9 dicembre forconi: 01/18/17

mercoledì 18 gennaio 2017

IL MANAGER DI UBI CHE SPARA A ZERO CONTRO I VERTICI DELL'ISTITUTO

IL RESPONSABILE DELL'ANTIRICICLAGGIO DI UBI BANCA RIVELA AI MAGISTRATI TUTTE LE PORCHERIE NELLA GESTIONE DELLA BANCA, TRA EVASIONI, CAPITALI ALL'ESTERO, FILIALI IN PARADISI FISCALI CHE FINISCONO NEI PANAMA PAPERS E TRATTAMENTI SPECIALI PER CLIENTI ''SOSPETTI''

Maurizio Tortorella per La Verità

L’annotazione di servizio dei carabinieri è di sole 10 cartellette, quasi una goccia in un mare di oltre 46.000 pagine, depositate lo scorso 17 novembre dalla Procura di Bergamo alla chiusura delle indagini contro 39 indagati per una serie di presunti, gravi illeciti nella gestione di Ubi Banca.
UBI BANCA BRESCIAUBI BANCA BRESCIA

Ma quelle 10 cartellette contengono accuse durissime nei confronti dei vertici del quarto gruppo creditizio italiano: accuse quasi incredibili, ma tutte molto circostanziate e provenienti da una fonte decisamente autorevole, visto che ad affidarle agli investigatori nel maggio 2014 fu Roberto Peroni, all’epoca responsabile dell’Ufficio rischi di riciclaggio, finanziamento al terrorismo, segnalazioni operazioni sospette e indagini penali di Ubi Banca, cioè uno dei principali organi di controllo interni all’istituto.

Ora la denuncia di Peroni, di cui La Verità è entrata in possesso, dovrà ovviamente essere verificata e confermata in un giudizio che dev’essere ancora richiesto dalla Procura: ma rischia di aprire un nuovo fronte giudiziario particolarmente gravoso per alcuni dei 39 indagati di Bergamo. Le 10 paginette riguardano soprattutto l’industriale bresciano dell’acciaio Franco Polotti, al momento della denuncia (e fino al 14 aprile 2016) presidente del consiglio di gestione di Ubi Banca.

Dopo una serie di segnalazioni interne, a suo dire frustrate dai vertici dell’istituto, il 23 maggio 2014 Peroni si decide a raccontare ai carabinieri quel che sostiene di aver visto. Chiede così un contatto via email con il comando dell’Arma, a Roma, e viene interrogato quattro giorni dopo, a Brescia. A due marescialli e un appuntato, che registrano le sue parole, il manager denuncia i collegamenti tra Polotti e Mariliano Mazzoleni, imprenditore dei rottami ferrosi e cliente della banca.

Su di lui, Peroni racconta parecchie cose: che la Popolare di Bergamo avrebbe già segnalato all’Ufficio italiano cambi nel 2005 per «movimentazioni milionarie della società rottami Cmps, poi liquidata», e che l’uomo sarebbe stato anche indagato per inquinamento ambientale. Ma quel che più conta è quel che Peroni dichiara di aver visto con i suoi occhi, come responsabile dell’antiriciclaggio di Ubi Banca: «Ci arriva una se- gnalazione di operazione sospetta », racconta, «per un rimpatrio di ingenti quantità di denaro dalla Svizzera: stiamo parlando di 3,7 milioni di euro su un conto scudato, tramite una fiduciaria che abbiamo più volte segnalato per attività sospette e alla quale abbiamo chiuso tutti i rapporti perché evidentemente “scudava”, cosa che non potevamo accettare » .

BANCA UBIBANCA UBI
Peroni consegna ai militari copia delle segnalazioni che il suo ufficio ha fatto all’Unità di informazione finanziaria, cioè l’Uif, che dal 2008 è subentrata all’Ufficio italiano dei cambi come autorità centrale antiriciclaggio. Poi continua nella sua denuncia e racconta che contro Mazzoleni era stato addirittura disposto il sequestro di un’azienda, la Aom rottami: «Questa, però, è stata poi esclusa dall’indagine in quanto non controllata direttamente dal soggetto (cioè Mazzoleni, ndr), ma solo indirettamente. Perché c’era anche un altro socio. Allora noi facciamo gli approfondimenti e si scopre che l’altro socio di questa Aom rottami, al 50 per cento, è la Ori Martin, acciaierie e ferriera di Brescia: riconducibile come proprietà al presidente del consiglio di gestione di Ubi Banca».

