9 dicembre forconi: 07/31/18

martedì 31 luglio 2018

L’Europa svolta a destra: così i giovani leader popolari vogliono rottamare la Merkel e prendersi tutto

Segnatevi questo nome, Pablo Casado Blanco, perché ne sentirete parlare. Avvocato, 37 anni, è il nuovo leader dei popolari spagnoli, a sorpresa, dopo aver sconfitto Soraya Sáenz de Santamaria, la candidata favorita. Segnatevelo, perché Pablo Casado Blanco non è che l’ultimo dei leader che spostano a destra il baricentro dei partiti conservatori d’Europa. Un altro, l’ennesimo, che non si alleerebbe mai più coi socialdemocratici. Un altro, l’ennesimo, che prelude all’apertura verso la fine dell’era delle grandi coalizioni. E l’inizio, più che probabile, dell’alleanza politica tra i popolari e le destre nazionaliste europee, in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

Casado rappresenta l’identikit perfetto del giovane leader popolare europeo: nazionalista, securitario, identitario nella difesa dei valori tradizionali. Come lui, c’è Matteo Salvini, che sebbene non sia (ancora?) della famiglia popolare, è ormai nei fatti l’unico leader del centrodestra italiano. C’è Sebastian Kurz, alla guida del governo austriaco grazie all’alleanza con l’ultradestra del Fpoe, la prima coalizione azzurro-nera dell’europa occidentale. C’è Laurent Wauquiez, l’uomo scelto dai Republicains francesi per contrastare Emmanuel Macron, molto duro su immigrazione, sicurezza e identità francese. C’è Kiryakos Mitsotakis il leader di Nea Demokratia che veleggia stabilmente dieci punti sopra Alexis Tsipras, attaccandolo proprio sul tema dei richiedenti asilo.
È una sfida che si rivolge soprattutto contro Angela Merkel: è lei il nemico, il totem da abbattere, per questa giovane generazione di leader conservatori. Non solo perché a essere messa in discussione è la sua eredita politica – le grandi coalizioni, le porte aperte, l’asse con Macron, una maggiore unificazione europea – , ma anche perché non c’è altro argine al loro strapotere.

Forse è ancora presto per parlare di internazionale nazionalista, del blocco politico della Fortezza Europa, destinato a presidiare le frontiere anziché abbatterle, a rimettere in discussione diritti e libertà, anziché estenderli, a legittimare le destre più destre del blocco di Visegrad, a partire da quel Vikor Orban che rappresenta il pioniere della svolta a destra dei popolari europei, un modello vincente, quasi l’ideologo della svolta autoritaria e securitaria dei suoi giovani leader. A farla finita con la stagione delle grandi coalizioni e della contrapposizione tra élite e populisti, che troverebbero sintesi in un’agenda politica securitaria e nazionalista.

È una sfida che si rivolge soprattutto contro Angela Merkel: è lei il nemico, il totem da abbattere, per questa giovane generazione di leader conservatori. Non solo perché a essere messa in discussione è la sua eredita politica – le grandi coalizioni, le porte aperte, l’asse con Macron, una maggiore unificazione europea – , ma anche perché non c’è altro argine al loro strapotere. Non lo sono i socialdemocratici di sicuro, in crisi d’identità, quasi ovunque all’opposizione, o al governo da posizioni di minoranza come in Spagna. E non può esserlo Emmanuel Macron, in difficoltà a casa propria e senza alcun alleato o sponda europea da contrapporre al blocco conservatore.

È una sfida che ha spettatori più che interessati. L’America di Trump, ovviamente, ben contenta che in Europa si affermi un’agenda politica simile alla sua, che il progetto di maggior integrazione (soprattutto militare) venga ucciso in culla, e che la vittoria delle giovani destre europee levi la leadership popolare alla sua acerrima nemica, e l’egemonia europea alla Germania, che con la sua forza sui mercati esteri crea non pochi problemi all’economia americana. E la Russia di Vladimir Putin, che non vede l’ora che il destino europeo finisca nelle mani di leader amici come Salvini, Orban e Kurz.

L’ultima sfida dell’eterna cancelliera, insomma, sarà la più difficile e cruciale della sua carriera: se tra poco meno di un anno Merkel riuscirà a resistere a casa propria e a imporre ai suoi alleati di partito un’alleanza centrista, coi socialisti e con un futuribile blocco liberal-democratico guidato da Macron, probabilmente l’Unione Europa riuscirà a proseguire nel suo cammino di progressiva integrazione. Anzi, scommettiamo noi, finirà per accelerarlo. Se invece vinceranno loro, i giovani leoni popolari, sarà tutta un’altra storia. La battaglia è cominciata. E non è cominciata bene.

FMi: Le ricette "riciclate" che portano l'Italia al destino greco

Dal Fondo monetario arrivano nuovi allarmi sull'Italia, conditi dal soliti refrain sul cosa bisognerebbe fare: quel che ha ridotto a pezzi la Grecia. 

