resta al momento il principale obiettivo polemico del vecchio bipolarismo, esattamente come in campagna elettorale, e si capisce da qui che entrambe le opposizioni tirano avanti per pura inerzia, con scarsa voglia (e forse scarso coraggio) di aggiornare la linea, e col pensiero inespresso di poter mandare indietro l’orologio della storia e tornare ai tempi in cui moderati e progressisti si contendevano l’elettorato senza terzi incomodi.

Entrambe le opposizioni tirano avanti per pura inerzia, con scarsa voglia (e forse scarso coraggio) di aggiornare la linea, e col pensiero inespresso di poter tornare ai tempi in cui moderati e progressisti si contendevano l’elettorato
Entrambi i vecchi poli puntano apertamente allo sgretolamento della maggioranza, a una rottura fra Salvini e Di Maio che chiuda l’esperimento gialloverde e riporti sui binari della “normalità” lo scenario politico italiano, magari recuperando in nome dell’emergenza nazionale la seducente idea della Grande Coalizione che consentirebbe ai perdenti delle Politiche di tornare in sella. Forse è pure un calcolo fondato. Ma in questa palude di attendismo e scarsa iniziativa, le energie di tutti e due – Forza Italia e Pd – rischiano di consumarsi ulteriormente e il test ormai alle porte delle Europee potrebbe rivelarsi un evento tombale.

Per la sinistra la situazione è ovviamente peggiore, perchè la sconfitta nazionale si accompagna a una debacle sui territori (dove invece Forza Italia tiene) che potrebbe allargarsi ancora. Nel 2019 si voterà in Emilia Romagna, Piemonte, Sardegna, Abruzzo e Calabriae il rinvio di sei mesi del congresso democratico – mesi che si consumeranno intorno all’interrogativo: Renzi si ricandida? – sembra oggettivamente «un errore fatale», come lo ha definito Roberto Giachetti, e non in senso metaforico: qualcosa che può uccidere.

Le elezioni amministrative sono state la tomba di tutti i grandi partiti italiani. La Dc di Mino Martinazzoli si sciolse dopo la terrificante tornata delle Comunali del 1993. La stessa tornata – sulla carta del tutto secondaria – provocò il collasso definitivo del Psi di Ottaviano Del Turco. Insomma, i precedenti non sono consolatori.

Non si vede all’orizzonte una politica alternativa a quella del governo gialloverde, né in materia economica, né sul tema caldo delle migrazioni, né sui rapporti conflittuali col resto dell’Europa che ormai sono pane quotidiano

E tuttavia dallo choc del 4 marzo sembra che nessuno si sia ancora ripreso, e che l’ambizione di tornare a far politica resti secondaria rispetto alle questioni interne, al riassetto delle gerarchie, alla difesa del fortino che le classi dirigenti si sono con tanta fatica costruite.

Non si vede all’orizzonte una politica alternativa a quella del governo gialloverdené in materia economica, né sul tema caldo delle migrazioni, né sui rapporti conflittuali col resto dell’Europa che ormai sono pane quotidiano.

E siccome questo governo – come le dichiarazioni contrapposte di Tajani e Renzi chiariscono bene – riassume in sé molto della destra e molto della sinistra, c’è pure il caso che l’Italia veda quel che non ha mai visto: una maggioranza che porta all’interno del suo recinto, con la forza di una calamita, le ragioni e i torti dei riformisti e dei conservatori, dei liberal e dei moderati, degli identitari e dei cosmopoliti, dell’impresa e dei raider, del Nord e del Sud, lasciando fuori dal suo steccato solo limatura.

9 Luglio 2018

Guerra commerciale: gli USA stanno finendo i prodotti cinesi da tassare

A inizio settimana un documento ufficiale elencava 195 pagine di prodotti cinesi tassati al 10%, per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari. Ma la merce di Pechino a cui imporre dazi sta finendo
Gli Stati Uniti potrebbero presto finire le merci cinesi da tassare se la guerra commerciale dovesse andare avanti con questo ritmo.
Martedì l’amministrazione Trump ha pubblicato un elenco di 195 pagine di esportazioni cinesi del valore di 200 miliardi di dollari a cui è stata imposta una tariffa del 10%. La mossa ha fatto seguito ai dazi fissati da Pechino la scorsa settimana, per un valore complessivo di 34 miliardi di dollari (che a loro volta rispondevano a tasse pari alla stessa cifra stabilite precedentemente dagli USA).
Altre imposte da Washington arriveranno presto, per un valore di 16 miliardi di dollari che andranno a gravare sui prodotti del Dragone, portando la somma totale dei dazi vicina ai 250 miliardi di dollari. Ma Trump ha minacciato di superare di molto quella cifra, arrivando probabilmente a toccare i 550 miliardi di dollari.
Un numero che supera il valore totale dei beni cinesi importati dagli Stati Uniti l’anno scorso, pari a 506 miliardi di dollari. Diversi segnali indicano che i funzionari statunitensi stanno già lavorando alla compilazione di nuovi elenchi di prodotti da bersagliare.
L’elenco stilato martedì dall’amministrazione Trump include la trota viva, che non viene importata dalla Cina da decenni, oltre a merci di cui è più difficile capire precisamente la funzione come “i peli di tasso”.
Ma include anche esportazioni più riconoscibili, come salsa di soia e riso. Sono solo alcune tra le migliaia di cose che potrebbero presto diventare molto più costose.

Quali sono i prodotti tassati finora?

Al momento la lista dei prodotti bersagliati è a dir poco infinita, e l’impressione è che con l’inasprirsi della battaglia a colpi di dazi le merci potrebbero presto esaurire.
Tra i cibi c’è soprattutto la frutta, e più in particolare mele, banane, noci di cocco, ananas, arance, pere e pesche. Poi avena, mais, riso semilavorato o macinato, riso marrone e basmati, amido di mais e patate, arachidi, mandorle, pistacchi, noci, castagne e soia.
Nella linea di fuoco dei dazi anche pesce, tra cui aragoste, gamberi e salmone, e carne, in prevalenza di maiale. 
Nel mirino di Trump poi verdure come cipolle, carote, cavolfiore e broccoli, e bevande tra cui spumante e vino.
Oltre ai cibi, beni familiari come frigoriferi, macchine da cucire e aspirapolvere; abbigliamenti, dalle cinture alle borse passando per impermeabili, bagagli e custodie per strumenti musicali, materiali tessili di diversa natura e componenti di veicoli come batterie, telai o rimorchi.
Fonte: qui

Altro che Italia fuori dall'euro, c'è un altro cigno nero in arrivo

Hanno fatto discutere le dichiarazioni di Savona sull'uscita dall'euro dell'Italia. 