Insomma, le indagini del responsabile dell’antiriciclaggio di Ubi gli fanno comprendere, a sorpresa, che l’uomo su cui sta indagando è in affari proprio con Polotti, cioè con il numero uno della sua banca. E sul punto, oltre alla denuncia, Peroni sembra voler consegnare ai carabinieri anche il suo personale scandalo:
PIERO GUSSALLI BERETTAPIERO GUSSALLI BERETTA

«Che un’azienda come la Ori Martin, con l’immagine e lo standing che ha su questa piazza, veda il suo presidente mettersi in società al 50 per cento con un soggetto che, stante il ruolo che Polotti ha in questo gruppo, sicuramente lo portava a conoscenza del fatto che (Mazzoleni ,ndr) è già stato inquisito in passato per queste cose e che grazie a queste attività ha portato notevolissime disponibilità economiche anche all’estero, che in parte ha scudato e fatto ritornare in Italia, e che quindi si è messo in società, mi si permetta di dire, con un disonesto…».

Dice proprio così, Peroni: usa il termine «disonesto», e l’aggettivo introduce una categoria moralistica, in quanto tale opinabile e certamente non condivisibile, nei confronti di chi non abbia subìto finora condanne definitive. Ma ben più grave è la sequenza di accuse che segue. Perché Peroni sostiene che Mazzoleni avrebbe fatto rientrare in Italia «notevoli capitali» tramite la fiduciaria Ser-Fid «che era quella che gli ha scudato alcuni rapporti che ha in Lussemburgo». E qui parte la denuncia più grave: «La Ubi Banca International in Lussemburgo», dichiara Peroni, «è in pratica la banca utilizzata dagli amici degli amici per fare le peggio schifezze ».

Va ricordato, a questo punto, che la Ubi Banca international del Lussemburgo, di cui nel maggio 2014 era presidente l’industriale bresciano delle armi Piero Gussalli Beretta, è comparsa anche nei cosiddetti «Panama papers»: una massa di 2,5 terabyte di dati, pubblicati nell’aprile scorso e provenienti da una fonte anonima interna allo studio legale panamense Mossack- Fonseca, che avrebbe curato gli interessi di centinaia e centinaia di soggetti (anche italiani) desiderosi di sottrarsi al fisco.
FAISSOLAFAISSOLA

Quell’immensa massa d’informazioni è stata minuziosamente analizzata, elaborata e pubblicata dai giornalisti dell’International consortium of investigative journalists, un circuito internazionale di cui in Italia fa parte l’Espresso . Quando ai primi dell’aprile 2016 l’Espresso aveva rivelato l’esistenza «di 40 sigle offshore, registrate a Panama e alle isole Seychelles, che appaiono legate a Ubi» attraverso la sua controllata lussemburghese, la banca prima aveva negato tutto.

Poi il 28 aprile, in meno di un mese, aveva velocemente ceduto Ubi International a una banca di Zurigo, la Efg International. E Beretta aveva lasciato la sua presidenza per diventare vicepresidente vicario nel consiglio di sorveglianza del gruppo Ubi. Ma torniamo a Peroni e alla sua denuncia.

Sulla filiale di Ubi in Lussemburgo, nel 2014 il capo dell’antiriciclaggio racconta ai carabinieri di essersi scontrato con un vero muro di gomma, all’interno del suo stesso istituto: «C’erano cose», sostiene, «che non si voleva fare emergere.

