«Tutte queste pippe sul ceto medio impoverito che si ribella contro la globalizzazione hanno un buco nero, però», mi dice Marco, amico da una vita e orientalista, di ritorno dal millesimo viaggio in India, che studia e frequenta da trent’anni.
E mi racconta appunto di quel Paese, che certo dalla globalizzazione ha avuto più benefici che danni: quasi un miliardo di persone liberate dalla paura di morire di fame, duecento milioni delle quali ormai con un livello di vita da borghesia occidentale, auto, vestiti, tecnologie, viaggi all’estero e tutto il resto.
Com’è che anche in un contesto del genere – arricchimento generale, non impoverimento generale – la politica vive una fase così simile a quella europea e americana, insomma perché stanno sparendo anche lí gli attori storici della democrazia (a iniziare dal Congress Party) a tutto vantaggio delle forze ipernazionaliste, tradizionaliste, ultrainduiste, sovraniste, attaccate come patelle al passato glorioso del Paese e alla sua identità religiosa? Com’è che Narendra Modi somiglia così tanto a Trump, a Salvini, a Le Pen e a Orban, e stravince un’elezione dopo l’altra proclamando l’anticosmopolitismo proprio come i suoi colleghi occidentali?
Com’è che tutto questo avviene in un Paese che tutto è stato fuori che danneggiato dalla globalizzazione?
Non ho una risposta certa, io indologo non sono e mi limito a ipotizzare che pure lì le ragioni siano tante e intrecciate, proprio come da noi. Suppongo che anche in India, come in Occidente, sia riduttivo cercare una spiegazione “monoeziologica”, insomma una sola causa.
Certo, anche lì hanno i loro “forgotten”, i tagliati fuori dall’arricchimento, a cui si aggiungono le masse di “displaced”, i contadini cacciati dalle loro terre per far posto a miniere di bauxite o fabbriche della Tata.
Ma questo non basta a spiegare il successo dell’ultrà nazionalista Modi.
Piuttosto viene da pensare che la reazione al globalismo, in India, abbia tra le sue ragioni anche alcune concause simili a quelle che hanno contribuito al successo dei nazionalismi reazionari nostrani, ai Trump e ai Salvini insomma.
Ad esempio, il disastro provocato dall’eccesso di velocità.
Non sono indologo, dicevo, ma quel Paese un po’ lo conosco e l’ho studiato anch’io, e su alcuni effetti della globalizzazione laggiù qualche anno fa scrissi un libro, seppur da semplice cronista.
E insomma ho visto come sono stati incredibilmente rapidi e tumultuosi i cambiamenti, da quelle.parti.
Anche quelli visibili a occhio nudo, paesaggistici e urbanistici. E quelli sociali, culturali, tecnologici eccetera.
Ho visto le vacche che erano sacre da millenni buttate fuori dalle metropoli perché ostacolavano il traffico.
Ho visto i McDonalds sfrattare templi indú secolari.
Ho visto Facebook sostituire la Bhagavadgītā nelle letture mattutine.
Ho visto bambine nei villaggi piu sperduti del Chhattisgarh guardare la sera lo stesso cartone animato che guarda mia figlia a Roma.
E cosí via.
E il tutto è avvenuto in vent’anni, forse meno.
Una centrifuga incontrollata, velocissima, impazzita.
L’essere umano ha per sua natura una capacità limitata di adattamento ai cambiamenti.
Il primo limite è dato dal tempo: abbiamo bisogno di un certo lasso di tempo per adattarci a ogni novità, qualsiasi novità.
Vale per il lavoro – quando cambia il capo o quando più semplicemente quando ci spostano d’ufficio; nella vita quotidiana, nelle abitudini, nel bar sotto casa che diventa un ristorante cinese, perfino quando “cambia il tempo” nel banale senso meteorologico; ancor più quando, per un lutto familiare, cambia il contesto affettivo attorno a noi.
A proposito, è noto che il terzo lutto psicologico per gravità – dopo la morte di una persona cara e la fine di una relazione sentimentale – è un trasloco. Un cambiamento quasi sempre deciso e non subíto, eppure comunque traumatico per la nostra stabilità.
Dopo un po’ di tempo però ci abituiamo anche al trasloco, restauriamo una “comfort zone” fatta di nuove abitudini, il trauma iniziale è superato.
Ma ci vuole un po’ di tempo, appunto. Un po’ di tempo per elaborare l’accaduto e mettere in funzione le nostre capacità di adattamento.
La capacità di adattamento, si sa, è la chiave della sopravvivenza. Le specie che non si adattano, si estinguono.
La migliore capacità di adattamento consiste nella resilienza, nello sfruttare ogni cambiamento – anche in negativo – per trarne un miglioramento più avanti, nel medio termine.
All’opposto della resilienza c’è la resistenza rigida e non flessibile, la negazione di quanto ormai è avvenuto, il rinchiudersi nel passato.
Eppure la reazione di resistenza e rifiuto è profondamente umana. Ed è del tutto comprensibile quando i cambiamenti sono troppo rapidi, improvvisi, tumultuosi, sconvolgenti.