Un cigno nero in arrivo c'è, ma ha a che fare con altro

«Oggi le posso dire che non ci sto pensando e il governo non sta lavorando a questo. Non possiamo immaginarlo nemmeno per un attimo... Il governo non vuole uscire dall'euro. Se poi gli altri cercheranno di cacciarci non lo so, ma questo non è la nostra volontà, ne metteremo gli altri nelle condizioni di farlo». Così, intervistato a La7, Luigi Di Maio, vice-premier e ministro del Lavoro, in risposta alle parole di martedì pomeriggio del ministro Paolo Savona in audizione congiunta. Insomma, non ci sarebbe nessun piano B per un'eventuale uscita o espulsione dell'Italia dall'euro. Male, dico io. Perché al netto della solita distorsione di fatti e parole che gran parte della stampa ha posto in essere relativamente ai concetti espressi dal ministro per i Rapporti con l'Ue, un piano B è sempre meglio averlo. Ciò che invece uno come il professor Savona dovrebbe sapere, dall'alto della sua esperienza in Bankitalia e accademica, è che certe cose le tieni per te. O, quantomeno, eviti di dirle pubblicamente a mercati aperti. Siamo all'A,B,C, tanto che non fosse stato per la performance degli energetici trainati dal mini-rally del petrolio (alimentato dai giochi sotterranei e dai tweets destabilizzanti di Donald Trump rispetto alla produzione Opec post-sanzioni all'Iran), i titolo bancari martedì avrebbero trascinato in negativo Piazza Affari. Ministro, capisco che certe minuzie e miserie umane nemmeno sfiorino una mente intellettualmente superiore come la sua, ma sa, stante la volontà di qualcuno di farla addirittura capo del Mef, certe scivolate paiono davvero fuori luogo. Una cosa però è vera: occorre prepararsi a tutto, soprattutto all'impensabile. 
Al netto della malafede di parte dei media, infatti, il professor Savona non ha detto nulla di che. Soprattutto perché ha furbescamente mascherato ogni suo concetto dietro la figura retorica del "cigno nero", ovvero l'evento imponderabile la cui magnitudo è tale da non consentire difese efficaci. Quindi, occorre almeno attrezzarsi per tamponare i danni e limitarli. Evocare il "cigno nero" equivale a vaticinare la possibilità, nell'arco della giornata, di incontrare per caso un amico: può accadere, abitando nella stessa città o paese, ma, in caso contrario, nessuno metterà in dubbio le tue doti da novello Nostradamus. Quindi, signori, ridimensioniamo la portata dell'accaduto, per favore. Come dicevo ieri, le cose gravi davvero sono state detto da Draghi e Visco, il professor Savona ha soltanto voluto intestarsi un pagherò politico per quando, in autunno, la crisi finanziaria si abbatterà sull'eurozona e lui potrà proferire, in favore di telecamere e microfoni, il mitico "ve lo avevo detto" come supremo atto di rivalsa verso il veto del Quirinale nei confronti della sua nomina a ministro dell'Economia. 
Pensateci, cos'ha detto di tanto eclatante il ministro-professore? Nulla, in realtà, solo che occorre prepararsi al "cigno nero": facile così, non vi pare? Ieri mattina ero ospite alla trasmissione Coffee Break su La7 (se vi interessa, potete vedere la registrazione) e, stante anche lo status penalizzante del collegamento da Milano, non sono riuscito a dire tutto ciò che volevo. Lo faccio qui, come succede da qualche annetto, d'altronde. Dunque, cosa può farci deragliare? Cosa può farci espellere dall'euro? 
A oggi e al netto dello sbilanciamento nel conto di Target2, nulla. Il problema è se reggerà l'eurozona in quanto tale. E sono i numeri a dirci che, al netto delle beghe sui migranti, qualche dubbio al riguardo sarebbe conveniente farselo venire. Partiamo dal vero e proprio canarino nella miniera, ovvero il debito junk. Cosa sia ormai lo sapete, ovvero il debito emesso sotto forma di obbligazioni da aziende il cui rating è ben lontano dall'investment grade, ma che, grazie alla compressione artificiale degli spread dovuta all'azione delle Banche centrali, hanno vissuto anni di gloria, potendosi finanziare allegramente e a costi ben minori rispetto a quelli del sistema bancario, il quale il premio di rischio lo vuole e tutto, se il tuo rating non depone a favore della solvibilità. Ma quando hai le Banche centrali a garanzia de facto di ciò che emetti (ciò che vorrebbero il ministro Savona e i suoi accoliti per il debito sovrano), tutto è più facile. Talmente facile che hanno utilizzato questa scappatoia di finanziamento davvero cani e porci, tanto da ritrovarci con qualcosa come 3,7 triliardi di dollari di controvalore in debito spazzatura sparsi sul mercato, tutte potenziali mine anti-uomo. 
E quasi un triliardo è riconducibile all'eurozona, visto che la Bce con il suo programma di acquisto di bond corporate ha facilitato il proliferare di aziende zombie sul mercato. Le quali, dal canto loro, hanno goduto anche del profilo di attrattività dei rendimenti che offrivano, poiché al netto della distorsione posta in essere dall'Eurotower, se hai rating non investment grade qualcosa in più devi offrirlo agli investitori, affinché acquistino il tuo debito. E con i tassi sottozero, la ricerca di rendimento è diventata legge soprattutto per i fondi d'investimento. Anche quelli pensionistici, per capirci. I quali si ritrovano ora con in pancia immondizia travestita da occasione dell'anno: peccato che fra poco la Bce smetterà di comprare qualsiasi cosa e quella cartaccia tornerà potenzialmente a essere tale, stante il rischio di ridenominazione dei prezzi. Il pericolo? Una catena di default aziendali. E non in Grecia o in Austria, ma anche in Germania, Francia, Italia e Spagna. 
La dimensione del fenomeno, poi, è globale e ha come epicentro, come al solito, gli Usa. E qui arriva il secondo potenziale "cigno nero", ovvero il fatto che i soldi rastrellati sul mercato da molte aziende attraverso emissioni a valanga sono servite a finanziare i buybacks azionari delle stesse, ovvero il riacquisto sul mercato di proprie azioni al fine di tenere alte le valutazioni, abbassare il flottante e garantire così lo stacco di cedole e il pagamento di dividendi e bonus. Bene, questi due grafici mettono in prospettiva la situazione attuale: JP Morgan stimava per l'anno in corso un controvalore di buybacks record di 842 miliardi di dollari, tanto da risultare questa attività finanziaria pressoché l'unico reale driver dei rialzi azionari degli indici, altro che Trumpnomics. Insomma, altra distorsione. 
 
C'è però un problema, ovvero che quella valutazione risulta già oggi per difetto, visto che dati appena pubblicati ci dicono che solo nel primo semestre di quest'anno il controvalore dei buybacks è stato di 680 miliardi di dollari, circa 160 miliardi in meno di ciò che si stimava per l'intero 2018, il cui computo annualizzato quindi oggi risulterebbe in prospettiva di 1,35 triliardi di dollari. Solo di riacquisto di proprie azioni da parte delle aziende! E quando, anche a causa del venir meno delle emissioni allegre che li finanziano a costi irrisori, i buybacks caleranno di volume e smetteranno di essere il motore che fa viaggiare gli indici, cosa accadrà a questi ultimi, stante lo status conclamato di bear market o correzione di praticamente tutte le Borse dei mercati emergenti (Cina in testa, con i suoi 6,7 triliardi di dollari di market cap) a causa dell'operato della Fed sui tassi e quindi sul dollaro? 
Ma in cima alla montagna dei "cigni neri" c'è quello che possiamo definire reale, la madre di tutti i rischi potenziali. Questo grafico ci dice tutto: il debito globale (pubblico/privato) ha appena toccato - il dato è di martedì - la sobria cifra di 247 triliardi di dollari, 8 triliardi in più dal 31 dicembre scorso e 30 triliardi in più rispetto alla fine del 2016. Tutto questo, "grazie" alle operazioni espansive delle Banche centrali e pressoché unicamente per far andare avanti il grande casinò finanziario, non certo per innescare reale crescita economica. E sapete chi ha conosciuto l'incremento maggiore negli ultimi 5 anni? Il debito corporate non finanziario, ovvero le stesse aziende che hanno emesso con il badile debito e con lo stesso strumento hanno ricomprato le loro azioni sul mercato, millantando bilanci e stati di salute straordinari: siamo passati da 58 triliardi del 2013 agli attuali 74 triliardi di dollari. 
 
