COLLASSO ECONOMICO - «C’è una supernova pronta a esplodere», ha avvertito Bill Gross, numero uno di Janus Capital. Si riferiva ai 10 trilioni di bond con tassi negativi. Ma in giro ci sono molte altre micce: il petrolio che non risalirà, Trump, la Brexit. Senza dimenticare, sullo sfondo, la Cina e i Paesi emergenti
Arriverà la Supernova?
Ci sarà un nuovo 2008?
Una nuova era di fallimenti a catena è più dietro l’angolo di quanto non pensiamo?
La sfera di cristallo non è ancora in commercio, ma il nervosismo si sta impossessando dei mercati. I sondaggi favorevoi ala Brexit hanno affondato le borse europee, venerdì 10 giugno, e i rendimenti ai minimi storici del Bund decennale tedesco (arrivati allo 0,01%) fanno temere nuove bolle, come hanno avvertito venerdì, in Germania, il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble e il governatore della Bundesbank, Jens Wiedmann. Che di rischi all’orizzonte ci sia abbondanza è facile capirlo. Sono di origine finanziaria, ma oggi in larga parte anche politica. Vediamoli, in ordine di pericolosità.
Petrolio
Se ne parla meno di qualche mese fa, perché i livelli sono risaliti da 30 a 50 dollari al barile. Ma l’Opec tra aprile e giugno non ha trovato un accordo sulla riduzione della produzione e l’aumento sembra più derivare dagli incendi in Alberta (Canada) e da vari scioperi che hanno interessato il settore. Stimare il prossimo andamento dei prezzi è diventato un esercizio quanto mai aleatorio, come ha sottolineato anche un recentissimo paper di McKinsey. Ci, in ogni caso, molte ragioni per pensare che il prezzo del petrolio non risalga nei prossimi cinque anni. Come ha sottolineato un “guru” dell’energia come Leonardo Maugeri, professore di Harvard, a parte le crisi politiche tra Arabia e Iran, tutto lascia pensare che non ci sarà una risalita.
Questo è un problema innanzitutto per i produttori indipendenti di shale oil, che hanno costi di produzione elevati. I loro debiti, tuttavia, non stanno aumentando, perché le banche hanno tagliato di un terzo le loro linee di credito. Continuano invece a crescere i debiti delle grandi compagnie. Il meccanismo è spiegato daun’analisi pubblicata dall’economista Giorgio Arfaras sul sito del Centro Einaudi. Le società hanno in questo momento un “clash flow” insufficiente. Se possono tagliare investimenti futuri (come l’esplorazione nell’Artico), non possono tagliare investimenti correnti, come quelli per le manutenzioni. Non solo: hanno la necessità di distribuire comunque i dividendi, perché tra i loro azionisti figurano tipicamente fondi pensione o Stati. Con quali conseguenze? Non di tipo sistemico, spiega Arfaras, soprattutto per i produttori indipendenti. «Gli effetti ci sarebbero sulle obbligazioni delle azioni collegate alle aziende, ma non sulle banche». Uno scenario quindi diverso dalla crisi dei mutui subprime del 2008.
E allora perché mettere il petrolio al primo posto tra i rischi mondiali? La risposta va cercata in Russia, Iran e Venezuela. Tutti posti dove, con tutte le limitazioni del caso, si tengono delle elezioni. E, quindi, un sistema sociale va tenuto in piedi. Bene. In Russia questo sistema sociale ha bisogno di un petrolio a 80 dollari al barile. Se il tappo salta, le conseguenze sono imprevedibili. Dei rischi di tensioni geopolitiche legati all’instabilità sociale dell’Iran è appena il caso di parlare. Sarebbero maggiori di quelli che ha di fronte l’Arabia Saudita. Anche il suo sistema sociale è messo in crisi, ma Riad ha abbastanza riserve da poter resistere qualche anno. Il suo piano di sviluppo, i cui primi punti sono stati appena presentati, può poggiarsi sulla privatizzazione di una parte dell’Aramco, il più grande fondo sovrano al mondo.