Per maturare processi positivi di adattamento e di resilienza abbiamo bisogno di tempo.
Siamo umani, non software.
Siamo umani, non software. Quindi abbiamo bisogno di un po’ di tempo.
Lo racconta benissimo “Sully”, il penultimo film di Clint Eastwood.
Sully è il pilota di un aereo di linea a cui si spengono improvvisamente i motori, subito dopo il decollo. Lui atterra sul fiume Hudson, salva tutti ma lo mettono sotto indagine: i simulatori dimostrano che poteva portare l’apparecchio all’aeroporto piú vicino, se avesse virato in quella direzione appena i motori erano andati in avaria.
Ma Sully (spoiler) spiega in aula che i simulatori non sono rimasti immobilizzati venti secondi sotto shock com’era invece accaduto a lui, essere umano. E passati quei venti secondi, virare verso l’aeroporto avrebbe significato schiantarsi sulle case di New York.
La commissione allora ritarda il simulatore di quei venti secondi – beneficio concesso all’imperfezione dell’essere umano – e così scopre che aveva ragione Sully: dopo venti secondi non c’era alternativa all’Hudson.
Siamo umani, non robot, e per adattarci al cambiamento (i motori improvvisamente in avaria, in questo caso) abbiamo bisogno di tempo.
Ho finito di leggere ieri il libro di Marco Damilano su Aldo Moro. Si intitola “Un atomo di verità”. Tra le altre cose, è uno spaccato di storia contemporanea pieno di spunti per capire il presente.
Ad esempio, il valore immenso del tempo per chi fa politica. La comprensione di quando occorre velocità e quando invece riflessione, ponderatezza e quindi maggiore lentezza.
Ma attenzione: fondamentale è anche la distinzione tra l’immobilismo plumbeo e peloso dei conservatori e l’illuminata, “progressista”, necessità di far depositare le polveri per vedere meglio le cose. E per non farle precipitare.
Nel caso di Moro, ci si riferisce in particolare al suo obiettivo di una vita: superare in Italia il muro di Yalta e far incontrare le masse popolari cattoliche con quelle socialiste e comuniste. Un obiettivo che passava prima attraverso la creazione del Centrosinistra Dc-Psi poi con la visionaria ma graduale apertura al Pci di Berlinguer, ostacolatissima dagli americani (Kissinger in testa) ma anche da tanti poteri italiani, nella Chiesa, nella destra, nel padronato industriale, nei servizi, nella P2 e in Gladio, nella stessa Dc.
Il libro di Damilano contrappone l’illuminata gradualità di Moro alla famelica velocità di Berlusconi, che infatti considerava lo statista democristiano “un intralcio sulla porta” e che molto rapidamente, tre lustri dopo via Fani, avrebbe incassato i frutti politici del fallimento della Prima Repubblica, fallimento non sconnesso dalla sanguinosa interruzione del disegno di Moro.
Viene da chiedersi se la deliberata gradualità di Moro non rappresenti un modo di far politica opposto anche a quello di Renzi: che ha fatto della velocità un valore in sé, assoluto, indipendente dai suoi effetti. Così come valore assoluto e indipendente dai suoi effetti sono per Renzi il nuovo e il cambiamento, contrapposti alla palude, alla stagnazione, al vecchio.
Abbiamo visto che fine ha fatto – per umana reazione – questa totemizzazione del nuovo in sé e soprattutto questa mitizzazione della iper velocità. Una reazione di rifiuto irritato, se non furioso.
E anche nella stessa area politica il leader con più consenso è oggi il moroteo Gentiloni. Detto “er Moviola”. Quindi lento per definizione, di fronte ai turbolenti cambiamenti oggettivi intorno a noi.
Perché siamo umani, abbiamo bisogno di tempo.
Non so se dopo tutta questa lunga argomentazione, lenta anche da leggere, ho risposto un po’ alla domanda sull’India che mi poneva il mio amico orientalista.
Non so cioè se è chiaro il filo rosso che unisce Trump, Salvini, Le Pen, Orban e Narendra Modi.
Non so se sono riuscito a intravedere e proporre elementi comuni tra situazioni così lontane e diverse: il nuovo che è andato troppo in fretta, incontrollato e ingovernato; la politica che non ha voluto o saputo gestirlo, né renderlo coerente con i tempi di adattamento umani – anzi, in qualche sciagurato caso mitizzandolo e liberandolo da tutte le redini. E poi, inevitabili, le reazioni umane a tutto questo, dal Kentucky alla Bretagna, dall’Italia al Madhya Pradesh.
“La Storia ultimamente ha preso ad andare molto più in fretta di una volta”, ci insegnava all’università il grande Enrico Decleva. Lo diceva nel 1980: poi la Storia ha solo accelerato – e parecchio.
Oltre la nostra capacità di adattamento.
Serve quindi un sacco di politica – di buona, forte e saggia politica – per governare questa centrifuga impazzita.
Per liberarci dalla tenaglia di selvaggia innovazione e cieca controreazione.
Per far sì che, come il sabato di Gesú, il nuovo sia per l’uomo – e non sia l’uomo sacrificato al nuovo.
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