Ormai è difficile capire se tra i giudizi che il Fondo monetario internazionale pronuncia sull'economia di questo o di quello Stato e il comportamento dei mercati rispetto ai titoli pubblici emessi da quello stesso Stato ci sia un nesso di causalità o di casualità. La faccenda non riguarda il posto ottimale dove collocare la "u", ma il senso degli interventi di questa strana istituzione, galleggiante a mezz'acqua tra l'Onu e la Spectre, tra il monatto e la crocerossa, tra l'incendiario e il pompiere.
Negli ultimi, infuocati otto-dieci anni vari Paesi del mondo, innanzitutto la Grecia, sono passati attraverso questo Scilla-e-Cariddi della politica economica internazionale. Cominciano la Commissione europea, o appunto il Fondo monetario; prosegue un'agenzia di rating, declassando di un gradino o due il giudizio sul debito di uno Stato; i mercati bersagliano quei titoli e fanno salire lo spread; lo Stato preso di mira fa qualche annuncio chiedendo scusa, e se va bene - alla fin fine è andata finora sempre bene a tutti, salvo che alla Grecia - lo spread si riequilibria e la situazione continua ad andare avanti come prima, salvo che la corda cui è legata la spada di Damocle dei mercati, pendente sulla testa dello Stato sotto accusa, si fa sempre più sottile.
Questo schema ha espulso la Grecia dall'ambito delle regole comuni dell'Eurozona dieci anni fa, l'ha posta sotto la stretta gestione commissariale della cosiddetta Troika, cioè appunto Fondo monetario, Commissione europea e Banca mondiale, e l'ha restituita poche settimane fa al novero dei Paesi cosiddetti sani con un debito pubblico al 180%, cioè quasi il 50% peggio di quello italiano, il patrimonio nazionale assottigliato fino alla trasparenza a favore di cessionari quasi sempre tedeschi (basti pensare ai 23 aeroporti passati di mano) e un quadro macroeconomico a dir poco debilitato. Paradosso dei paradossi, senza che tutto questo abbia scalfito di un millimetro la posizione di relativo potere del premier Tsipras, che era stato eletto proprio perché combattesse contro questo scenario che ha invece lasciato attuare, godendone.
Non che queste considerazioni siano "indispensabili" dopo l'ennesimo giudizio pronunciato ieri dal Fondo monetario sull'Italia, ma oggettivamente - come dire - verrebbero in mente a tutti. Ecco cosa scrive, nel suo rapporto sugli "Squilibri esterni" globali, l'istituzione che vide l'ex candidato premier Carlo Cottarelli in una posizione-chiave: "L'Italia resta vulnerabile alla volatilità del mercato". Ma guarda, vien da dire. E poi: "Questa debolezza è legata alle grandi esigenze di rifinanziamento del debito sovrano e bancario e alle condizioni di credito potenzialmente restrittive, dovute allo stock ancora elevato di Npl nel settore bancario". Hai capito?! E chi ci sarebbe mai arrivato, a conclusioni così sottili e sorprendenti? 
Ne consegue che il nostro Paese deve proseguire lungo la strada del risanamento dei conti e della riduzione delle sofferenze bancarie per migliorare la propria competitività. E dunque? Qui c'è la zampata conclusiva: "Le incertezze politiche in Italia hanno indebolito ulteriormente l'euro, aggravando i precedenti trend" sostiene il Fondo, bastonando preventivamente - ovvero, solo sulla base delle loro peraltro sconclusionate esternazioni - i nuovi governanti giallo-verdi. Per cui, "nelle economie indebitate dell'Eurozona (Italia, Francia, Spagna) un consolidamento di bilancio non negativo per la crescita resta indispensabile per favorire un processo di svalutazione interna e rafforzare l'esposizione con l'estero".
Ora, otto anni di austerity hanno dimostrato che parlare di "un consolidamento di bilancio non negativo per la crescita" è come parlare di "dieta dimagrante non negativa per il grasso": un ossimoro. Ma è quel che prescriverebbero i dottori del Fondo. Diciamo la verità: la sensazione è che - come capita anche nei giornali - ci siano perfino negli uffici d Washington quei giorni in cui a qualcuno tocca di dover riempire degli spazi bianchi e di non avere idee nuove per farlo come si deve. Finisce che ricicla quelle vecchie. Ma poiché, dall'esterno, nessuno osa immaginare che quei verdetti, quei pensieri, altro non siano che l'effetto semiautomatico di meccanismi burocratico-istituzionali privi di sostanza, eccoci in tanti a strologare sul percome e sul perché proprio adesso queste parole, questi moniti, questi allarmi. 
Tranquilli, non è cambiato niente. Siamo alle solite: l'Italia stia nel riformatorio a fare i compiti dei ripetenti. Vent'anni fa venne messa lì dalla gestione Andreatta-Prodi-Ciampi, convinta che un Paese ingovernabile, percorso da irredimibili scorrerie di interessi "particulari", potesse essere ricondotto alla disciplina economica e in fondo civica soltanto da un fortissimo "vincolo esterno", quello rappresentato dall'ingresso nella fase uno dell'euro, con quel tasso di cambio e con quei parametri economici. Ciò che è successo da allora è solo la conseguenza di quest'impostazione tutt'altro che "montessoriana". L'Italia ripetente, l'Italia teppista ha continuato a esserlo, è rimasta nel riformatorio e non accenna a poterne uscire. Periodicamente, qualcuno della mitica Troika, coadiuvato dalle solite agenzie di rating, s'incarica di ricordarcelo.