È matematico, al netto di questi numeri, che una crisi finanziaria sia alle porte: è necessario, di fatto, perché se il mercato non si purga un po', esploderà in maniera disordinata. E sarà davvero l'anno zero. Il problema è capire quale criticità andrà fuori controllo per prima e, soprattutto, quale sarà l'epicentro dell'esplosione: per limitare i danni del fall-out, quest'ultima variabile è fondamentale.
E le allarmate parole dell'altro giorno di Mario Draghi rispetto alla necessità che l'Ue si doti subito di un paracadute per il sistema bancario dell'eurozona non fa ben sperare, così come l'ammissione del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, rispetto al fatto che oggi come oggi siamo più fragili di dieci anni fa. 
Le cifre che vi ho appena elencato lo confermano da sole, senza bisogno di molti altri commenti. Capite perché serve eccome un piano B? Ma anche che servirebbe serietà nel gestire l'intera vicenda e non sparate a sensazione e scenari meramente ideologici, tanto per combattere battaglie di retroguardia, fra elitarismo accademico e frustrato pressapochismo? Ma signori, parliamoci chiaro: quanti italiani sono consci di cosa sta per arrivare, di cosa realmente c'è sotto il pelo dell'acqua? 
E, cosa ancora più grave, quanti sono davvero interessati a saperlo e capirlo? La reazione all'acquisto di Cristiano Ronaldo appare un'ottima cartina di tornasole: panem et circenses pare bastare alla maggioranza dei nostri connazionali, occorre ammetterlo. E allora, non lamentiamoci della Troika o del Fmi. Ce lo saremo cercato, in parte. Per il resto, ringraziate le Banche centrali, le quali hanno trasformato una sacrosanta operazione di salvataggio emergenziale nel miglior strumento strutturale e sistemico che il sisma finanziario abbia mai conosciuto per fare soldi a palate a spese dei contribuenti globali. I quali, fra poco, dovranno pagare il conto un'altra volta, dopo il 2008. 
Il "cigno nero" è in arrivo. Ma l'uscita o l'espulsione dall'euro dell'Italia non c'entrano proprio nulla, è il sistema a essere marcio in sé. Il resto sono solo conseguenze. O facile propaganda.
Fonte: qui


La stretta creditizia prossima ventura ed il padulo nero

Se siete stanchi di leggere e sentire proclami senza senso lanciati da esponenti di un governo e di una maggioranza che minaccia quotidianamente di suicidare il paese davanti all’Europa, per dare una dimostrazione tangibile della propria forza negoziale, oggi vi segnalo un articolo “tecnico” ma in realtà non troppo, che fornisce la misura di quanto sia ancora lunga la traversata nel deserto per le banche italiane e di conseguenza per il nostro sistema economico, e di quanto costerà al paese lo scalone nello spread che ha salutato l’avvento del governo gialloverde.
Sul Sole, un’analisi di Luca Davi che prende le mosse dalle considerazioni della Banca d’Italia e del governatore Ignazio Visco, segnala che le banche italiane hanno un problema di costo della raccolta, cioè di quanto devono pagare per approvvigionarsi di fondi, che poi vengono ovviamente prestati a famiglie ed imprese.
La prima determinante del problema è l’aumento dei tassi d’interesse. Esso è frutto di due circostanze: la ripresa economica in atto in Eurozona, col conseguente avvio del ritiro delle misure straordinarie della Bce note come easing quantitativo; ed i movimenti dello spread, che riflettono il rischio di uno specifico emittente nazionale.
La seconda determinante è data dalle norme europee che stabiliscono quali e quante sono le passività bancarie che possono essere sacrificate per assorbire una risoluzione, cioè un bail-in. Si tratta del cosiddetto MREL (Minimum Requirement on Eligible Liabilities and Own Funds), di cui ho scritto un anno addietro (quindi non è esattamente un fulmine a ciel sereno, anche se qualche ripetente e fuoricorso di lungo corso dirà il contrario). Le banche dovranno emettere titoli “sacrificabili”; che, in quanto tali, costeranno di più in termini di tasso d’interesse per indurre gli investitori istituzionali ad acquistarli.
Secondo stime di Bankitalia, potrebbe essere necessario emettere titoli del genere per 30-60 miliardi. In parallelo a ciò, occorre sapere che stanno arrivando a scadenza i finanziamenti agevolati della Bce alle banche, i cosiddetti Tltro, e che entro il 2020 scadranno obbligazioni bancarie per 150 miliardi di euro. L’articolo segnala che alcune banche, per coniugare esigenze di raccolta e sicurezza degli strumenti offerti soprattutto al retail, hanno ripreso ad emettere i cosiddetti covered bond, obbligazioni ad elevato rating, garantite dagli attivi di una banca, in genere mutui ipotecari o crediti verso la Pa.
In Italia, questi strumenti hanno paletti normativi ben precisi, quali un total capital ratio di almeno il 9% e patrimonio e fondi propri per almeno 250 milioni, che rischiano di tagliar fuori le banche più piccole, ma c’è sempre la speranza che a ciò si rimedi per iniziativa in atto di Bankitalia.
Torniamo alle fonti di prossimo maggior costo della raccolta bancaria: riguardo al Mrel, lo scorso aprile Bankitalia, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, stimava un maggior costo della raccolta, ad esso legata, per 10-30 punti base. Come scrive oggi Davi sul Sole,
«Il rischio è che le banche reagiscano alla novità regolamentare o con una stretta alle attività ponderate per il rischio (Rwa) oppure con un rialzo dei costi dei prestiti»

