9 dicembre forconi: 07/22/18

domenica 22 luglio 2018

La recita di Trump e la guerra per soldi più importante di tutto


Donald Trump (Lapresse)

Non capisco lo stupore attorno all'ennesima capriola politica di Donald Trump: cos'altro poteva fare? Signori, ricordatevi sempre di partire da un presupposto: quella in atto negli Usa è una recita a soggetto, lo scontro reale esiste soltanto nella società. E, proprio per questo, la situazione è sì potenzialmente pericolosa, ma a livello interno: cosa pensate che accadrebbe se il Presidente, a causa della questione russa o di quant'altro, finisse sotto procedura di impeachment? E non dico a New York o Los Angeles, dove si assisterebbe a manifestazioni di giubilo e liberazione simili a quelle che nel novembre 2011 salutarono l'addio forzato di Silvio Berlusconi da palazzo Chigi, intendo l'America vera, quella profonda. Quella armata. Pensate che la Fema abbia, negli anni, dato vita a decine e decine di esercitazioni d'emergenza in caso di rivolta e acquistato migliaia e migliaia di bodybags perché non sapeva come ingannare il tempo? Davvero lo credete? 
Donald Trump era un miliardario sull'orlo della bancarotta, proprietario sì di un impero, ma di debiti e con alcuni fallimenti già alle spalle: ora è l'uomo più potente del mondo. 

Pensate che abbia ottenuto quello status solo per volontà popolare? 

Pensate che un Paese che ancora oggi non sa chi abbia ucciso l'uomo della svolta, JFK, avrebbe permesso che arrivasse a fine campagna elettorale vivo? 

Pensate davvero che due filmatini osé, le denunce di quattro sgallettate e poi la pagliacciata del Russiagate siano stati il massimo che il Deep State sia riuscito a mettere in campo per cercare di fermare la corsa del tycoon verso Pennsylvania Avenue? 

Davvero lo credete? 
Beh, buon per voi che ancora avete fede nel mondo e nelle persone. Io so che per rendere credibile quanto accadrà, gli ultimi due giorni sono stati perfetti. Prima Helsinki che ha scatenato l'indignazione bipartisan della politica americana e, come dicevo ieri e ri-sottolineo oggi, lo sdoganamento della parola "traditore" da accostare alla figura del Presidente, una macchia senza possibilità di candeggio nel Paese che ha perdonato il bugiardo e fedifrago Bill Clinton. Poi, la ritrattazione appena rientrato in Patria, di fatto un'ammissione non solo di colpa, ma anche di palese e conclamata inadeguatezza al ruolo di capo della prima potenza del mondo. Poi, nel mezzo, la pubblicazione dei dati del Tic, ovvero le detenzioni di debito pubblico americano relative al mese di maggio. Puntualissime, perfettamente a metà strada fra la pantomima su sfondo finlandese e il mea culpa con Washington bagnata dal sole estivo a incorniciare la scena. 
Ed ecco qui, questi grafici parlano da soli: prima di recarsi a Helsinki per fumare pubblicamente il calumet della pace, Vladimir Putin si è premurato praticamente di azzerare le detenzioni russe di Treasuries. Per carità, non erano di principio una cifra folle, ma siamo passati dai circa 100 miliardi di controvalore di inizio anno agli attuali 9 miliardi! In aprile, Mosca ha liquidato 47,4 miliardi di debito Usa, portando il totale a 48,7 miliardi, minimo dal 2008. Ma a maggio ha proseguito, tagliando detenzioni per altri 40 miliardi, una sforbiciata dell'82%, arrivando alla cifra pressoché simbolica attuale. 
 