(…) Mi è stato inibito di farlo, e le inibizioni arrivavano anche sulle cose più allucinanti. Faccio due esempi pratici. Sono riuscito a ottenere che la (nostra , ndr) banca lussemburghese sottoponesse ogni nuovo potenziale cliente a un’analisi preliminare per verificare se c’erano pregiudiziali: se aveva avuto indagini penali, se aveva un rischio di riciclaggio, se fosse stato oggetto di segnalazione di operazione sospetta.

(…) Inizio a ottenere queste evidenze, e ogni settimana c’è qualche nostro cliente italiano che apre rapporti in Lussemburgo. Sono tutte persone che in Italia hanno basso rischio. Allora ai miei superiori faccio un ragionamento: scusate, ma se io voglio fare investimenti all’estero e sono a rischio basso o irrilevante, posso farlo tramite la mia filiale italiana; nel momento in cui invece voglio aprire un conto in Lussemburgo è perché ho qualcosa da movimentare o da gestire che in Italia non verrebbe accettato come lecito».

UBI BANCAUBI BANCA
Peroni propone quindi ai suoi superiori di elevare per tutti quei clienti «anomali» il livello di rischio riciclaggio. È una misura forte, probabilmente eccessiva in certi casi. Ma la risposta che gli arriva dalla banca è, a sua volta, eccessivamente garantista: «La risposta è stata: dimentica di aver fatto questa proposta». Infine, Peroni passa a un altro capitolo che definisce «allucinante », quello delle nomine.

E ai carabinieri racconta che nel marzo 2014 Ubi ha provveduto al rinnovo del consiglio d’amministrazione. Tra i premiati sono due figli di ex presidenti del consiglio di sorveglianza di Ubi Banca: Cristina Faissola, figlia di Corrado, l’avvocato che dal 2006 al 2010 è stato anche presidente dell’Associazione bancaria italiana (è poi deceduto nel dicembre 2012); e Matteo Zanetti, figlio di Emilio. «Hanno trovato entrambi un posto», dice Peroni, «uno nel consiglio d’amministrazione della Popolare di Bergamo, l’altro nel consiglio della Banca Regionale Europea. Non hanno alcuna competenza specifica, se non il fatto di essere della famiglia».

La famiglia, già. E proprio sui Faissola, Peroni aggiunge un altro carico da 90: «Mesi fa», dice ai carabinieri, «ho avuto evidenza che il fratello di Corrado Faissola avesse fatto arrivare dalla Svizzera 350.000 euro in tranche da 50.000. Ho detto (ai miei superiori, ndr): questa è importazione di capitali, dobbiamo segnalarla all’Uif. No, non puoi segnalarla. E perché non posso? Vedi, mi hanno detto: l’ordinante è il figlio, un alto dirigente della Deutsche Bank a Londra, quindi guadagna molto, e può mandare soldi al padre. Ma io replico: i soldi arrivano dal Credit Suisse di Basilea, che cosa ha a che fare con la Deutsche Bank di Londra? Questi sono soldi che l’avvocato Faissola (Corrado , ndr) aveva illecitamente in Svizzera, e che dopo la sua morte il fratello sta facendo rientrare». Sospetti motivati o eccessivi, quelli di Peroni? Al momento non è dato saperlo.

Contattata dalla Verità , Ubi Banca oggi risponde alle dure accuse del suo manager sottolineando che la stessa Procura di Bergamo non deve avere trovato particolari riscontri alle sue parole, se è vero che nessuno dei capi d’accusa elevati nei confronti degli indagati contempla quel tipo d’ipotesi di reato.
UBI BANCA indexUBI BANCA INDEX

Nel verbale del maggio 2014 il manager si lamentava anche dell’eccessivo carico di lavoro, sostenendo fosse «una delle tecniche» per distrarlo dai suoi compiti: «Il fatto di ammazzarmi di lavoro è per impedirmi di avere tempo per fare altri approfondimenti », spiegava. 

È un dato di fatto che dal suo ufficio all’antiriciclaggio, dove due anni fa gestiva 45 persone, Peroni è stato poi trasferito a un’altra società del gruppo. Oggi ha molti dipendenti in meno. E si occupa di factoring.