Trump
I sondaggi non lasciano tranquilli. Uno scandalo in grande stile che coinvolgesse Hillary Clinton potrebbe mettere Donald Trump nelle condizioni di vincere la gara della presidenza. I sondaggi cambiano e andranno visti quelli effettuati con la nomination in manno alla Clinton. Tuttavia il rischio c’è. C’è quello di una guerra commerciale con la Cina e, in misura minore, con la Russia. «Si tornerebbe a un clima da Guerra Fredda», dice a Linkiesta l’economista dell’Università di Bologna Paolo Manasse. Ma soprattutto c’è il rischio di un’esplosione del debito pubblico, se fossero attuate le riforme fiscali promesse, a partire dalla “flat tax” e dai tagli alle tasse per 10mila miliardi di dollari. «Il Congresso probabilmente lo impallinerebbe, ma se realizzasse le sue promesse, Trump incrementerebbe il debito del 38% rispetto a uno scenario base», aggiunge Giorgio Arfaras. La conseguenza? Una debolezza dell’economia Usa che si riverberebbe sul resto del mondo.
Un economista di parte ma autorevole come Larry Summers (già segretario al Tesoro durante la presidenza Clinton e rettore di Harvard) è andato già durissimo. «I rischi di un’elezione di Trump per l’economia statunitense e l’economia mondiale sono di gran lunga maggiori (della Brexit, ndr) - ha scritto in un articolo del Financial Times ripreso dal Sole 24 Ore -. Se venisse eletto, prevedo l’inizio di una recessione prolungata nel giro di 18 mesi. Le ripercussioni si farebbero sentire ben oltre i confini degli Stati Uniti». Non solo. «Non c’è bisogno dell’approvazione del Congresso per revocare un trattato commerciale - continuato Summers -. Se Trump facesse anche solo la metà di quello che ha promesso, scatenerebbe senza alcun dubbio la peggiore guerra commerciale dai tempi della Grande Depressione». Problemi che sarebbero aumentati dalle tensioni geopolitiche e dalla discesa della fiducia delle imprese.
«I rischi di un’elezione di Trump per l’economia statunitense e l’economia mondiale sono di gran lunga maggiori (della Brexit, ndr). Se venisse eletto, prevedo l’inizio di una recessione prolungata nel giro di 18 mesi»
Banche e assicurazioni europee
I tassi a zero della Bce danno respiro agli Stati, e in particolare a Stati come l’Italia che sono molto indebitati. Tuttavia stanno creando sempre più problemi alle banche, assicurazioni e fondi pensione. La sfilza di risultati negativi in tutta Europa è stata ricordata, tra gli altri, dal presidente del fondo Atlante Alessandro Penati, al Festival dell’economia di Trento. Le banche in difficoltà sono un campanello d’allarme da non sottostimare. Per quelle italiane la difficoltà a fare utili significa, in primo luogo, l’impossibilità di togliersi di dosso il macigno di incagli e sofferenze, anche per l’impossibilità di una bad bank di sistema e il limitato effetto delle Gacs (Garanzia Cartolarizzazione Sofferenze), le mini-bad bank locali dove il prezzo di garanzia deve essere a valori di mercato.
C‘è anche un altro risvolto dei tassi bassi: il basso costo del debito (con l’Euribor negativo) spinge gli operatori di private equity a tornare a usare in modo aggressivo l’effetto leva. Il risultato: acquisti di aziende a costi stratosferici per lo più a debito. Come faceva Lehman Brothers. A mettere in guardia dai rischi di tassi troppo bassi è stato tra gli altri il governatore della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau. E poi c’è l’arci-nemico di Draghi, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, che al G7 di Sendai di fine maggio è stato chiarissimo. «Dobbiamo stare attenti, in modo che i progressi che abbiamo raggiunto dalla crisi finanziaria del 2008 non siano sprecati a causa della troppa liquidità nei mercati a seguito di prese di rischio crescenti».
E se economisti e politici non fossero sufficienti, meglio dare retta a chi i soldi li muove, e tanti. Come Larry Fink, Ceo di BlackRock. O Bill Gross, ex numero uno e co-fondatore di Pimco, che ha lasciato da un anno e mezzo per Janus Capital Group. «I rendimenti globali sono al loro punto più basso in 500 anni di storia. 10 trilioni di dollari (10mila miliardi, ndr) di bond con tassi negativi. Questa è una supernova che un giorno esploderà», ha scritto Gross in un commento su Twitter che ha messo in agitazione il mondo della finanza globale.