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Continua il boom di credito alle banche ombra

Le ultime statistiche bancarie pubblicate dalla Bis confermano il trend di ripresa dei prestiti bancari internazionali che già aveva fatto capolino dalla seconda metà del 2017, segnando un aumento di 451 miliardi a marzo 2018 rispetto a fine 2017. Complessivamente i prestiti transnazionali, nello stesso mese, hanno raggiunto quota 30 trilioni, il 2% in più su base annua. Ma le tendenze più interessanti sono quelle meno evidenti. In particolare si registra non solo la ripresa dei prestiti alle economie emergenti (+7% ne confronto fra marzo 2018 e marzo 2017), con la Cina a far la parte del leone, ma soprattutto il boom creditizio a favore del cosiddetto shadow banking, ossia gli intermediari non bancari come fondi di investimento, hedge fund, special purpose vehicles, eccetera. I prestiti sono cresciuti dell’8% su base annua.
Questo incremento è tanto più rilevante in quanto conferma una tendenza che risale al 2016 e che non accenna a diminuire. Solo da fine 2017 a marzo 2018 i prestiti alle banche ombra sono aumentati di 214 miliardi, totalizzando 5,8 trilioni di esposizione complessiva. L’incremento nell’ultimo trimestre censito si è concentrato in poche economie, e segnatamente quella Usa, dove sono affluiti 60 miliardi, seguita dal Giappone (41 miliardi), l’Irlanda (27 miliardi) e il Lussemburgo (25 miliardi). Gran parte di questi prestiti sono denominati in dollari, ma sono cresciti anche quelli denominati in euro, sterline e yen.
Un’altra osservazione interessante si può ricavare notando come il credito transazionale cresca ovunque tranne che nell’eurozona, che anzi ha contratto i suoi crediti esteri di circa il 4% su base annua replicando il trend declinante del 2017.
Fra i paesi avanzati primeggiano le banche giapponesi, che hanno aumentato i loro prestiti dell’8% su base annua, a fronte dell’aumento del 4% delle banche Usa. L’aumento dell’attività bancarie è stato trainato in piccola parte anche dai prestiti al settore non finanziario, in particolare ai governi, con una crescita del credito a questo settore di circa il 3% nell’anno finito a marzo 2018. La ripresa dei prestiti ai paesi emergenti è dovuta in gran parte alla Cina, che ha assorbito la metà delle risorse finite in Asia nel primo trimestre 2018, mentre in America Latina la parte del leone l’ha fatto il Brasile, che ha assorbito 11 miliardi.
Cina, Brasile e shadow banking, in sostanza, trainano la ripresa dei prestiti transnazionali. Se la fiducia bancaria sia ben risposta è un’altra storia.
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USA: le previsioni sul debito governativo sono sorprendenti



Metti un paese che ha usato la politica monetaria all’ennesima potenza per finanziare la crescita.
Metti che poi lo stesso paese, finita l’onda d’urto (e il ciclo) della politica monetaria, utilizza la leva della politica fiscale.
Poi quando anche queste cartucce sono esaurite, inizia ad utilizzare il debito per finanziare la crescita e colmare quelle lacune (e quelle crepe) che iniziano a venire fuori. Magari causate anche dal protezionismo che si rivela, col tempo, come un vero boomerang.
Ed ecco che progressivamente ci si ritrova con un nuovo Giappone.

Debito federale USA: proiezioni ufficiali

Scenario possibile? Certo è che se dovesse avvenire, in uno scenario di debt deflation, ci potremmo trovare con la necessità di avere, quantomeno nei paesi più indebitati, di un’inflazione molto bassa e quindi tassi sempre piatti. Altrimenti il giocattolino non regge più e salta tutto.
Sicuri che tutto continui ad andare come il sistema vuole e che non succeda nulla che faccia deragliare il sistema?
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Il nuovo governo e l’intrigo dei problemi

Come nella Talpa di Le Carrè, ancora non si sa chi sia l’autore del codicillo che afferma che il decreto dignità porterà alla perdita di 80.000 posti di lavoro in dieci anni. Dopo che i sospetti si erano accentrati sul ministro Tria, che con quella sua aria da ragionier Filini, rappresenta perfettamente il profilo della spia della porta accanto, alla fine è stato arrestato Tito Boeri ,Presidente ancora per poco, dell’Inps, perfetto esempio del rivoluzionario da salotto. Nel 68, si narra, che a chi telefonasse a casa Boeri per avere notizia dei due rampolli, l’economista ed il fratello noto architetto, il maggiordomo rispondesse che i signorini erano scesi a fare la rivoluzione. 

Tito del rivoluzionario ha anche il vestito e la capigliatura, ma troppo perfetto nel ruolo, come in tutti i gialli che si rispettino il colpevole dev’ essere un altro. Magari il pirla che non ha letto la relazione scritta dall’Inps e lasciata scivolare dagli esperti uomini di Tria, grandi giocolieri di codicilli e diritto, palleggiatori, rispetto ai ruvidi giocatori penta leghisti. 

Non a caso il direttore del tesoro si chiama Rivera e dubitiamo che la sottosegretaria grllina, Laura Castelli, possa asfaltarli, come pare abbia dichiarato. Per ora resta a bordo campo senza deleghe, appunto, catramata, se non ancora asfaltata. 

