9 dicembre forconi: 12/27/16

martedì 27 dicembre 2016

QUALI SONO I CONTATTI ITALIANI DI ANIS AMRI? IL TERRORISTA TUNISINO AVEVA FALSI DOCUMENTI RILASCIATI DA UNA QUESTURA SICILIANA

IL NOME DI AMRI, PRIMA E DOPO LA STRAGE, TORNA IN UN’INDAGINE SU UNA RETE DI TRAFFICANTI INTERNAZIONALI DI STUPEFACENTI.


Giuliano Foschini e Massimo Pisa per la Repubblica

Un permesso di soggiorno italiano falso, esibito a un controllo nel Nord Westfalia. Contatti diretti e indiretti con un gruppo di persone sotto indagine per traffico internazionale di stupefacenti. Soldi mandati a casa per convincere il nipote ad arruolarsi nell’esercito della Jihad. Anis Amri non era un fantasma per l’Italia. La sua storia non si era esaurita nelle carceri di Catania e Palermo. Ma più passano le ore e più gli investigatori si convincono che il terrorista tunisino continuasse a essere legato con un filo all’Italia. Quello stesso filo che in queste ore si sta cercando di riannodare.
ANIS AMRIANIS AMRI

Un primo punto di partenza è il permesso di soggiorno che Amri esibisce a un normale controllo di polizia nel Nord Westfalia qualche settimana prima di piombare con un tir sul mercatino di Natale di Berlino. È un documento rilasciato da una questura siciliana e gli riconosce lo status di rifugiato.

È un falso, hanno accertato ora gli investigatori tedeschi. Sul documento c’era una foto vera e uno degli alias che Amri utilizzava per nascondere le sue vite: nell’ultimo anno e mezzo il terrorista si è trasformato in Amri Zaghloul, egiziano classe 1995, Ahmad Zarzour, libanese, Ahmed Almasri egiziano di Iskandaria o di Alessandria a seconda del documento fasullo; Mohammed Hassa, egiziano di Cafrick. Una strategia che gli ha permesso di eludere sistematicamente i controlli tedeschi, che lo conoscevano e che a novembre avevano ricevuto anche un nuovo alert dai servizi egiziani. 

Il punto però è un altro: chi formava i documenti falsi ad Amri? 

Chi gli aveva dato quel permesso falso di soggiorno siciliano?

anis amri dopo l attentato a berlino 3ANIS AMRI DOPO L ATTENTATO A BERLINO 3

Una copia del documento falso annotato in Germania dovrebbe essere in Italia nelle prossime ore. A disposizione così dell’Antiterrorismo che ha in piedi, in questo momento, almeno tre indagini sul business dei documenti falsi: una è in Sicilia. Una seconda in Puglia, attorno al Cara e al porto di Bari. E infine a Roma, base di partenza e di arrivo. È qui che si cercherà chi ha fornito i documenti falsi ad Amri. Partendo da un dato non irrilevante.


Ore 00.58, stazione Centrale: il fotogramma documenta il passaggio di Anis Amri a Milano

IL CAMION GUIDATO DA ANIS AMRI NEL MERCATO DI BERLINOIL CAMION GUIDATO DA ANIS AMRI NEL MERCATO DI BERLINO
Il nome del tunisino, prima e dopo la strage, torna in un’indagine molto delicata, condotta da una procura del centro Italia, su una rete di trafficanti internazionali di stupefacenti. Alcuni di essi hanno avuto contatti, diretti e indiretti, con il terrorista tunisino ai tempi della carcerazione. Ma evidentemente il filo non si è spezzato. Qualcuno in Italia sapeva di Berlino? Chi ha offerto al ragazzo supporto logistico ed economico? Che collegamento c’è tra la droga e il terrore?

IL CAMION GUIDATO DA ANIS AMRI NEL MERCATO DI BERLINOIL CAMION GUIDATO DA ANIS AMRI NEL MERCATO DI BERLINO
Gli investigatori italiani hanno chiesto in queste ore informazioni ai colleghi tunisini sull’arresto di tre persone legate ad Anri. Uno, in particolare: il nipote. Il ragazzo farebbe parte di una cellula terroristica e — così come raccontano alcune agenzie di stampa arabe — avrebbe comunicato via Telegram con lo zio prima della strage.

Amri gli avrebbe inviato anche denaro attraverso money transfer e fornito un’identità falsa affinché lo raggiungesse in Germania. Di tutto questo non è però stata informata la polizia italiana. Che, dalla mattina del 23 dicembre, notte e giorno, è al lavoro, con gli agenti della Digos di Milano, per ricostruire la fuga di Amri.