Fonte: qui

ALITALIA - SIAMO AL TERZO SALVATAGGIO IN 9 ANNI, E MENTRE SI ANNUNCIANO TRA 500 E 1600 LICENZIAMENTI

SI IMPLORA LUFTHANSA DI PRENDERSI LA COMPAGNIA

FELTRI: ''UN'AZIENDA CHE MERITA DI CREPARE SENZA RIMPIANTI, VISTO CHE È STATA SEMPRE UN ENTE ASSISTENZIALE DEI DIPENDENTI'' 

IL SOLITO TEATRINO DEI FALLITI CALENDA-MONTEZEMOLO

1. ALITALIA E’ LA MPS DEI CIELI
Vittorio Feltri per Libero Quotidiano

Alitalia è di nuovo con le ali a terra. Non ce la fa più a decollare ed è un miracolo se respira ancora. È l' immagine dell' Italia burocratica e statale incapace di vivere di mezzi propri. 

Qui da noi si predica che in economia comanda il mercato, ma al tempo stesso si chiama in causa lo Stato ogni volta che un' azienda su cui sventoli il tricolore è in crisi e minacci di chiudere. 

È successo al Monte dei Paschi di Siena, che si è divorato decine di miliardi senza dire perché, e senza confessare a chi ha regalato capitali ingenti, e ora succede ad Alitalia che già in passato si era segnalata per imbecillità gestionale, riducendosi in bolletta nera.

ALITALIAALITALIA - FALLITA
Da circa dieci anni la cosiddetta compagnia di bandiera si illude di rinascere e per ben due volte ha trovato degli sciocchi che si sono illusi di rivitalizzarla. Il primo visionario un po' cieco che la foraggiò fu Silvio Berlusconi che, smentendo Romano Prodi, impedì di cedere la baracca semidistrutta ai francesi, che erano disposti a versare circa 2 miliardi per acquisirla, addossandosi oneri mostruosi.

Il Cavaliere, in procinto di vincere le elezioni, alzò la cresta e pose il veto alla vendita, adducendo motivi patriottici. Disse che vendere gli aerei sarebbe stato un suicidio per il nostro turismo. Cosicché si impegnò a strapagare il personale in esubero e a finanziare il rilancio dell' azienda con denaro pubblico, in parte. E fu un flop.
ALITALIA SAI NO SHOW RULEALITALIA SAI NO SHOW RULE

Perché il turismo è comunque calato di brutto (per mancanza di organizzazione e coordinazione) e la compagnia, pur foraggiata senza risparmio, è sopravvissuta a stento e malamente per un lustro ed è poi affondata miseramente in un mare di debiti.

Si è subito pensato a un secondo e velleitario rilancio del baraccone coinvolgendo addirittura gli arabi, avvezzi a guadagnare perfino coi voli. Non ho mai creduto che il tentativo potesse avere successo, ma nella circostanza ho avuto per venti minuti la sensazione che ci fosse uno spiraglio perché non fallisse. Sbagliavo.

LE NUOVE DIVISE DI ALITALIALE NUOVE DIVISE DI ALITALIA
E non mi si dica che alla topica sia estraneo l' organico umano dell' impresa, le cui pretese ereditate dai tempi d' oro del sindacalismo vorace hanno perpetuato la crescita delle spese folli. Un esempio emblematico: tra i piloti (autentici divi) c' è chi abita a Marbella e con l' appoggio dei rappresentanti dei cosiddetti lavoratori insiste affinché gli venga offerto gratis il trasferimento a Roma o dove parte l' aereo su cui è chiamato a svolgere la propria opera.

Mi rendo conto: è ridicolo o almeno paradossale, ma risponde a verità. 

Una compagnia costretta a sopportare simili oneri non campa a lungo, e in effetti la nostra è sul punto di tirare le cuoia. Merita di crepare senza lasciare rimpianti tra gli utenti consapevoli che l' Alitalia è sempre stata considerata un ente assistenziale dai dipendenti e non un luogo in cui guadagnarsi stipendi ragionevoli.