Chi arriva al potere dopo anni di dominio assoluto della sinistra, deve sapere che non sarà accolto a braccia aperte da un apparato plasmato dai suoi predecessori, cosa già vista a Roma, dove si sono dovuti importare dirigenti da tutta l’Italia, non sempre con esiti felici, come nel caso Lanzalone

Premesso che  credo che l’attuale governo possa essere per il Paese un’ opportunità di cambiamento, resta il fatto che la ricreazione è finita e i problemi vanno risolti. 

Pur dando un voto positivo alla gestione del problema immigratorio, i numeri erano già scesi, ma si è evitato, per ora, che riprendessero a salire e si è posto il tema al centro del dibattito europeo. Diamo un voto positivo pure alla tornata di nomine fatte e pure future, chiunque venga nominato andrà meglio dei predecessori, non perché più bravo, ma perché romperà con un sistema di potere che ha fatto molti danni. 

Detto questo, occorre dire che il decreto dignità pur giusto , gli imprenditori italiani non possono pensare di competere solo tagliando salari e diritti ai lavoratori, deve essere scritto meglio: via le causali fino a 24 mesi, dentro vaucher, riduzione del costo del tempo indeterminato

Poi L’Ilva va venduta a Mittal e Alitalia va semplicemente venduta. L’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, dove la meccanica ha un grande ruolo, non può pensare di chiudere la più grande acciaieria d’Europa. Pensiamo di produrre i motori della motor valley emiliana con il prosciutto? 

La compagnia di bandiera è stata a lungo una mangiatoia dei partiti: un mucchio di assunzioni, contratti assurdi, privilegi scandalosi, produttività ridicola, gli italiani hanno già pagato troppo. Si può vivere senza Alitalia, a differenza di Ilva. 

Per rompere con il turbocapitalismo renziano, non è necessario precipitare nello statalismo. Infine attenti ad ascoltare il professor Tria, alias ragionier Filini, anche e soprattutto se è la “spia” di Draghi, con i conti non si scherza, devono quadrare e se il conte Gentiloni li ha lasciati fragili, non è una scusa per non farli tornare. 

Con i mercati non si scherza, saranno pure cattivi, avranno un algoritmo al posto del cuore, ma se decidono di fotterti lo fanno, anche perché siamo pieni di debiti e non li abbiamo neppure denunciati tutti. Il nuovo governo, più che dall’Intrigo Internazionale deve guardarsi dall’intrigo dei problemi. Twittare meno e lavorare molto per modernizzare il Paese, avere l’astuzia della volpe e il coraggio del leone, capendo bene quando è ora di essere l’uno o l’altro. Certo i Draghi esistono, ma non sempre vogliono il tuo male, però tendono a bruciare gli apprendisti stregoni, specie quando pensano di essere volpe e leone, senza sapere che hanno invece la forza di una volpe e l’astuzia di un leone.

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Le verità scomode su Marchionne (e sui mercati)

Sergio Marchionne è stato abile a cercare sussidi per le auto laddove si era disposti a darli: negli Usa dei crediti subprime per comprarsi la macchina. 
Sergio Marchionne (Lapresse)

Sergio Marchionne (Lapresse)