«Dobbiamo stare attenti, in modo che i progressi che abbiamo raggiunto dalla crisi finanziaria del 2008 non siano sprecati a causa della troppa liquidità nei mercati a seguito di prese di rischio crescenti»
Brexit
Quali sarebbero gli effetti di un’uscita del Regno Unito dall’Unione europea? Lo si scoprirà dopo il 23 giugno, se dovessero vincere i favorevoli alla Brexit. Le conseguenze sarebbero negative innanzitutto per la Gran Bretagna: una serie di studi, da quelli del Tesoro a quelli degli industriali, hanno ipotizzato discese del Pil, aumento del debito pubblico e conseguenti tagli sociali. L’Ocse ha quantificato in una diminuzione della crescita del 3% entro il 2020 e del 6% entro il 2030. Ma per il resto d’Europa che cambierebbe? «Se la seconda economia del continente entra in recessione, l’impatto non può che farsi sentire anche sugli altri Paesi», prevede Manasse. Di certo nel breve periodo si spalancherebbero le porte ai ribassisti. «Sarebbe un’ottima scusa per imbastire politiche al ribasso in Europa» da parte degli investitori, prevede Arfaras. L’azione di acquisto di bond da parte della Bce, attraverso il Quantitative Easing, dovrebbe porre al riparo i titoli di Stato e non fare impennare, in Italia, lo spread tra Btp e Bund tedeschi. Tuttavia le conseguenze si farebbero sentire fortemente sui mercati azionari. Dove, se guardiamo a Piazza Affari, i primi mesi dell’anno sono già stati funesti, soprattutto per il fragile e cruciale settore bancario.
E nel lungo periodo? Tutto dipenderà dalle conseguenze politiche sugli altri Paesi. La Brexit potrebbe rinvigorire i partiti anti-europeisti, in Francia e nei Paesi dell’Est. Qualcuno dei quali potrebbe essere tentato di seguire la via inglese.
Cina
«China, China, China». L’ossessione di Donald Trump è stata tra lo scorso luglio e lo scorso gennaio lo spauracchio delle economie mondiali, a causa delle brusche discese della Borsa di Shanghai dopo anni di crescita elevatissima. Ma in seguito abbiamo capito che le banche cinesi, almeno per ora, vedono una partecipazione molto ridotta da parte di investitori occidentali. L‘effetto sistemico non c’è stato.
La situazione cinese resta comunque di difficile lettura: da una parte ci sono i segnali positivi di una transizione in atto senza troppi scossoni da un’economia basata su investimenti pubblici ed export a una di servizi e consumi, accompagnata da una rinnovata spinta agli investimenti esteri. Dall‘altra tornano in maniera carsica le preoccupazioni su due spine cinesi: la situazione delle “shadow bank” e il rischio di una bolla immobiliare. «La verità è che non sappiamo molto della vera situazione delle banche cinesi. Sospettiamo che sia un pasticcio e che abbiano problemi di riscossione dei debiti» spiega Arfaras. «La Cina diventerà importante se, saltando il suo sistema finanziario, le aziende si trovassero costrette ad abbassare i prezzi per vendere i beni all’estero. Questo creerebbe un problema di deflazione generale nel mondo».
Paesi emergenti
In genere ce ne preoccupiamo solo per i riflessi sull’export italiano. Ma che rischi comporta il rallentamento dei Paesi emergenti, a partire da Brasile e Russia, colpiti dal calo dei prezzi delle materie prime? Il vero problema è il loro indebitamento e in particolare la loro esposizione in dollari. Per questo una politica di rialzo dei tassi da parte della Fed (la banca centrale statunitense), con il probabile aumento del valore del dollaro, aggraverebbe la situazione degli emergenti e metterebbe il mondo di fronte a un rischio sistemico. Questo, però, è noto da tempo e l’estrema prudenza e gradualità nell’aumento dei tassi da parte di Janet Yellen ha lo scopo di evitare passaggi traumatici.
Fonte: qui