Dal Fondo monetario arrivano nuovi allarmi sull'Italia, conditi dal soliti refrain sul cosa bisognerebbe fare: quel che ha ridotto a pezzi la Grecia.
Ormai è difficile capire se tra i giudizi che il Fondo monetario internazionale pronuncia sull'economia di questo o di quello Stato e il comportamento dei mercati rispetto ai titoli pubblici emessi da quello stesso Stato ci sia un nesso di causalità o di casualità. La faccenda non riguarda il posto ottimale dove collocare la "u", ma il senso degli interventi di questa strana istituzione, galleggiante a mezz'acqua tra l'Onu e la Spectre, tra il monatto e la crocerossa, tra l'incendiario e il pompiere.
Negli ultimi, infuocati otto-dieci anni vari Paesi del mondo, innanzitutto la Grecia, sono passati attraverso questo Scilla-e-Cariddi della politica economica internazionale. Cominciano la Commissione europea, o appunto il Fondo monetario; prosegue un'agenzia di rating, declassando di un gradino o due il giudizio sul debito di uno Stato; i mercati bersagliano quei titoli e fanno salire lo spread; lo Stato preso di mira fa qualche annuncio chiedendo scusa, e se va bene - alla fin fine è andata finora sempre bene a tutti, salvo che alla Grecia - lo spread si riequilibria e la situazione continua ad andare avanti come prima, salvo che la corda cui è legata la spada di Damocle dei mercati, pendente sulla testa dello Stato sotto accusa, si fa sempre più sottile.
Questo schema ha espulso la Grecia dall'ambito delle regole comuni dell'Eurozona dieci anni fa, l'ha posta sotto la stretta gestione commissariale della cosiddetta Troika, cioè appunto Fondo monetario, Commissione europea e Banca mondiale, e l'ha restituita poche settimane fa al novero dei Paesi cosiddetti sani con un debito pubblico al 180%, cioè quasi il 50% peggio di quello italiano, il patrimonio nazionale assottigliato fino alla trasparenza a favore di cessionari quasi sempre tedeschi (basti pensare ai 23 aeroporti passati di mano) e un quadro macroeconomico a dir poco debilitato. Paradosso dei paradossi, senza che tutto questo abbia scalfito di un millimetro la posizione di relativo potere del premier Tsipras, che era stato eletto proprio perché combattesse contro questo scenario che ha invece lasciato attuare, godendone.
Non che queste considerazioni siano "indispensabili" dopo l'ennesimo giudizio pronunciato ieri dal Fondo monetario sull'Italia, ma oggettivamente - come dire - verrebbero in mente a tutti. Ecco cosa scrive, nel suo rapporto sugli "Squilibri esterni" globali, l'istituzione che vide l'ex candidato premier Carlo Cottarelli in una posizione-chiave: "L'Italia resta vulnerabile alla volatilità del mercato". Ma guarda, vien da dire. E poi: "Questa debolezza è legata alle grandi esigenze di rifinanziamento del debito sovrano e bancario e alle condizioni di credito potenzialmente restrittive, dovute allo stock ancora elevato di Npl nel settore bancario". Hai capito?! E chi ci sarebbe mai arrivato, a conclusioni così sottili e sorprendenti?
Ne consegue che il nostro Paese deve proseguire lungo la strada del risanamento dei conti e della riduzione delle sofferenze bancarie per migliorare la propria competitività. E dunque? Qui c'è la zampata conclusiva: "Le incertezze politiche in Italia hanno indebolito ulteriormente l'euro, aggravando i precedenti trend" sostiene il Fondo, bastonando preventivamente - ovvero, solo sulla base delle loro peraltro sconclusionate esternazioni - i nuovi governanti giallo-verdi. Per cui, "nelle economie indebitate dell'Eurozona (Italia, Francia, Spagna) un consolidamento di bilancio non negativo per la crescita resta indispensabile per favorire un processo di svalutazione interna e rafforzare l'esposizione con l'estero".
Ora, otto anni di austerity hanno dimostrato che parlare di "un consolidamento di bilancio non negativo per la crescita" è come parlare di "dieta dimagrante non negativa per il grasso": un ossimoro. Ma è quel che prescriverebbero i dottori del Fondo. Diciamo la verità: la sensazione è che - come capita anche nei giornali - ci siano perfino negli uffici d Washington quei giorni in cui a qualcuno tocca di dover riempire degli spazi bianchi e di non avere idee nuove per farlo come si deve. Finisce che ricicla quelle vecchie. Ma poiché, dall'esterno, nessuno osa immaginare che quei verdetti, quei pensieri, altro non siano che l'effetto semiautomatico di meccanismi burocratico-istituzionali privi di sostanza, eccoci in tanti a strologare sul percome e sul perché proprio adesso queste parole, questi moniti, questi allarmi.
Tranquilli, non è cambiato niente. Siamo alle solite: l'Italia stia nel riformatorio a fare i compiti dei ripetenti. Vent'anni fa venne messa lì dalla gestione Andreatta-Prodi-Ciampi, convinta che un Paese ingovernabile, percorso da irredimibili scorrerie di interessi "particulari", potesse essere ricondotto alla disciplina economica e in fondo civica soltanto da un fortissimo "vincolo esterno", quello rappresentato dall'ingresso nella fase uno dell'euro, con quel tasso di cambio e con quei parametri economici. Ciò che è successo da allora è solo la conseguenza di quest'impostazione tutt'altro che "montessoriana". L'Italia ripetente, l'Italia teppista ha continuato a esserlo, è rimasta nel riformatorio e non accenna a poterne uscire. Periodicamente, qualcuno della mitica Troika, coadiuvato dalle solite agenzie di rating, s'incarica di ricordarcelo.
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