E in cosa si sostanziata questa mossa, almeno sui mercati? Lo spiega bene il secondo grafico: dal 2,7% di inizio aprile, il rendimento del decennale Usa a fine maggio è passato al 3,11%, massimo da sette anni. E che il rendimento del decennale Usa non sia mera questione di servizio del debito, lo sanno anche i sassi: è il benchmark del mercato, ciò che muove - o può muovere - tutto. Vista la quantità d'oro fisico comprata da Mosca in contemporanea, la mossa non stupisce, anche al netto del Budget 2019 tutto in deficit presentato dalla Casa Bianca: scappo da un debito potenzialmente destinato ad andare fuori controllo e compro bene rifugio per antonomasia, magari un domani per legarci la moneta, in caso di crisi globale. Ma qui più che di diversificazione degli investimenti, si tratta di segnali politici. E temo che Mosca non abbia agito unicamente di sua sponte, anche visto il timing: è più che probabile, infatti, che un suggerimento al riguardo sia giunto da Pechino come mossa d'anticipo sulla politica di dazi annunciata e poi messa in pratica dagli Usa. Come dire, avete visto come si è mosso il rendimento del vostro titolo benchmark con le vendite, su volumi non certo spaventosi, della Russia? Ecco, pensate cosa succederebbe se fossimo noi cinesi a cominciare a scaricare in grande stile Treasuries, avendo 1.183 miliardi di debito Usa in detenzione, stando ai dati di maggio. 
Guerra, insomma. E guerra che colpisce dove fa male, più male che una politica protezionistica che a oggi ha colpito solo per l'aumento dei prezzi alla produzione, data dai costi maggiori dell'import statunitense di metalli: insomma, è la siderurgia della Pennsylvania a pagare per ora, non Pechino. In parte, certo, sta pagando anche l'industria tedesca, quella che è parsa la vera vittima dalle attenzioni di Trump durante il suo tour europeo, ma anche qui, qualcosa si è mosso e lo certifica prima la ratifica del Trattato di libero scambio fra Ue e Giappone e poi il Forum bilaterale Ue-Cina, definito "incoraggiante" dalle stesse autorità di Pechino. Insomma, Trump si sta facendo male da solo. Tanto più che quei dati sul debito pubblico, i quali confermano come siano state le vendite russe a far salire sopra la quota psicologica del 3% il Treasury a 10 anni, potrebbero sostanziare davvero una campagna in grande stile rispetto al "tradimento" del Presidente verso la nazione: perché al netto di bandiera e famiglia, non toccare all'americano medio il portafoglio d'investimento. 
E qui arriva il vero nodo della questione, il succo della partita che si sta giocando. Perché ci sono solo due spiegazioni, ad esempio, al fatto che due giganti dell'investimento come BlackRock e Templeton ieri abbiamo detto chiaro e tondo che è il momento di puntare sui mercati emergenti, poiché il loro punto di under-performance delle equities rispetto a quelle Usa ha toccato ormai un estremo storico. O sanno qualcosa che noi non sappiamo (ma che intuiamo, ovvero la Fed torna a muovere il mercato) oppure siamo al pump'n'dump più classico, scarico sul parco buoi in cerca di rendimento per saldare il mutuo scolastico del figlio ciò che mi sta impestando i bilanci e facendo impazzire gli indici di VaR. Tertium non datur, penso. 
Ma c'è dell'altro e, paradossalmente, di più interessante a conferma del disperato tentativo in atto di far sgonfiare un po' la bolla senza che scoppi, almeno non prima di essersi messi al riparo. Guardate questi grafici: il primo ci mostra come senza l'apporto delle mitologiche azioni Faang (Facebook, Amazon, Apple Netflix e Google), l'indice Standard&Poor's dei miracoli sarebbe in negativo. Il secondo, invece, ci mostra il cash-flow tutt'altro che entusiasmante presentato l'altro giorno all'interno della trimestrale di Netflix, la quale ha confermato contemporaneamente una netta contrazione nella crescita di abbonati, ma anche un aumento degli investimenti nei medesimi format annunciati l'anno scorso. Insomma, unite il tutto, date una shakerata e, al netto della sovra-valutazione di quei titoli, avremmo dovuto assistere a dei bei tremori in Borsa. E invece?
 
E invece ce lo mostra il terzo grafico, dal quale scopriamo che non solo l'indice tech di Wall Street (Nasdaq) non è calato, ma, mentre il debito sembrava aver poco da festeggiare, martedì pomeriggio ha toccato il suo record storico intraday! Come per Templeton e BlackRock, cosa sanno i titoli che i bond (e noi) non sappiamo? E, tanto per capirci e per capire che forse qualcuno in Germania (magari non esattamente a Berlino) si è stufato di subire soltanto le angherie statunitensi, cosa ne dite del timing con cui ieri l'Ue ha comminato una sanzione da 4,3 miliardi di dollari a un altro baluardo Faang, ovvero quella Google multata per Android, dopo la sanzione da 2,4 miliardi di dollari per Google Shopping? 
Che l'Europa si stia svegliando? Che abbiamo capito finalmente la recita Usa e il fatto che Washington minaccia perché ha paura, avendo in casa il grande casinò globale? O forse è solo disperazione da crisi in arrivo a livello globale, quindi tutti in trincea? Sicuramente, non è come raccontano i giornali o i tg. Questo è assicurato. 
Fonte: qui

Usa vs Cina, la battaglia va avanti nel silenzio generale

Lo scontro finale ed esistenziale per gli equilibri futuri del mondo tra Cina e Usa prosegue e coinvolge anche le altro potenze globali. 
Lapresse