Ieri dalla Francia è arrivata una conferma: il ragazzo è passato da Lione prima di arrivare in Italia. Le telecamere francesi lo hanno inquadrato giovedì scorso, nella stazione Part-Dieu di Lione. Lì ha comprato in contanti un biglietto con destinazione Milano, via Chambery. Il tunisino è sceso dal Tgv a Torino dove è rimasto per tre ore per poi proseguire verso la stazione Centrale di Milano.
LA PISTOLA DI ANIS AMRILA PISTOLA DI ANIS AMRI

Qui è stato ripreso da una telecamera alla stazione Centrale, poco prima dell’una. Poi stazione ferroviaria e metropolitana di Sesto San Giovanni, alle 2.58. Sbarca da un treno in arrivo da Torino e prende un mega bus, piuttosto vecchiotto, che percorre in superficie le fermate della linea rossa della metropolitana, ferma durante la notte. Tra le due stazioni, quale percorso ha fatto?

Sinora, nessun riscontro attendibile sposta la prima ipotesi di lavoro, e cioè che il terrorista sia andato a piedi sino in piazza Lima. Resta poi un’altra domanda: perché Sesto? Qualcuno, a favore delle telecamere, ha raccontato di averlo visto, ma ogni volta che la polizia ha controllato, la segnalazione s’è rivelata fasulla. Sino a questo momento, non esistono attendibili riscontri delle presenza di Amri a Milano, nelle sue periferie, nei paesi dell’ex cintura industriale. Amri c’era. Ma sembra non esserci mai stato.

Fonte: qui

Lavoro: si cambia, per scongiurare il referendum sul Jobs Act. E sui voucher più vincoli e multe


I DISOCCUPATI PERO’ RESTANO TRE MILIONI E LA RIPRESA NON ARRIVA MAI: DA GENNAIO ADDIO ALL’INDENNITÀ DI MOBILITÀ E LA CASSA INTEGRAZIONE IN DEROGA (185 MILA PERSONE A RISCHIO)

Valentina Conte per www.repubblica.it

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Abbassare i tetti, aumentare controlli e sanzioni. Il governo è pronto a una stretta sui voucher, i ticket da dieci euro lordi nati per pagare i lavoretti, diventati dopo la liberalizzazione normativa il simbolo della nuova precarietà e della protesta contro le politiche del lavoro dell’esecutivo Renzi. I margini per intervenire non sono molti, a meno di smontare lo strumento.

Ma qualcosa si deve pur fare, ragionano a Palazzo Chigi. La ripresa non decolla, i disoccupati non schiodano da quota tre milioni, mentre i buoni lavori si impennano a 121 milioni venduti in ottobre, nuovo record. Non solo. Dal primo gennaio vanno in archivio l’indennità di mobilità, la cassa integrazione in deroga e pure la Discoll, l’ammortizzatore per i collaboratori. Reti importanti di protezione, specie la prima.

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Che la Naspi, il sussidio unico, potrebbe non soppiantare del tutto, di fronte ai licenziamenti collettivi del settore industriale. Il mercato del lavoro ha dunque bisogno di un segnale urgente. Prima che siano le urne a darlo, con i tre referendum promossi dalla Cgil (ritorno all’articolo 18, abolizione dei voucher, corresponsabilità negli appalti) e sulla cui ammissibilità si esprimerà la Corte Costituzionale.
PRECARIATOPRECARIATO

La parola d’ordine a Palazzo Chigi in queste ore è “attendere”. Aspettare cioè il primo (imminente) monitoraggio sulla tracciabilità dei ticket. E la decisione della Consulta dell’11 gennaio. Le tabelle Inps vengono giudicate essenziali per capire se l’obbligo (da ottobre) per il datore di lavoro di mandare l’sms o la mail un’ora prima di impiegare il voucherista funziona da deterrente o no. Senza il conforto di numeri calanti, il ministro del Lavoro Poletti si dice pronto a «rideterminare dal punto di vista normativo il confine del loro uso».

Ma sarà solo la pronuncia della Corte a stabilire quanto in profondità incidere. Di fronte all’ammissibilità di tutti i quesiti, la questione dei voucher sembrerà poca cosa rispetto alla possibilità che crolli l’intero Jobs Act. Ma se, come pronostica il governo, dovesse passare solo la richiesta di abolire i voucher, a quel punto una modifica sui ticket diverrebbe obbligata.

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Si vedrà come. Riportando il tetto massimo di introiti per il lavoratore a 5 mila euro (da 7 mila) o più basso. Inasprendo i controlli mirati, per stanare i datori che rimpiazzano i contratti con i buoni. Aumentando le sanzioni pecuniarie. Soluzioni tutte plausibili, ma bifronti (rischio impennata del nero) se non ben calibrate.

La fine della mobilità — prevista dalla Fornero e confermata dal Jobs Act — viene vista con allarme dai sindacati. La Uil calcola in 185 mila i lavoratori attualmente in mobilità che nel 2017 non entreranno nella lista speciale che da 25 anni consente ricollocazioni agevolate. Insieme allo strumento, spariscono infatti pure gli sconti contributivi riservati alle imprese che assumono lavoratori in mobilità. Cosa ne sarà di loro?
RENZI JOBS ACT 2RENZI JOBS ACT 2

«Riceveranno la Naspi, più generosa nella maggioranza dei casi della mobilità», assicura Stefano Sacchi, presidente Inapp, l’ex Isfol. «Le aziende poi risparmieranno sul costo del lavoro, perché non dovranno più versare lo 0,30% per la mobilità, circa 600 milioni». Ma «alle imprese a quel punto converrà licenziare sempre, così risparmiano pure sul ticket per la cassa integrazione, nel frattempo raddoppiato: è un meccanismo infernale », avverte Guglielmo Loy, segretario confederale Uil.