In soldoni, il rischio è che si arrivi a restrizioni sul volume di credito erogato e/o ad aumento del suo costo. Da domani inizia la “conversazione” a tre (il cosiddetto trilogo) tra parlamento europeo, Commissione e Consiglio Ue, per definire la riforma della direttiva BRRD, quella del bail-in. E i termini della questione non sono, si badi bene, centrati sulla possibilità che la direttiva medesima venga cancellata, bensì sul quantum di fondi “sacrificabili” in caso di risoluzione di una banca:
Sul tavolo del trilogo Ue ci sono le proposte del Parlamento che, con una mossa non scontata, ha previsto che i titoli subordinati assorbibili non possano superare il 18% degli attivi ponderati per il rischio. Dall’altra, invece, c’è la proposta del Consiglio, a trazione franco-tedesca, che prevede un livello ben più alto, pari all’8% delle passività, pari al 20-25% degli Rwa. In questo quadro l’Italia, c’è da scommetterci, farà la sua battaglia, come si è visto già in occasione dell’astensione di fronte alla proposta Ecofin di maggio e della proposta formalizzata dal Parlamento. A prometterlo è lo stesso ministro Tria, che evidenzia che il pacchetto bancario varato dall’Ecofin di maggio ha «problematicità su cui l’Italia si misurerà». La partita, su questo, non è facile. Ma il guanto di sfida a Bruxelles, anche su questo fronte, è lanciato.
Quindi, prendete nota: il ministro Tria cercherà di ridurre il danno per le nostre banche; non andrà a pestare alcun pugno sul tavolo ma argomenterà con la competenza che gli è propria. Ma la cornice del bail-in resta. Si mettano quindi il cuore in pace, i nostri sovranisti con la stampante sempre accesa nel sottoscala: potete divertirvi vaneggiando di cigni neri e massimi sistemi, oppure fare sfoggio della vostra crassa e giovanile ignoranza da dropout di “successo” in un paese in bancarotta civile e culturale, oppure ancora potete escogitare “geniali” piani per estorcere (ma solo nella vostra disancorata mente) soldi al resto d’Europa ma la realtà sta sempre e comunque altrove.
Come se non bastasse questo oneroso vincolo di realtà chiamato Mrel, aggiungete l’aumento di circa un punto percentuale dello spread dall’insediamento del nostro governo sovranista che è il premio al rischio di tutte le cazzate che leggiamo ed ascoltiamo quotidianamente, e che è del tutto Made in Italy, e potrete forse afferrare perché rischiamo di avere un autunno (ma anche un inverno, una primavera, ed oltre) di stretta creditizia. Ma voi proseguite pure a cercare di difendervi dal cigno nero fatto in casa, mi raccomando. Alla fine, l’unico volatile che otterrete sarà un gigantesco padulo.

Fonte: qui

Banca Mondiale: tra 10 anni l’India sarà la terza potenza economica del mondo

banca mondiale
Secondo la Banca Mondiale, per la prima volta il Pil indiano ha superato quello della Francia e presto sarà tra i primi del pianeta. Ma il paese è solo 90esimo nella classifica dell’Indice di sviluppo umano
Mentre tutti seguono col fiato sospeso il duello politico-economico, per fortuna non militare, fra Stati Uniti e Cina a colpi di dumping e di dazi, a fari spenti avanza il terzo incomodo, di cui pochi sembrano curarsi: l’India di Narendra Modi, il primo ministro che è considerato l’equivalente asiatico dei sovranisti europei.
Ci informa la Banca Mondiale che il Prodotto interno lordo (Pil) dell’India nel 2017 ha per la prima volta nella storia superato quello della Francia: 2.597 miliardi di dollari contro 2.582.
L’India è così diventata la sesta potenza economica mondiale dietro a Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania e Regno Unito. Da ieri tre delle sei più grandi economie del mondo sono asiatiche (l’Italia è nona).
L’India naturalmente resta un paese povero e popoloso di 1 miliardo e 324 milioni di abitanti, nel quale il reddito medio annuale è di appena 7.055 dollari, mentre quello francese è di 42.779 dollari, poco più di quello italiano: 39.817 dollari.
Nel 2017 l’India è diventata anche il paese più popolato del mondo, avendo superato la Cina che registra 1 miliardo e 290 milioni di abitanti. Anche dopo aver rinunciato ufficialmente alla politica del figlio unico, difficilmente la Cina potrà ri-sorpassare a livello demografico l’India.
Potrà tenerle testa dal punto di vista della crescita economica, ma fra qualche anno, stando alle previsioni della Banca Mondiale, se la ritroverà sul podio dei Pil più grandi del mondo: già nel 2027, cioè fra appena nove anni, l’India diventerà la terza potenza economica del pianeta dietro agli Stati Uniti e alla Cina.
Il sorpasso di quest’ultima sugli Usa è previsto per il 2032. In quell’anno tre dei primi quattro posti della classifica mondiale del Pil saranno occupati da paesi asiatici: la Cina prima, l’India terza e il Giappone quarto.
L’Italia sarà scesa dal nono posto di oggi al tredicesimo. Quello che più colpisce è la rapidità con cui stanno avvenendo questi cambiamenti nelle gerarchie economiche mondiali: nel 2009, appena 9 anni fa, il Pil dell’India era 1.324 miliardi di dollari, cioè la metà di quello che è oggi.
Ancora nel 2004 il Pil della Cina era identico a quello dell’Italia, oggi è quasi sei volte più grande: 11.221 miliardi di dollari contro 1.939.
Solo nelle classifiche dell’Indice di sviluppo umano, che oltre al reddito comprendono il tasso di alfabetizzazione e la speranza di vita alla nascita, l’Italia è ancora molto avvantaggiata su Cina e India: la prima occupa il 90° posto della classifica dello Human Development Index e l’India il 131°, mentre l’Italia sta al 26° posto fra i paesi ad alto sviluppo umano. Fonte: Tempi

NELL’ELENCO DEI 1400 PARLAMENTARI A CUI VERRA’ SFORBICIATO IL VITALIZIO CI SONO MOLTI ULTRAOTTANTENNI, COME VALENTINO PERDONÀ, DI 103 ANNI: IL SUO ASSEGNO PASSA DA 4480 EURO AL MESE A 1250

L’88ENNE LUCIANA CASTELLINA SCIVOLA DA 3140 A 500 EURO CIRCA 

LA 94ENNE ROSSANA ROSSANDA, PUNTO DI RIFERIMENTO PER ALMENO DUE GENERAZIONI DELLA SINISTRA: PERDE IL 72,58 PER CENTO DELL'ASSEGNO PARI A 2.123 EURO NETTI

Stefano Zurlo per “il Giornale”

GIOVANARDIGIOVANARDI
Giù a precipizio. Tagli del 70, dell'80 per cento e pure di più. Ecco i vitalizi decapitati, come stabilito dall'ufficio di presidenza della Camera. Nell'elenco dei 1.400 parlamentari ghigliottinati c'è un' altra lista, quella degli ultraottantenni presi gentilmente a calci dai loro nipotini.

Sono 154 nomi, sottolineati da Carlo Giovanardi, a sua volta parlamentare di lungo corso, che ha squadernato numeri e sforbiciate sul sito dell'Occidentale. Centocinque ex hanno un' età compresa fra gli 80 e i 90, 48 viaggiano sopra l' asticella dei 90, uno, Valentino Perdonà, democristiano veronese di San Giovanni Lupatoto, il decano di questo non sacro collegio, ha la bellezza di 103 anni.

luciana castellinaLUCIANA CASTELLINA
Fico & compagni non hanno avuto alcun riguardo nemmeno per lui. Perdona - tre lauree in giurisprudenza, lettere, farmacia - è stato 20 anni in parlamento, 4 legislature, non proprio un passaggio veloce, ma l'anagrafe lo condanna a priori: è un figlio del sistema retributivo, andato in pensione a Montecitorio nel 2012, e dunque viene stangato. Il suo vitalizio netto passa da 4480 euro al mese a 1250 circa, con una decurtazione stratosferica del 72,30 per cento. «Nel suo caso come in altri - ironizza Giovanardi - i nuovi censori si sono inventati dei coefficienti di rivalutazione ridicoli e cosi l' hanno messo al tappeto».

parlato rossandaPARLATO ROSSANDA
Avanti, ce n'è per tutti i gusti: Luciana Castellina, volto storico della sinistra, 88 anni, viene falciata come un pedone sulle strisce. E passa da 3.140 euro a 500 circa, con uno strappo monstre dell' 84,06 per cento. Non va molto meglio a Rossana Rossanda, novantaquattrenne punto di riferimento per almeno due generazioni della gauche: perde il 72,58 per cento dell' assegno pari a 2.123 euro netti.