Mi scuserete se non mi unisco al coro apologetico per Sergio Marchionne, di fronte alla cui situazione personale e di salute tolgo il cappello come farei con chiunque combatta la battaglia più dura. Manager come operaio, avendo io stesso da poco passato un periodo non facile in ospedale. Non lo faccio per alcune ragioni, prima della quale non vorrei turbare la linea di consenso che accompagna in maniera quasi taumaturgica, quando non parossisticamente macchiettistica, la figura dell'ex amministratore delegato di Fca, quasi fosse stato l'unico industriale illuminato che questo Paese abbia mai concepito. Chi erano, infatti, chessò, Mattei od Olivetti, di fronte al genio italo-canadese? 
Lascio pure a voi decidere se sia io un iconoclasta irrispettoso o piuttosto un ipocrita agiografo chi sembra scordarsi non tanto delle condizioni disperate in cui Marchionne ha preso Fiat (nessuno se la prende con il chirurgo, se il paziente arriva ormai più morto che vivo sul tavolo operatorio, non ce la fa), quanto di quelle di stra-favore che Fiat ha trovato Oltreoceano: Marchionne ha solamente esportato il modello storico del fare industria del Lingotto (privatizzare gli utili e socializzare le perdite, prima grazie agli ammortizzatori sociali e poi con il ricorso strutturale a incentivi di Stato) al di là dell'Atlantico, poiché in Italia non c'era più trippa per gatti, come Mario Monti fece chiaramente capire a Fiat, una volta giunto a Palazzo Chigi e quando la cavalcata Usa del gigante torinese era già iniziata e in rampa definitiva di lancio strutturale. 
Marchionne fu un genio sì, ma del marketing, in quel caso: primo, perché intuì come Barack Obama fosse invece pronto a stanziamenti miliardari - in nome del tanto declamato libero mercato statunitense e delle conseguenti, idiote normative europee sugli aiuti di Stato - pur di salvare Detroit e, secondo, perché trasformò la debolezza in forza, intervenendo per primo nel dibattito rispetto proprio agli aiuti di Stato, dicendo che «Fiat non chiedeva e non voleva niente». Per forza, non c'era più niente che il governo fosse disposto e nelle disponibilità di dare e, comunque, il Lingotto aveva già la carta di riserva pronta, tanto da diventare la sua core choice: diventare americana, fondere due debolezze, due aziende sull'orlo del fallimento, Fiat e Chrysler e sfruttare al massimo gli incentivi del governo e la propensione del mercato automobilistico Usa all'indebitamento allegro tramite il credito al consumo, anche e spesso subprime
Potrà sembrare impietoso, ma è la realtà. Ciò che è scandaloso è il silenzio generale al riguardo, quando con quattro grafici potrei smontare le agiografie in onda a reti e quotidiani unificati da 72 ore. Ma si sa, questo è un Paese strano. Un Paese in cui, incredibile ma vero, gli indici di ascolto televisivi e i dati di vendita di certi settimanali pruriginosi al limite del pornografico ci confermano come la mitologica "gente" abbia come principale passatempo osservare le vite degli altri dal buco della serratura della morbosità, ma che, quando sul letto di ospedale si trova il potente di turno, sfodera di colpo stomaci delicatissimi in fatto di rispetto e tutela della privacy. Si chiama ipocrisia e dovrebbe essere inserita in Costituzione, altro che il Fiscal compact. Chi ha criticato la prima pagina del Manifesto di domenica, oggettivamente urticante (ma non eravate tutti Charlie Hebdo, a proposito?), spesso lo ha fatto con in mano Diva e donna e in attesa di Chi l'ha visto? o di Barbara D'Urso. Quindi, per favore, almeno evitiamo di unire il danno della morale alla beffa dell'ipocrisia. 
E poi, scusate ma perché tanto interesse? In punta di diritto e di fatturato, Fca è un'azienda americana con sedi legali e fiscali a Londra e Amsterdam che crea posti di lavoro in America, come ha testimoniato la riconoscenza pubblica verso Marchionne di Barack Obama prima e Donald Trump poi, il quale lo ha definito in un tweet «il mio migliore amico» all'interno dell'industria automobilistica. Non vedo tutte queste beatificazioni laiche sulla stampa statunitense, britannica oppure olandese: eppure, Fca riguarda più loro che l'Italia, oramai. Ma la prova del nome non tarderà a venire. L'unico, reale interesse di Fca rimasto in Italia è a Melfi, dove si produrrà la Jeep. E, guarda caso, il nuovo amministratore delegato del gruppo è proprio quello che possiamo definire Mr. Jeep, Mike Manley. Punterà su Melfi oppure cederà alle sirene della Casa Bianca, la quale sta facendo più di una pressione perché la produzione di Jeep torni negli stabilimenti d'Oltreoceano, tanto per poter attaccare al muro dell'America great again un'altra testa d'alce, in vista delle elezioni di medio termine dell'autunno? 
Lo so, sono cose spiacevoli da sentire. Ma sono la verità. Piaccia o meno. Si può nasconderla, ma non si può negarla, per quanto ci si sforzi facendo appello alla pietà umana e altre categorie degne di miglior causa. E poi, accipicchia, nessuno che si faccia una domanda: come mai l'intera galassia Fiat ieri è crollata in Borsa, a inizio contrattazioni, quando addirittura il titolo Fca non riusciva a fare prezzo, salvo rientrare a quasi -5%? La logica ci dice due cose: primo, il nuovo management non convince gli investitori. Quindi, a Fca non sanno scegliere i manager, dote non proprio di cui andare fieri, se ci si vende come imprenditori globali. Secondo, il mercato ritiene che Marchionne garantisse un plus, il quid in più, per dirla alla Berlusconi. Quale, la genialità nel progettare nuovi modelli? La capacità nel gestire le relazioni sindacali? O, forse, il combinato congiunto di essere stato il più bravo a gestire i rapporti con la politica d'Oltreoceano nel periodo delle vacche grasse delle sovvenzioni statali e quello, più spiacevole, del fatto che la crisi finanziaria in arrivo - come testimoniato anche dal documento congiunto uscito dal G-20 dello scorso weekend - colpirà più duramente e per primi proprio i comparti più sensibili, ovvero quelli più esposti alla bolla e al leverage (vedi i tecnologici) e quelli più disfunzionali ma tenuti in vita da politiche espansive e monetariste delinquenziali? 
E qui entriamo nel merito del manager Marchionne, il quale dovrebbe avere come dote principale quella della programmazione, del saper guardare oltre, guardare al futuro. Alcide De Gasperi disse che uno statista è quello che pensa alla prossima generazione, non all'oggi o al domani: vale anche per le aziende. Anzi, in un mercato di competizione globale e sempre più spietata, vale ancora di più. E qual è il mercato automobilistico del futuro, a detta di tutti gli analisti e in base anche al piano di cambiamento della società - da esportatrice a fruitrici di servizi e consumi interni - presentato da Xi Jinping? La Cina. Qualcuno parla ancora anche di India, ma il combinato congiunto di crisi bancaria legata agli Npl delle banche a controllo statale e peggior siccità di sempre attesa nei prossimi mesi, picchieranno pesantemente sulle prospettive di crescita di Nuova Delhi, così come l'incauta scelta di fare affari proprio con Pechino bypassando il dollaro e utilizzando yuan sta già mettendo sotto pressione la rupia e le riserve della Banca centrale (a Wall Street sono indipendenti dalla politica, si sa). 
Bene, guardate questo grafico: vi pare che Fca sia posizionata bene nel mercato del futuro? E vi garantisco, non è nemmeno subito dopo l'ultima azienda presenta nell'infografica. Che management è stato, quindi, quello che si è disinteressato completamento delle quote di mercato da acquisire per il core business dei prossimi anni? Bravo? Illuminato e geniale come ci dicono i giornali in coro, Manifesto a parte? Oppure un management che ha pensato soltanto a massimizzare i profitti sfruttando l'onda lunga del momento, leggi il boom del settore automobilistico Usa garantito da incentivi statali e credito al consumo come se non ci fosse un domani e a condizioni stracciate? Ditemi voi. 
 