RENZI E MONTEZEMOLO TRA LE HOSTESS ALITALIARENZI E MONTEZEMOLO TRA LE HOSTESS ALITALIAFALLITI
Naturalmente la responsabilità del crollo non va attribuita soltanto al personale. Pesa anche una amministrazione pressappochista che, invece di imitare Ryanair, i cui bilanci sono in perfetto ordine e il servizio che svolge è eccellente nonché a buon mercato, non ha smesso di calpestare le orme impresse dagli statalisti d' antan che provocarono i primi e duraturi disastri.

Siamo così giunti al terzo decesso di Alitalia e temiamo che lorsignori del governo agiscano nei confronti della compagnia di bandiera esattamente come hanno agito per Monte dei Paschi, ossia utilizzino soldi pubblici per tamponare le falle. Sarebbe un altro calcio sferrato tra i denti dei cittadini.
CARLO CALENDACARLO CALENDA


2. ALITALIA, IL GOVERNO APRE AI SINDACATI RINVIATO LO SCIOPERO GENERALE
Nicola Lillo per la Stampa

Non c' è ancora un piano di rilancio condiviso né il numero esatto di esuberi in Alitalia, ma il governo da giorni dice che i lavoratori non dovranno pagare le colpe della gestione dell' azienda. Una posizione, ribadita più volte, che viene confermata dall' incontro di ieri al ministero dello Sviluppo economico tra i ministri Calenda e Delrio e i sindacati di categoria. Il governo ha voluto dimostrare ai rappresentati dei lavoratori che il dossier è seguito con una particolare attenzione e che il tema lavoro è prioritario.
MONTEZEMOLO HOGANMONTEZEMOLO HOGANFALLITI

I due ministri hanno espresso la propria preoccupazione per la gestione dell' ex compagnia di bandiera, assicurando i sindacati che una volta presentato il piano tra due settimane verranno coinvolti anche loro nella discussione sugli esuberi, si parla di una forbice che va dai 500 ai 1.600 posti di lavoro a rischio. Ma è ancora presto per avere i numeri precisi.

Tutti i dettagli da digerire per sindacati e governo sono contenuti nel piano quinquennale da cui passa il futuro di Alitalia.

Il piano è complesso, così come lo è la materia. In 158 pagine sono spiegate le strategie con cui l' amministratore delegato Cramer Ball conta di rilanciare l' azienda. Le linee guida sono chiare, e cioè riduzione aggressiva dei costi, rinegoziazione di partnership penalizzanti e il nuovo modello di business con il riposizionamento fra rotte di corto, medio e lungo raggio. Ma ora serve condivisione sui dettagli da cui dipende quello che sarà dell' azienda, che in questo 2017 doveva raggiungere l' utile ma che in realtà perde quasi un milione al giorno.
hogan cassano montezemolo renzi d'amicoHOGAN CASSANO MONTEZEMOLO RENZI D'AMICO - FALLITI

Sul contenuto tecnico del piano si esprimerà un advisor esterno richiesto dai soci italiani, che sarà nominato nel prossimo cda atteso per lunedì. Di sicuro nel piano, spiegano alcune fonti, è messa nero su bianco l' ipotesi che nel futuro ci possano essere nuovi soci in Alitalia. Non è un mistero che negli ultimi mesi si siano intensificati i rapporti tra Etihad e Lufthansa e non si esclude quindi un possibile interessamento della principale compagnia tedesca.

All' incontro di ieri al ministero dello Sviluppo economico il governo, da quanto si è appreso, ha fatto notare di non avere l' abitudine di criticare i vertici di aziende private come ha fatto in recenti dichiarazioni, ma in questo caso l' intervento si è reso necessario per dire che certe cose non sono andate come ci si aspettava. E cioè che all' incontro al ministero dello scorso 9 gennaio l' ad Ball e il vicepresidente James Hogan si sono presentati senza un piano condiviso dai soci, le banche azioniste e creditrici Unicredit e Intesa Sanpaolo.

cramer ballCRAMER BALL
La tensione nel management dell' azienda è altissima, e si rincorrono le voci di un possibile passo indietro di Hogan, nel mirino dei soci italiani. E' lui l' uomo più in bilico ai vertici dell' azienda, controllata con il 49% da Etihad, e il suo futuro è ora nelle mani degli emiri. Intanto è stato differito lo sciopero generale del trasporto aereo di venerdì, mentre per il 23 febbraio rimane in programma quello dei dipendenti Alitalia.