«Per fortuna un grande liberale come Benedetto Cottone è morto ormai centenario a metà giugno - riprende Giovanardi - e gli è stata risparmiata l' umiliazione che invece scatterà il 1 gennaio dell' anno prossimo per tutti gli altri». Cottone avrebbe dovuto rinunciare al 70 per cento del suo emolumento.

SCALFARISCALFARI





I tagli colpiscono a destra e a sinistra, senza ovviamente alcuna considerazione per il curriculum, l'impegno, i risultati ottenuti. Qualche personaggio è noto, come il novantaquattrenne Eugenio Scalfari, mitico fondatore di Repubblica, che perderà due terzi del suo non sontuoso vitalizio, riposizionandosi a spanne a quota 700 euro, ma molti sono illustri sconosciuti. E, a differenza di quel che pensa l'opinione pubblica, sono rimasti alle Camere per tanti anni. Non importa. La lenzuolata compilata da Giovanardi va da Peppino Aldrovandi, 91 anni, il cui assegno viene mutilato del 74,64 per cento, a Giuseppe Zurlo novantunenne pugliese di Ostuni, che invece contiene la riduzione al 62,31 per cento.

vincenzo scotti gianni lettaVINCENZO SCOTTI GIANNI LETTA
Ancora più fortunato, da questo punto di vista, è Vincenzo Scotti, democristiano intramontabile, sindaco di Napoli negli anni Ottanta e più volte ministro, oggi a capo della Link University: se la cava con un meno 20,20 per cento. Misteri dell' alchimia retributivo contributiva. Ma i risparmi più grossi arriveranno per altra via: Raffaele Farigu, socialista, due legislature nello zaino, si è spento il 27 giugno a 83 anni. E si depennato da solo dal novero degli «impresentabili». «Altri nomi - ammette Giovanardi - andrebbero controllati, fra possibili omonimie e errori. Vedremo, anche perché questa storia non finisce qui: prevedo una valanga di ricorsi». Ma questi sono dettagli, gli inevitabili incidenti che accompagnano le rivoluzioni.

Fonte: qui

Le migrazioni sono un fenomeno permanente

Il mondo non è oggettivamente peggiorato. 

La scienza e la tecnologia ci hanno reso le cose più facili e ci hanno allungato la vita e in parte, anche i suoi piaceri. Così è da noi, ma così NON è in tutto il mondo

Da noi però il tasso di litigiosità è andato alle stelle complice il web. Poter dire stronzate senza metterci la faccia è facile ed è un’arte antica (lanciare il sasso e nascondere la mano), peggio ancora sono le fake news e i “pareri” di fantomatici esperti con fantomatici titoli di benemerenza che, sempre sul web, si trovano e ci fortificano nelle nostre convinzioni, dalla medicina all’economia, ai viaggi interstellari. Dovremmo per la verità smettere di mitragliare di parole il prossimo e riprendere qualche libro di storia in mano, magari quelli che abbiamo letto (o anche no) distrattamente quando eravamo alla scuola dell’obbligo o anche soltanto guardare la carta geografica del mondo e chiederci: perchè tanta parte del mondo, non occidentale, ha dei confini tracciati con il righello, mentre invece i nostri europei sono tutti corrugati e contorti? 

La risposta è facile, perchè da noi i confini li ha fatti la storia di tutti i giorni, rispettando, magari con cento guerre, le tradizioni, la lingua e talvolta, anche il credo religioso. Nelle altre parti i confini “lineari” li abbiamo fatti sempre noi, ma con la logica della spartizione della torta, siamo andati là ed abbiamo detto: questo è mio, questo è tuo, senza curarci di chi abitava quelle terre, quali erano i confini tribali (che per loro erano nazionali) o religiosi. 
Abbiamo fatto lavorare quelle persone come schiavi, prima letteralmente e poi de facto e alla fine, quando la storia (meglio le nascenti superpotenze USA E URSS) ci ha sfrattato, abbiamo lasciato quei confini, e sono nate quelle repubbliche, che poi tanto indipendenti non erano, perchè gli interessi economici erano tanti e perchè i due nuovi “subentranti” non avevano voglia (per fortuna) di farsi la guerra direttamente e allora se la facevano per procura con rivoluzioni e colpi di stato e tutti campavano  felici e contenti. 

Esportavamo armi per tutti i contendenti, guadagnavamo un fiume di soldi e, se capitava, di “ospitare” un transfuga di quelle terre, non era un migrante sfigato, ma uno che pagava, riconoscente, molto bene (i diamanti di Bokassa a Giscard D’Estaigne, o i miliardi della vedova di Marcos nelle banche americane, tanto per guardare la punta dell’iceberg). 

Poi per una ventina d’anni non è successo niente, meglio sono successe un sacco di cose che i nostri giornali NON ci hanno raccontato. È successo ad esempio che la Cina si è impossessata di buona parte dell’Africa, ma noi vendevamo armi e ce ne disinteressavamo

Eravamo troppo occupati a decidere se Gheddafi era un terrorista o una persona da riverire per il suo petrolio e per il controllo delle sue coste. Poi dovevamo fare l’Europa, quella da burletta che in questi 20 anni siamo riusciti a mettere insieme

Le guerre, sempre per problemi di petrolio e di politica, si sono espanse e hanno creato altre instabilità. Quindi ora raccogliamo quello che abbiamo seminato: un fiume di gente che si è messa in moto

Guardando i vostri vecchi libri di storia, ci troverete che le invasioni barbariche erano dovute alla pressione di altri popoli sui barbari che, sfrattati, venivano a cercare pane e spazio nell’impero romano
Allora erano qualche decina di migliaia, ma allora la popolazione mondiale conosciuta non arrivava a 50 milioni. Oggi siamo 7 miliardi e quindi il fattore moltiplicativo spiega i milioni di profughi che ci sono. Da aggiungere che la nostra cara tecnologia permette di non viaggiare più a piedi, ma con mezzi dieci volte più veloci e allora ecco spiegato le masse impressionanti che premono ai nostri confini. Colpa di chi? Non mi interessa. 

Mi interessa invece capire cosa si può fare, quindi se continuiamo solo ad insultarci, non fermeremo niente. Se continueremo a vendere armi aumenteremo il flusso. Io ricette magiche non ne ho, tranne che con le chiacchiere si convincono solo i minchioni con la pancia piena. Quelli sono meno minchioni di quanto pensiamo e hanno la pancia vuota, i figli che gli muoiono fra le braccia e disperati pronti quasi a tutto. Il quasi è la nostra unica fortuna. Almeno per ora.

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SE QUESTI SONO ECONOMISTI


Risposta agli "otto economisti" che scrivono da Marte

Con una "lettera aperta" al Sole 24 Ore del 10 luglio, otto economisti chiedono al governo attuale, nonché a quelli futuri (!), un giuramento di fedeltà all'euro. Gli otto - L. Codogno, G. Galli, A. Macchiati, M. Maré, S. Micossi, P. Reichlin, G. Tabellini e V. Tanzi - si dicono mossi a «difesa del risparmio e del lavoro degli italiani».