Cari lettori, proprio voi mi siete buoni testimoni: quante volte e in tempi non sospetti, ho denunciato da queste pagine il fatto che il mercato automobilistico americano fosse completamente drogato da credito al consumo e incentivi statali? In parte, molto minore, anche quello europee, visto che le finanziarie delle case automobilistiche partecipavano alle aste Ltro della Bce, manco fossero degli istituti di credito. Quante volte ho portato le prove del perverso sistema di boom&bust, tipico della teoria dei cicli della Scuola austriaca, in atto in quel comparto, a causa proprio dell'infinita politica espansiva della Fed (e delle altre Banche centrali)? Ovvero, sovra-produzione che poi avrebbe creato un eccesso di offerta, la quale - come era ovvio - si è poi sostanziata o nell'esplosione di una fenomeno subprime 2.0, con credito al consumo verso cani e porci, a prescindere dal rating di credito e cartolarizzazione di massa di quei prestiti da parte di finanziarie senza scrupoli e grandi gruppi bancari che le foraggiano o in piazzole piene di auto invendute, tanto che la vendita e l'affitto di quel tipo di aree è uno dei business più caldi del mercato real estate in Stati come la California. Signori, è la realtà. Per quanto la si voglia scacciare, utilizzando la prima pagina del Manifesto come scusa per pulirsi la coscienza. 
E sapete cosa sta succedendo d'altro in questi giorni e ore, proprio legato al contesto generale di omissione interessata di certe notizie in cui si è andata a inserire, suo malgrado, la drammatica vicenda personale di Sergio Marchionne e di cui vi ho appena parlato? Ve lo spiegano questi grafici, dai quali desumiamo principalmente tre concetti. Primo, anche quest'anno - anzi, quest'anno più che mai - i mitologici rialzi azionari che avrebbero dovuto essere la conferma della strutturalità della ripresa globale in atto saranno garantiti unicamente da buybacks azionari, figli legittimi delle emissioni obbligazionarie di massa garantite dalle Banche centrali. 
 
Secondo, in cima alla lista di quei buybacks ci sono i titoli del comparto tech - le altrettanto mitiche Faang - e i finanziari. Terzo e più importante, gli insiders - ovvero chi lavora dentro le aziende in questione - sta vendendo i titoli di cui è in possesso come non ci fosse un domani al parco buoi, tra cui molti fondi pensione che conosceranno presto la parola default. Mi chiedo e vi chiedo, se un dipendente o dirigente di un'azienda che sta di fatto trainando il mercato ormai da trimestri, scarica i titoli che ha in portafoglio - frutto di bonus, stock options, premi e integrativi - è solo perché risponde alla vecchia regola dei "vendi sui massimi" o perché sa che la bolla sta per esplodere? 
Perché nel primo caso, saremmo di fronte o a degli irresponsabili o a dei Rambo, a livello di coraggio, visto che hanno atteso contro ogni previsione che quei titoli sfondassero sempre di più ogni possibile record, trainando con loro nella cavalcata gli indici di riferimento. Ma come, Donald Trump e mezza stampa continuano a dire che le Borse e l'economia vanno bene, anzi che non sono mai andati meglio (mentre una fetta sempre meno esigua comincia a mettere le mani avanti) e questi vendono tutto, nemmeno fossero Lehman Brothers nel weekend del 15 settembre 2008? Sospetto, vero? Eppure, la stampa non ve lo dice. 
Come non vi dice quanto vi ho detto io rispetto a Marchionne e la sua gestione di Fca: nel primo caso, tutto è bello, i cieli sono blu e pieni di unicorni. Nel secondo, abbiamo solo agiografie acritiche e patetiche colate di melassa rispetto al ricordo personale che ogni grande firma del giornalismo italiano ha di lui, chi ci ha fatto merenda con pane e Nutella e chi ci ammirato un tramonto, simbolo di quella classe media che, se sparisce, porterà con sé anche l'acquirente medio della Panda. Roba da voltastomaco. Eppure, ormai dovrei esserci abituato. E voi? 

Fonte: qui

PETROLIO in backwardation. Preannuncia un rallentamento economico?