Fonte: qui


Donald Trump: "Europa asservita alla Germania"

Forza Trump, manda kaputt la Germania. L' intervista del presidente in pectore degli Stati Uniti concessa all' inglese Sunday Times e alla tedesca Bild ha fatto capire che, oltre alla Cina, l'avversario numero uno della Casa Bianca sarà la Germania. Come al solito Donald non ha usato giri di parole. Prima bomba: "Angela Merkel è di gran lunga il leader europeo più importante, d' altronde se guardate all' Ue, di fatto è un veicolo per gli interessi della Germania".

Seconda bomba: "Credo che la Merkel abbia compiuto solo un catastrofico errore e cioè l' aver fatto entrare tutti quegli illegali. E se gli inglesi non fossero stati costretti a fare entrare tutti quei rifugiati, così tanti, con tutti i problemi che comporta... credo che non avremmo avuto la Brexit". 

Terza: "Credo che altri Paesi della Ue se ne andranno. Penso che tenere tutti insieme non sarà facile come qualcuno può pensare". 

Quarta, a proposito di Brexit: "Subito dopo essere entrato alla Casa Bianca vi sarà rapidamente un accordo commerciale fra Usa e Gran Bretagna: molto in fretta - ha detto - sono un grande fan del Regno Unito. Lavoreremo con forza per farlo in fretta e bene. Sarà buono per le due parti". 

Quinta: "La Nato è obsoleta. Non è attrezzata per combattere il terrorismo islamico e i suoi membri si appoggiano sull'America, non pagano quello che dovrebbero pagare".

Un accordo con Putin? Si può fare. 

Sesta, diretta proprio a Berlino: «Potrei imporre una tassa del 35% sulle importazioni della Bmw, se la compagnia tedesca continuerà a mantenere il progetto di costruire un impianto in Messico".

Settima bomba finale, sempre contro i tedeschi: "Nel commercio ci vuole reciprocità e nel settore delle automobili tra Germania e Stati Uniti non può funzionare a senso unico: Sarà necessario riequilibrare i flussi commerciali con Berlino. Se andate sulla Quinta strada vedete che tutti hanno una Mercedes Benz davanti a casa, non è così? Il fatto è che non c' è reciprocità. Quante Chevrolet vedete in Germania? Poche, forse nessuna. È una via a senso unico, deve funzionare da entrambe le parti".

Purtroppo, per i tedeschi, le minacce in campagna elettorale stanno diventando realtà. 

Poco dopo l' elezione di Trump la Vda, cioè l' associazione delle imprese dell' auto tedesche, aveva già lanciato l' allarme: "Bisogna temere il fatto che gli Stati Uniti sotto la nuova presidenza si concentreranno soprattutto sulla loro economia interna, a spese dei flussi di commercio e delle relazione internazionali». In effetti il nuovo inquilino della Casa Bianca aveva sempre parlato di dazi, per mettere a dieta le importazioni e ricreare la manifattura a stelle e strisce. Chi meriterebbe barriere doganali? 

La Cina, patria delle imprese americane delocalizzate ma anche regina dell' export a basso costo. Una pratica diffusa anche in Germania, che grazie al suo boom fuori confine ha inanellato un surplus di oltre 900 miliardi, violando ripetutamente i trattati europei che invece prevedono un limite al 6% nel rapporto surplus-Pil. 

Il ragionamento di Donald è semplice: bisogna fare girare i soldi, non tenerli in cassaforte. Berlino, come dicevamo, ha quasi 1.000 miliardi fermi, Pechino circa 3.000. E come farli girare? Minacciando sanzioni, appunto, ma con intelligenza, per non danneggiare il Pil Usa.