Questo il passaggio centrale della loro lettera: «Al di là di ciò che si può pensare dell'Unione Europea e delle necessarie riforme dell'Eurozona, qualunque governo, di qualunque colore politico, ora e nel futuro, deve impegnarsi a difendere l'appartenenza dell'Italia all'unione monetaria, come condizione necessaria per tutelare il risparmio degli italiani (come impone l'art. 47 della Costituzione), l'attività delle imprese, il lavoro, il tenore di vita di tutti i cittadini e in particolare dei ceti più deboli».
Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Ai lettori del maggior quotidiano economico del Paese non viene offerto un ragionamento, un'analisi, una riflessione. Ad essi viene semplicemente proposto un dogma che non ammette deroghe.

Presi da un'irrefrenabile foga censoria, figlia di una cattiva digestione del voto del 4 marzo, essi affermano che occorre: «un'azione vigorosa per rimuovere quel germe di incertezza che è stato prodotto e convincere gli investitori internazionali e gli stessi risparmiatori italiani che la permanenza dell'Italia nell'euro non è in questione». Insomma, sul tema nessuna discussione dev'essere consentita. Dispiace per gli "otto", ma per completare la loro opera normalizzatrice essi, anziché puntare sul solito Savona, dovrebbero convincere anche gli economisti tedeschi (tra i quali il capo dell'Ifo Hans-Werner Sinn)  che chiedono al loro governo l'adozione di un piano proprio per gestire la possibile dissoluzione dell'Eurozona. Ma questa è evidentemente un'impresa un po' più complicata del farsi pubblicare dal Sole certe banalità.

E quale sarebbe lo scopo della rimozione del "germe di incertezza" che essi denunciano? Ovvio, ridurre lo spread. E bravi! Ottimo proposito, peccato vi dimentichiate di dire che lo spread è frutto anche dell'euro, dell'assenza di sovranità monetaria, perché con una Banca centrale come acquirente di ultima istanza tale problema sarebbe del tutto inesistente. Insomma, prima (con l'euro) ci si mette in gabbia, poi si vorrebbero mitigare le condizioni di quella prigionia (riducendo lo spread), ma senza voler abbattere le mura di quella prigione. Troppa grazia, sant'Antonio!

Ma dove gli estensori della lettera toccano davvero il fondo è quando elencano i nobili scopi del giuramento richiesto.
Secondo loro si tratterebbe di difendere il risparmio, peccato che proprio in nome dell'euro sia stata emessa la normativa sul bail in, che i risparmi li ha invece falcidiati. Peccato che, a causa della svalutazione interna prodotta dalle misure di austerità imposte dal sistema dell'euro, il principale bene delle famiglie italiane - la casa - sia stato svalutato di circa un 20%.

Dicono che il loro giuramento favorirebbe l'attività delle imprese. Peccato che oltre centomila aziende siano fallite proprio a causa delle politiche recessive imposte dall'UE. Di più, dicono che esso servirebbe a tutelare il lavoro e i redditi degli italiani, ma chi è che non sa che con l'euro la disoccupazione è andata ai massimi storici, mentre i salari sono calati mediamente di un 10%, ed i poveri assoluti solo saliti (dal 2007 al 2016) del 165%?

Insomma, va bene pensarla come si vuole, ma travisare così platealmente la realtà di certo non fa onore agli otto economisti. Gli italiani che mandano avanti la baracca possono avere tanti difetti, ma di sicuro hanno capito che con l'euro e l'UE le loro condizioni di vita sono peggiorate drasticamente. Anche per questo hanno mandato al governo la maggioranza gialloverde: per provare a cambiare il rapporto di sudditanza verso Bruxelles, Berlino e Francoforte. Non rendersene conto mostra un distacco così profondo dalle cose terrene da far pensare che certe lettere siano state scritte su Marte.

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Industria italiana: qual è la causa del declino?



Negli ultimi anni si sono formate due opinioni contrapposte sulle cause della decadenza economica e industriale italiana. Schematizzando drasticamente, una riconduce tali cause all’integrazione economica e valutaria europea (Uem), l’altra assolve quest’ultima, escludendo di conseguenza l’utilità di una uscita del nostro Paese dall’euro e dalla Ue. Secondo quest’ultima visione il declino italiano sarebbe imputabile esclusivamente alla mancanza di una politica industriale, collegata alla fragilità della struttura industriale italiana, caratterizzata da imprese nane, poco orientate all’export, scarsamente innovative e concentrate in settori produttivi maturi (agroalimentare, turismo, beni di lusso).

Il declino italiano, tempi e cifre

Il primo aspetto da chiarire è se e in quale misura il declino italiano, nel Pil e nella manifattura, si sia manifestato nel periodo precedente all’introduzione dell’euro nel 2002. La dinamica del Pil non denota una marcata tendenza al declino, almeno in confronto alla Germania e alla Ue, prima dell’euro (Fig.1). La crescita media annua dell’Italia tra 1995 e 2007 è analoga a quella della Germania (1,5% contro 1,6%), mentre è inferiore, ma non di molto, rispetto a quella della Ue tra 1995 e 2001 (1,7% contro 2,4%). La divergenza tra l’Italia, da una parte, e la Ue e soprattutto la Germania, dall’altra, inizia dopo l’introduzione dell’euro, accelera con lo scoppio della crisi nel 2007-2008, ma si approfondisce solamente a partire dal 2011. Ad ogni modo, tra 2007 e 2017, l’Italia decresce mediamente per anno dello 0,6%, mentre la Ue cresce dello 0,8% e la Germania dell’1,2%.

Fig. 1 – Andamento del Pil di Italia, Germania, e Ue (2010=100, dati a prezzi concatenati; 1995-2017)
Fig.1moro
Fonte: database Eurostat

La divergenza successiva al 2011 fu dovuta all’impossibilità, di fronte alla maggiore crisi dal dopo guerra, a manovrare sui tassi di cambio e sui tassi d’interesse, e all’imposizione di una rigidissima austerità da parte del governo di Mario Monti e di quelli successivi, in ottemperanza ai trattati europei ed in particolare al Fiscal compact. Inoltre, il regime di cambi fissi introdotto con l’euro ha favorito la Germania – che ha registrato una sottovalutazione del tasso reale di cambio nel 2014 tra il 5% e il 15%[i] –  spingendone le esportazioni. L’Italia, invece, ne è stata svantaggiata, e ha dovuto procedere a una drastica contrazione della sua base produttiva e occupazionale e alla riduzione del costo del lavoro per poter recuperare competitività nelle esportazioni. Sono state proprio la forte ristrutturazione e l’austerity, combinate insieme, a deprimere pesantemente il mercato interno, che a sua volta ha inciso sul crollo del Pil dopo il 2011.