Fino a qualche anno fa, il petrolio era un vero “faro” per l’analisi intermarket (ulteriore segno di come i tempi siano cambiati, complice anche una politica monetaria molto, forse troppo accomodante). Infatti era normale studiare l’andamento dell’oro nero per poter capire, guardando anche la curva future, le previsioni sui prezzi, sulla domanda dello stesso e quindi sull’andamento della crescita economica.
Ma oggi, con un mondo teoricamente più votato all’energia pulita, ha ancora senso guardare al petrolio come cartina tornasole della crescita? Non dimentichiamo che soprattutto nei paesi emergenti, il consumo di materie prime energetiche continua ad essere molto importante. Partiamo dal grafico del WTI. E’ innanzitutto chiarissima la tendenza dello stesso.

Grafico WTI

Grafico petrolio WTI by TradingView
E’ evidente che è fondamentale quota 67,50 $. Ma a prescindere da questo livello, guardate questo altro grafico.

Backwardation per i prezzi future BRENT

Potete notare due cose.
  • Innanzitutto che la curva dei prezzi future è in backwardation. In altre parole, a termine il petrolio costa meno che a pronti.
  • Inoltre tale divario di prezzo aumenta proprio nelle ultime settimane. Un segnale che potrebbe anticipare un prossimo indebolimento MA attenzione, usiamo sempre il grafico come fonte principale per la tendenza. La curva in backwardation serve però da monito per il medio periodo.
Fonte: qui

L’ASTA SUPPLEMENTARE DEI BOT SEMESTRALI È UN FLOP: GLI OPERATORI INTERNAZIONALI DANNO BUCA AI TITOLI DI STATO ITALIANI CHE TRA QUALCHE MESE POTREBBERO SOFFIRE PER LO SPREAD...

Gian Maria De Francesco per “il Giornale”

giovanni triaGIOVANNI TRIA
I mercati ieri hanno dato un altro piccolo segnale negativo all' Italia. L' asta di Bot semestrali riservata agli operatori specialisti è stata caratterizzata da richieste inferiori all' offerta. In particolare, sono stati aggiudicati solo il 75% dei 600 milioni messi a disposizione, cioè 450 milioni.

Considerato che nell' elenco specialisti del Tesoro ci sono solo tre istituti italiani (Banca Imi del gruppo Intesa Sanpaolo, Unicredit e Monte Paschi) generalmente «sensibili» ai titoli di Stato, è lecito ipotizzare che le defezioni siano arrivate dagli altri 14 operatori internazionali tra i quali, dal 2 luglio, non figura più Ubs, ma che comprendono, tra gli altri, Deutsche Bank, Goldman Sachs e Citigroup.

DI MAIO CONTE GIORGETTIDI MAIO CONTE GIORGETTI
Dato il carattere di asta supplementare e il quantitativo esiguo non è il caso di drammatizzare oltre misura, tuttavia è bene notare come l' indicazione precisa che ne deriva è come le scadenze di brevissimo termine siano giudicate peggio rispetto a quelle più lunghe.

L' asta ordinaria dei Btp decennali ha visto un miglioramento delle richieste (1,42 volte l' offerta dall' 1,26 di giugno), ma i 4 miliardi sono stati prezzati con un rendimento del 2,87% (+10 punti base su giugno), valore a cui grosso modo si sono allineati tutti i titoli corrispondenti sul secondario (lo spread ieri ha chiuso vicino quota 235, in lieve ribasso).
conte e triaCONTE E TRIA
Il messaggio che ne deriva è molto semplice: il governo deve usare moderazione nella stesura della legge di Bilancio.

conte salvini di maioCONTE SALVINI DI MAIO








I continui richiami del ministro Luigi Di Maio alla necessità di introdurre reddito di cittadinanza, dual tax e superamento della legge Fornero in manovra preoccupano. Lo scarso appeal dei Bot semestrali si può spiegare anche in questo modo: potrebbe essere inutile investire in un titolo che fra qualche mese potrebbe soffrire moltissimo in caso di impennate dello spread causate dagli annunci sconsiderati del governo.
GIOVANNI TRIAGIOVANNI TRIA

Insomma, è come se le grandi banche internazionali sapessero con certezza quello che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha preconizzato. «Se già sappiamo che tra fine agosto e inizio settembre i mercati si metteranno a bombardare, facciamoci trovare pronti», avrebbe detto suggerendo prudenza ai propri interlocutori.
giancarlo giorgettiGIANCARLO GIORGETTI






«Basterebbe però ricordare alla maggioranza che la bufera finanziaria in arrivo non è inevitabile, ma prodotta dall' improntitudine di questo governo», ha commentato ieri Renato Brunetta (Fi) rivolgendosi direttamente a Giorgetti.

Certo, se Di Maio si mette a esternare a tutte le ore, sarà ben difficile convincere i mercati che il ministro dell' Economia, Giovanni Tria, sia in grado di tenere i conti sotto controllo. Tanto più che le sue dichiarazioni sono spesso viste con sospetto dai due vicepremier.
PAOLO SAVONA GIANCARLO GIORGETTI GIUSEPPE CONTE MATTEO SALVINIPAOLO SAVONA GIANCARLO GIORGETTI GIUSEPPE CONTE MATTEO SALVINI

«La Finanziaria deve tener conto dello stato dell' economia, in modo da non innescare una politica prociclica», ha detto la scorsa settimana promettendo flessibilità. Il problema è che il conto della manovra tra clausole di salvaguardia, spese indifferibili e spread parte da 25 miliardi. Largheggiare non si può.