Ci sarebbe l’assegno di ricollocazione che scatta dopo quattro mesi di Naspi. «Le prime 30 mila lettere partiranno a gennaio», conferma Maurizio Del Conte, presidente dell’Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. «Entro il 2017 puntiamo a contattare tutti i lavoratori — circa 900 mila — con i requisiti. Le politiche attive sono l’unico modo per scongiurare impatti negativi dalla fine della mobilità ».


Sale il conto per salvare Mps La Bce: «Servono 8,8 miliardi»

Il board avvia l’iter per la ricapitalizzazione precauzionale. I dubbi della Bundesbank. 

Il Tesoro potrà revocare i vertici


Se ieri bastavano 5 miliardi dal mercato per stare a galla, oggi al Monte dei Paschi, con la ricapitalizzazione dello Stato, ne occorrono quasi 9, praticamente il doppio. A determinare il nuovo fabbisogno del Monte in 8,8 miliardi di euro è stata l’Autorità di Vigilanza europea presso la Bce, con una lettera inviata ieri sera ai vertici della banca senese.
Una missiva giunta poche ore dopo la richiesta della banca di avvalersi, dopo il fallimento dell’aumento di capitale di mercato, di quello “precauzionale” dello Stato. E che rischia di modificare i contorni dell’intera operazione messa in campo dal governo per sostenere le banche in difficoltà. Nessuno al Monte dei Paschi, che in questi giorni ha lavorato gomito a gomito con il Tesoro, si aspettava una richiesta simile.
Il governo, dopo aver stanziato 20 miliardi per l’intero sistema, dovrà investirne a Siena circa 6,5, lo sforzo massimo che aveva ipotizzato, per portare il capitale Mps agli 8,8 miliardi richiesti dalla Bce. La conversione in azioni delle obbligazioni subordinate degli investitori istituzionali (2,3 miliardi), frutterà solo 1,7 miliardi, e il Tesoro dovrà alla fine spesare il rimborso di quasi tutte le subordinate in mano ai piccoli risparmiatori (2 miliardi, ma non tutti sono stati raggirati nell’acquisto).
Il problema vero è che la Bce ha usato criteri di valutazione del fabbisogno delle banche che ottengono soldi pubblici nel quadro della direttiva sulla condivisione dei rischi (burden sharing) molto penalizzanti: per il Monte Paschi la base è sempre quella dei test sulla tenuta patrimoniale di luglio, ma il metro è quello usato in passato per le banche greche. Il che non pare un buon segnale per le banche che in difficoltà, per il sistema nel suo complesso, il mercato e le casse dello Stato.
Anche se la mossa di Francoforte non sorprenderà i banchieri e gli economisti tedeschi, che da tempo spronano la Bce al massimo rigore nel valutare i problemi delle banche italiane. «Per le misure decise dal governo italiano le banche devono essere finanziariamente sane. I fondi non possono essere usati per coprire le perdite già previste» ricordava ieri il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann(pensasse a come salvare la Deutsche Bank, la fogna a cielo aperto dei titoli tossici di tutto il mondo!!!). Le regole europee, a suo dire, «servono per tutelare i contribuenti e dare responsabilità agli investitori. I fondi statali per le banche sono l’ultima risorsa» ha aggiunto, sollecitando «un esame attento» del caso Mps.
Isabel Schnabel, componente dei Consiglio degli esperti economici del governo, è andata anche oltre. «Visti i problemi profondi del Monte, ci si può chiedere se una ricapitalizzazione precauzionale sia realmente appropriata. Le autorità - si è spinta a dire - dovrebbero verificare attentamente se la banca non debba essere liquidata gradualmente. Il denaro dei contribuenti potrebbe essere sprecato».

Il Tesoro qualche precauzione l’aveva anche presa.
Il decreto (LEGGI) fissa condizioni pesanti per l’appoggio pubblico alle banche. Lo stop ai dividendi, all’acquisto di partecipazioni, il divieto pratiche commerciali aggressive, di pubblicizzare il sostegno pubblico. Fino alla possibilità di «revoca e sostituzione» degli amministratori e del direttore generale. Anche i rimborsi ai piccoli obbligazionisti, a fronte di una transazione che riconosca la vendita illecita da parte della banca, e la rinuncia ad ogni loro altra pretesa, sono a carico della banca. Ma solo formalmente.

Fonte: qui

P.S. Nel frattempo la Consob ha stoppato le contrattazioni in borsa del titolo MPS, fino a quando non saranno integrati ed aggiornati i documenti contabili della banca dopo l'intervento di salvataggio statale.