Fig. 2 – Performance relativa di industria e manifattura italiana su quella tedesca (valore aggiunto a prezzi costanti italiano in% quello tedesco)
Fig.2
Fonte: database Unctad

Tuttavia, se osserviamo la performance relativa della manifattura italiana nei confronti di quella tedesca, l’impatto negativo dei cambi fissi, sebbene sia stato più marcato dopo la crisi, appare evidente anche in precedenza (Fig.2). L’incidenza del valore aggiunto italiano su quello tedesco cresce quasi ininterrottamente dal 1970 (31%) fino al 1997 (57,5%), anno in cui il cambio della lira verso il marco viene portato ai livelli che saranno fissati con l’euro. Dopo il 1997 inizia il declino, che porta l’incidenza della manifattura italiana su quella tedesca a livelli non molto superiori a quelli del 1970 (38,3%). Quanto abbiano pesato i cambi fissi sui livelli di produzione della manifattura è evidente dal confronto con l’industria, che cresce fino al 2005, subendo un vero e proprio crollo solo a partire dal 2010. Infatti, nell’industria hanno un peso importante le costruzioni, che non hanno risentito dell’introduzione dei cambi fissi, perché, a differenza della manifattura, non sono rivolte all’export. Le costruzioni, invece, hanno risentito del crollo del mercato interno, dovuto soprattutto alla brusca riduzione degli investimenti pubblici, imposti dalla Ue. Infatti, si può osservare come la curva dell’industria declini bruscamente a partire dal 2010-2011.

Fig. 3 – Andamento degli investimenti fissi lordi Italia, Germania e Ue (2010=100; dati a prezzi concatenati; 1995-2017)
fig.3
Fonte: database Eurostat

L’impatto combinato sull’Italia della ristrutturazione del sistema produttivo e del venire meno dello stimolo della spesa pubblica risulta evidente anche nel divario, creatosi dopo il 2010, tra gli investimenti fissi di Germania e Ue, da una parte, e dell’Italia, dall’altra parte, che è ancora più marcato di quello osservabile nel Pil (Fig. 3).

Fig. 4 – Andamento della spesa pubblica di Italia, Germania e Ue (2010=100, valori nominali, 1995-2016)
fig.4
Fonte: database Eurostat

Del resto, la spesa pubblica italiana risulta congelata durante tutto il periodo successivo allo scoppio della crisi (Fig. 4). La crescita media annua della spesa pubblica italiana passa dal 4,1% del periodo 1995-2007 all’1,1% del periodo 2007-2017. Ciò significa che, considerando l’inflazione, la spesa rimane in termini reali quantomeno ferma ai livelli pre-crisi. Viceversa la crescita della spesa pubblica tedesca aumenta dal -0,1% al 2,9%, mentre quella francese rallenta ma in modo molto più ridotto dell’Italia, dal 3,6% al 2,4%[ii].
L’euro – cioè i cambi fissi e l’alienazione alla Bce dell’emissione di liquidità e della determinazione dei tassi di interesse – nonché i vincoli imposti al bilancio pubblico dai trattati europei rendono rigida una economia e incapace della necessaria flessibilità in caso di shock esterni, come è avvenuto proprio dopo il 2007-2011 nell’area euro in occasione di una crisi globale. Tale rigidità strutturale si manifesta inevitabilmente proprio in concomitanza con lo scoppio di crisi strutturali, portando alla deflazione salariale e alla drastica contrazione della base produttiva.

Mancanza di politica industriale, c’entra qualcosa la Uem?

Quanto detto sopra non significa che l’Italia non sconti la mancanza di una politica industriale da prima che l’euro venisse introdotto. Dobbiamo, però, considerare che l’indirizzo di politica economica dei governi italiani è stato condizionato dal “vincolo esterno” europeo (privatizzazioni comprese) sin dagli anni ’80 e ’90, prima mediante lo Sme e poi con l’obiettivo di realizzare le condizioni per poter entrare nella moneta unica. Ma la domanda giusta da farsi è un’altra: è possibile, all’interno dell’euro, mettere in pratica una politica industriale, soprattutto se questa è basata sul ruolo centrale del pubblico e sulle specificità di un singolo Stato? La risposta non può che essere negativa. Senza la possibilità di utilizzare gli strumenti di politica monetaria, alienati alla Bce, non è possibile sviluppare una politica economica, tantomeno una politica di massiccio intervento pubblico, che, fra l’altro entrerebbero in contrasto anche con l’articolo 107 sugli aiuti di stato del Trattato sul funzionamento dell’Ue (TFUE). Del resto, la politica economica dei singoli stati è di competenza dell’Unione, come stabilito all’articolo 119 del TFUE:
“L’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni dei trattati,  l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli stati membri (…). Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione [quella di definire una politica economica] comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione di una politica monetaria e di cambio uniche che abbiano l’obiettivo principale di mantenere stabili i prezzi (…). Queste azioni dell’Unione e degli stati membri implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane affinché la bilancia dei pagamenti sia sostenibile.”

La fragilità industriale italiana  e l’euro

L’economia e le imprese italiane certamente presentano delle fragilità, soprattutto nei confronti della Germania, che nella manifattura ha oltre 4mila imprese sopra i 250 addetti, contro le 1200 italiane, le cui dimensioni medie per valore aggiunto sono appena il 70% delle tedesche[iii]. Ma l’economia e la manifattura italiane sono davvero così fragili? È vero che le imprese italiane non esportano? 
La verità è che la bilancia commerciale italiana realizza surplus crescenti dal 2012, mentre quelle di Francia, Spagna e Regno Unito sono sempre in deficit. Il surplus commerciale italiano nel 2017 è in valore assoluto il terzo della Ue (dopo quello tedesco e quello dei Paesi Bassi, che però è gonfiato dalle riesportazioni, soprattutto tedesche, dal porto di Rotterdam). Il valore dell’export italiano sul Pil è passato dal 27,4% del 2007 al 30% del 2016; il suo incremento medio annuo tra 2002 e 2017 è del 3,2%, cioè oltre il doppio di quello francese, in particolare la sua crescita tra 2009 e 2017 raggiunge il 4,9% annuo.
Altra questione: l’Italia ha bisogno della Uem e della Ue mentre la Germania ne ha molto meno bisogno, avendo sostituito l’export intra-Ue con quello extra-Ue, specialmente verso la Cina? In realtà, tutti i paesi della Uem hanno diminuito la loro quota di export di beni intra-Ue, a causa del crollo dei mercati domestici, determinata dalla austerity. La quota dell’export intra-Ue sul totale dell’Italia è diminuita tra 2002 e 2017 (55,6%) di circa 6 punti percentuali analogamente alla Germania, la cui quota di export intra-Ue però rimane superiore a quella dell’Italia (58,5%). È vero che le imprese italiane concentrano la produzione in settori arretrati o comunque tradizionali come l’alimentare e i beni di lusso? Tra 2007 e 2016 il maggiore incremento della produzione di valore aggiunto nel manifatturiero si è realizzato nel settore alimentare, in effetti maturo e a bassa tecnologia, ma un forte incremento si è registrato anche nei macchinari, a medio-alta tecnologia, e nei settori ad alta tecnologia della chimica, del farmaceutico e della produzione di Pc, strumenti ottici e elettronici. 