Fonte: qui

SE VI FRATTURATE UNA GAMBA IN CALABRIA VI INGESSANO COL CARTONE!

QUESTE FOTO NON ARRIVANO DAL CONGO MA DAL PRONTO SOCCORSO DI REGGIO CALABRIA

IL PRIMARIO FA FINTA DI NIENTE: “HANNO DECISO DI BLOCCARE L’ARTO CON IL CARTONE PER EVITARE COMPLICAZIONI” 

COME È POSSIBILE CHE NEL 2018 MANCHINO LE “CLIP” PER IMMOBILIZZARE GLI ARTI INFORTUNATI?

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera”

reggio calabria fratture immobilizzate con il cartone 4REGGIO CALABRIA FRATTURE IMMOBILIZZATE CON IL CARTONE
Al pronto soccorso l' hanno valutata da codice giallo. Alla signora che sabato mattina alle 9.32 è arrivata all' ospedale metropolitano di Reggio Calabria con una frattura scomposta di tibia e perone i medici, prima di trasportala in radiologia, le hanno fasciato l' arto con del cartone.

Il caso ha suscitato un notevole clamore perché qualcuno ha fotografato la scena e ha inviato le foto al «Corriere della Calabria», che le ha diffuse sul sito. Gian Luigi Scaffidi, segretario aziendale del sindacato Anaao-Assomed dice: «Quello che è accaduto assomiglia ad un ospedale da terzo mondo».

ospedale reggio calabriaOSPEDALE REGGIO CALABRIA




E chiama in causa il primario del Pronto Soccorso Angelo Ianni. Il medico, un passato al San' Andrea di Roma, ammette l' esistenza del caso e sostiene: «Io non c' ero quel giorno, però posso immaginare che il medico che ha visitato la paziente ha deciso di bloccarle l' arto con il cartone per evitare complicazioni ancora più gravi».
reggio calabria fratture immobilizzate con il cartone 2REGGIO CALABRIA FRATTURE IMMOBILIZZATE CON IL CARTONE






E alla domanda del perché di quella decisione e se quello fosse l' unico caso a sua conoscenza, risponde: «Io non ho mai ricevuto segnalazioni di altri episodi simili, questo è l' unico caso di cui ho contezza. In ogni modo chiederò una relazione al medico per chiarire la dinamica dei fatti».

E precisa: «È vero, al Pronto Soccorso mancavano le clip che si usano per immobilizzare gli arti infortunati, io ho fatto richiesta con lettera protocollata già nel mese di marzo. E questo potrebbe aver costretto il medico di turno a prendere la decisione di immobilizzare l' arto con la prima cosa utile che gli è capitata, proprio per evitare che l' osso, fuoriuscito dalla sua sede naturale, potesse bucare qualche arteria. Solo una pura emergenza».

lorenzin in visita agli ospedali riuniti di reggio calabria con angelo ianniLORENZIN IN VISITA AGLI OSPEDALI RIUNITI DI REGGIO CALABRIA CON ANGELO IANNI


Il direttore generale dell' azienda sanitaria reggina Frank Benedetto parla di un «fatto gravissimo» perché la mancanza di clip non giustifica l' accaduto. «Il reparto di Ortopedia è pieno di stecche per immobilizzare gli arti infortunati: non capisco perché si sia utilizzato questo metodo per bloccare l' arto della paziente» dichiara il manager.

Ancora Ianni: «Non c' è stata nessuna sottovalutazione del caso. La paziente è arrivata al pronto soccorso alle 9.32, tre minuti dopo è stata visita e alle 10.53 è stata ricoverata al reparto di Ortopedia».
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Il primario del Pronto Soccorso reggino, che conta circa 70 mila ricoveri annui, si sofferma sulle peculiarità del reparto. «Sotto la mia gestione, in due anni, ho creato il Pronto Soccorso ginecologico, quello pediatrico e ho reso il presidio di Reggio Calabria un modello di efficienza» assicura Angelo Ianni.

Da anni in Calabria, però, si vive una situazione di grande criticità per quanto riguarda gli ospedali. Mancano medici, infermieri, mentre le strutture sanitarie sono fatiscenti. La sanità calabrese da sette anni è commissariata.

lorenzin in visita agli ospedali riuniti di reggio calabria con angelo ianni 1LORENZIN IN VISITA AGLI OSPEDALI RIUNITI DI REGGIO CALABRIA CON ANGELO IANNI




E questo alimenta quotidianamente i contrasti tra il commissario e il presidente della Regione Mario Oliverio che, sin dal suo insediamento, ha chiesto la fine della fase commissariale.
reggio calabria fratture immobilizzate con il cartone 1REGGIO CALABRIA FRATTURE IMMOBILIZZATE CON IL CARTONE










Nei giorni scorsi il commissario Massimo Scura ha annunciato l' assunzione di 1.300 medici, 96 dei quali dovrebbero essere destinati all' ospedale metropolitano di Reggio Calabria. Sarà vero?

Fonte: qui