Il terreno di manovra non è semplice. La Germania, tenendo per sè tutti i frutti dell' export, mette a rischio l' unità europea e di conseguenza l' euro. Una politica protezionistica americana sarebbe un duro colpo per l' industria teutonica, capace di sfruttare l' assenza di barriere alle proprie esportazioni e il basso costo del lavoro, per inondare di made in Germany i mercati. 

Per dare due numeri: in ballo ci sono oltre 100 miliardi di esportazioni verso gli Usa e ben 1,5 milioni di posti di lavoro in Germania, collegati proprio al mercato statunitense.
Se Berlino però rinunciasse al suo surplus e iniziasse a spendere per ammodernare le sue infrastrutture, cambierebbe tutto. Nella vecchia Ue tornerebbero a girare i soldi, con grandi benefici anche per le imprese italiane. Una boccata d' ossigeno non indifferente, visto che i tedeschi sono i nostri primi partner commerciali. Investimenti significano posti di lavoro. Più consumi.
Più inflazione. Insomma, ripresa vera.

Ma la Germania forse si arroccherà, come nelle ultime due guerre mondiali, e rischierà di finir male. Toccherà insomma ai soliti americani, capitanati da Trump, far pulizia. Nell' attesa della liberazione dal giogo teutonico possiamo intanto sfruttare il dollaro forte che piace al neo presidente Usa: "L'effetto della svalutazione dell' euro - ha scritto l' economista tedesco Daniel Gros- sarà tre volte più forte in Italia che in Germania". E allora forza Trump.
di Giuliano Zulin

Fonte: qui

P.S. Anche i media sono asserviti ....

RECORD! Giovanna Botteri dagli Stati Uniti: tre bufale in un minuto.




Tutor non a norma, multe da annullare. La sentenza 113 cambia tutto

Mandano nelle case degli italiani seicentomila multe l’anno. Ma il sistema dei tutor, evidenzia la Consulta, va continuamente tarato e certificato, altrimenti le sanzioni sono da annullare.

Basta un semplice ricorso dell’automobilista al giudice di pace. Il Giorno riporta la storia di Angelo Scavone, avvocato bolognese e già assessore al Traffico multato per aver sfrecciato sull’A1 tra i 160 e i 170 chilometri all’ora tra Modena, Lodi e Piacenza (133,92 euro moltiplicato per tre se paghi subito, 184,62 se aspetti 60 giorni) e nove punti in meno sulla patente. Ma Scavone ha fatto ricorso ai giudici di pace e ha vinto.
Si è appellato infatti alla Corte costituzionale e alla famosa sentenza 113 del 2015: “Tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura“. Controlli che devono avere almeno una cadenza annuale, spiega Luigi Vingiani, segretario nazionale della Confederazione giudici di pace: “Da quando è entrata in vigore la sentenza, mi saranno capitati almeno un migliaio di ricorsi, quasi tutti sui tutor. Mai visto un prefetto portare la documentazione della taratura” e se “non ce la portano, il ricorso deve essere accolto“.
Secondo la Polizia stradale, “ormai gli strumenti sono quasi tutti tarati“, “ci siamo adeguati, abbiamo acquistato pacchetti manutentivi e di assistenza. La documentazione può essere richiesta dagli stessi automobilisti. I tutor sono tarati annualmente”.Tant’è, le Prefetture non forniscono “le prove” e si rassegnano a perdere i ricorsi. “Certo, per la taratura della velocità media misurata dal tutor, il problema è più complesso. Il documento non è unico ma composto da tanti elementi. Forse la difficoltà sta proprio qui”.
Nessuno sa poi fornire dei dati sui ricorsi contro tutor e autovelox. Il ministero della Giustizia comunica che i nuovi casi erano quasi 81mila nei primi sei mesi dell’anno scorso ma sicuramente sono cresciuti dopo la sentenza della Corte Costituzionale che è di fine aprile. Quindi le sentenze emesse superavano quota 145mila mentre quelli pendenti al 30 giugno sfioravano i 334mila.
Fonte: Libero