Nell’export la crescita maggiore, tra 2015 e 2016, si registra nel farmaceutico (con una quota sul totale del 5,1%) e nei mezzi di trasporto (11,4%). Il settore più importante dell’export è quello dei macchinari e apparecchi, sia come quota (18,2%), sia come contributo al surplus commerciale (48 miliardi di euro su circa 51 totali nel 2016), non certo l’alimentare, che raggiunge una quota del 7,6%[iv].
Soprattutto, bisognerebbe chiedersi se e come l’introduzione dell’euro ha aiutato a affrontare le fragilità, vere o presunte, della struttura delle imprese italiane. La manifattura (non i servizi) ha raggiunto una maggiore competitività, ma non certo perché l’euro ha permesso di far ricorso, attraverso l’eliminazione delle svalutazioni competitive, a strumenti competitivi più “sani”. La competitività è stata incrementata più che mediante l’innovazione e la tecnologia, soprattutto mediante una feroce ristrutturazione del tessuto imprenditoriale che ha distrutto, insieme al mercato interno, moltissime imprese e posti di lavoro. Tra 2008 e 2015, nella manifattura il 15,3% delle imprese (il 22,3% delle piccole imprese) e il 18% dei loro addetti è stato eliminato dal mercato, mentre il valore aggiunto è rimasto quasi stabile (+0,6%), sebbene solo in termini nominali. In questo modo, cioè a causa della espulsione di massa di lavoratori dalla produzione, la produttività apparente per addetto tra 2007 e 2016 è aumentata del 20,6% (più che in Francia, Spagna e Germania)[v]; le dimensioni aziendali – che vanno viste in termini di valore aggiunto più che in termini di addetti (dato il peso delle espulsioni dal lavoro e l’aumento dei settori ad alta intensità di capitale) – delle sopravvissute sono aumentate tra 2008 e 2015 del 18,8%.
Le esportazioni italiane dipendono solo dalla qualità e non dai costi e quindi dal prezzo? In effetti, alcuni settori hanno persino potuto aumentare i prezzi relativi dell’export, come l’abbigliamento e soprattutto la pelletteria, riducendo la loro quota mondiale. Però, i crescenti saldi della bilancia commerciale italiana derivano, oltre che dalla diminuzione della crescita dell’import, a causa della contrazione della capacità di acquisto di famiglie e imprese, dall’incremento della crescita dell’export, a causa dell’aumento della produttività e della riduzione del costo del lavoro, dovuto alle controriforme del mercato del lavoro e alla realizzazione di un esercito di riserva industriale[vi]

Ciò ha permesso un aumento della competitività di prezzo, mediante una riduzione del valore unitario dell’export, il cui indice generale è sceso da 201 nel 2008 a 176,5 nel 2016[vii]. Il calo è più evidente nel tessile, nell’elettronica (componenti e di consumo), nel chimico-farmaceutico e nei macchinari[viii]. Proprio questi ultimi due settori hanno non solo ridotto il loro valore unitario relativo ma lo hanno fatto più della media Ue, migliorando le loro quote di mercato mondiale e fornendo il maggiore contributo alla formazione e all’ampliamento dei surplus commerciale italiano (Fig. 5).

Fig. 5 – Variazione del valore unitario relativo dell’export di Italia e Ue (mondo=1)
fig.5
Fonte: ITC, Trade competitiveness map

Inoltre, il calo del costo del lavoro ha permesso il miglioramento della redditività delle imprese sopravvissute. Tra le imprese della manifattura al di sopra dei 250 addetti il margine operativo lordo sul fatturato è passato dal 5,8% del 2008 al 7,5% del 2015, rimanendo superiore a quello delle omologhe tedesche[ix].

Euro e crisi dell’accumulazione capitalistica

L’euro rappresenta, in questa fase storica e nelle condizioni dell’Europa occidentale, uno strumento decisivo nella riorganizzazione della produzione di profitto. Sergio Marchionne ha individuato le cause della sovraccapacità produttiva dell’industria europea nella resistenza alla eliminazione, durante le crisi precedenti, di imprese e impianti ridondanti[x]. Tali resistenze furono favorite dai meccanismi di riequilibrio monetari (ad esempio le svalutazioni) e dall’intervento statale, incluso il welfare, che attutì l’effetto depressivo dei licenziamenti sul costo del lavoro. Questo discorso vale in particolar modo per l’Italia, in cui l’incidenza di piccole e medie imprese è maggiore. In occasione dell’ultima crisi, invece, questi fattori di resistenza alla distruzione di mezzi di produzione e forza lavoro sono stati neutralizzati dall’euro e dall’austerity. L’euro è certamente servito a affrontare alcuni limiti competitivi del capitale italiano, ma nel modo sbagliato o, più precisamente, nel modo che ha favorito lo la ripresa dei profitti dello strato di vertice del capitale, quello di grandi dimensioni e multinazionale, scaricandone i costi sul lavoro salariato e sulle imprese più piccole o che lavorano sul mercato domestico.

L’euro ha favorito l’applicazione di tutte quelle misure che storicamente il capitale impiega per contrastare il calo di redditività degli investimenti: la creazione di un ampio esercito di riserva (disoccupati, precari e sottoccupati), il taglio del salario – diretto, indiretto (welfare) e differito (pensioni) -, l‘aumento del saggio di sfruttamento della forza lavoro, la centralizzazione dei capitali, l’export di merci e investimenti produttivi. Questo, però, non sarebbe stato realizzabile senza la modifica dei rapporti di forza fra le classi all’interno dello Stato e quindi senza la rimodulazione del funzionamento dello Stato nazionale mediante la delega di alcune sue funzioni strategiche al livello sovranazionale europeo. In questo modo, l’integrazione europea ha consegnato al capitale una capacità di riorganizzazione dei rapporti sociali complessivi inedita nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale.  Il risultato è la ripresa dell’accumulazione, almeno per il momento, guidata dallo strato superiore del capitale, quello maggiormente integrato a livello sovrannazionale, al costo, però, della maggiore distruzione di capacità produttiva manifatturiera dal ’29, di una economia nazionale in stagnazione strutturale e in presenza di livelli occupazionali e salariali permanentemente depressi.

Fonte: qui

[i] Imf, Germany. Country Report n. 14/216, July 2014.
[ii] Elaborazioni su dati Eurostat, General government expenditure by function (COFOG).
[iii] Elaborazioni su dati Eurostat, Annual enterprise statistics for special aggregates of activities (NACE Rev. 2).
[iv] Istat, Annuario 2017, cap. 15, Tav. 15.2.
[v] Istat, Rapporto annuale 2018, Cap. 1, Fig. 1.31.
[vi] Istat, Rapporto sulla competitività dei settori, 2017, p. 6. “A partire dal 2014 si osserva un sostanziale recupero della competitività di prezzo attraverso il costo del lavoro, favorito anche dai provvedimenti di decontribuzione attuati nel 2015. Ciò ha portato a una parziale riduzione del cospicuo differenziale con la Germania accumulato negli anni precedenti. Nell’ultimo biennio, la crescita del valore aggiunto manifatturiero (quasi +5 per cento) è stata la più sostenuta tra le economie Eur4.”
[vii] Indice 2000=100. Unctad, Merchandise: Trade value, volume, unit value, terms of trade indices and purchasing power index of exports, annual, 1980-2016.
[viii] ITC, Trade competitiveness map, Trade performance index, Relative unit value of export.
[ix] Eurostat, Industry by employment size class, (Nace Rev.2, B-E).

[x] J. Ewing and B. Vlasic, Europe’s auto industry has reached day of reckoning, “The New York Times”, July 25 2012.