Migranti e pallone, pallone e migranti. C'è poco da fare, l'informazione in Italia è questo. Anzi, è stata questo fino a ieri, per oltre un mese. Prima i Mondiali di calcio, poi l'arrivo di Cristiano Ronaldo. In mezzo, gli sbarchi e le loro conseguenze politiche interne ed europee. Un vero e proprio lavaggio del cervello, una conventio ad excludendum di qualsiasi altra notizia, di qualsiasi raziocinante senso della proporzione: soprattutto, quelle di natura economica. Perché il popolo va ammansito con falsi allarmi e oppio, va tenuto buono. Ma - ed è il caso di dirlo - anche perché il cosiddetto e mitologico "popolo", vuole e chiede questo. Quindi, non si lamenti poi, quando sarà tardi per cercare di capire cosa accade. Anzi, cosa sia accaduto. Ignorantia non excusat, l'ignoranza non ha mai una giustificazione. Qualsiasi sia il colore della propria parte politica. Perché è ovvio che domenica tutta l'attenzione fosse per il trionfo della Francia multietnica al Mondiale, motivo di dispute contrapposte fra chi sogna una nazionale transalpina fatta tutta da prototipi 2.0 di Asterix e Obelix e chi non ha vergogna di sfruttare per fini politici quello che è stato un processo di alienazione e ghettizzazione forzata, il quale infatti ha dato sfogo al suo libero istinto durante i saccheggi sugli Champs Elysée (a cui hanno partecipato anche palidissimi vurgulti della gioventù transalpina): l'odio puoi nasconderlo sotto il tappeto, ma, alla prima scintilla, esplode. E brucia il tappeto. 

Quindi è comprensibile che nessun tg abbia dato la notizia del downgrade del rating di credito della Turchia operato con enorme tempismo da Fitch, una sforbiciata che ha portato il debito di Ankara ulteriormente in area junk a livello BB, di fatto una spinta ben assestata alle spalle del Paese per agevolare lo scivolamento della valuta verso l'iper-inflazione potenziale. Quali siano le conseguenze di una crisi economica e valutaria in Turchia ve l'ho spiegato chiaramente la scorsa settimana, ma ragionare in prospettiva non va di moda, molto più comodo parlare di immigrazione limitandosi alla contabilità di sbarchi e respingimenti. Garantendosi, in questo modo, la loro matematica prosecuzione. Anzi, il loro moltiplicarsi. Ma se in questo caso il silenzio dei media è imputabile alla loro storica e strutturale miopia, ieri mattina mi è parso alle soglie del criminale vedere dirette dalla clinica dove Cristiano Ronaldo sosteneva le visite mediche e non sentire un fiato sul fatto che a giugno la crescita cinese si sia fermata all'8% contro l'8,3% di maggio e attese dell'8,4% da parte degli economisti: si tratta del tasso più basso di sempre, ma, ovviamente, noi viviamo di percezioni pavloviane. Quindi, essendo abituati a festeggiare un +1,1% come fosse davvero la vittoria ai Mondiali, quel dato di rallentamento cinese ci fa ridere. E invece da ridere c'è pochissimo. 

Anzi, nulla. E ce lo mostrano questi grafici, i quali ci offrono le perfetta percezione di quanto sta accadendo: la seconda economia mondiale, infatti, non sta solo rallentando a livello di crescita, sta operando in maniera sempre più marcata un deleverage interno che presuppone da un lato la liberazione di risorse monetarie attraverso tagli dei requisiti di riserva per le banche, ma che, contemporaneamente, sta anche annullando mese dopo mese il suo ruolo di bancomat globale, come ci mostra il dato dell'impulso creditizio. E anche il dato sul sistema bancario ombra parla chiaro: Pechino vuole sgonfiare la bolla del credito interno facile, un qualcosa che si sostanzia nel dato di aumento dei prestiti regolari in yuan e in quello contemporaneo del crollo di quelli "paralleli" in dollari. A oggi e nel silenzio generale, in Cina sono già occorsi default aziendali per un controvalore di 22,2 miliardi di yuan, fallimenti che hanno riguardato anche 5 aziende a controllo totalmente privato e 15 quotate in Borsa: lo Stato, di fatto, lascia fallire i soggetti più deboli in quello che pare un misto di atteggiamento darwinista e schumpeteriano, tamponando il falloutesterno con iniezioni di liquidità mirate, al fine di controbilanciare i contraccolpi. Ma per fare questo, serve un'attitudine chiara: il mondo non conti più su di noi e sul nostro impulso creditizio per mascherare la crisi macro e soprattutto di liquidità che sta prendendo il sopravvento sui mercati. Ognuno per sé e Dio per tutti. 
 
E che la Cina sia ormai arrivata al punto di svolta, ce lo dice un'altra notizia che ieri è stata completamente ignorata: l'ulteriore spinta di Pechino verso la de-dollarizzazione del proprio commercio, di fatto la vera guerra commerciale contro gli Usa. Le raffinerie cinesi, in ossequio alla battaglia dei dazi, ma anche con un chiaro intento geopolitico (non a caso la comunicazione è giunta nel giorno dell'incontro fra Trump e Putin), stanno sostituendo il petrolio importato dagli Usa con quello comprato proprio da Teheran, non solo facendosi beffe delle sanzioni che gli Stati Uniti vorrebbero in grado di portare a zero le esportazioni iraniane entro novembre, ma anche bypassando l'uso del dollaro nello scambio, tutto denominato in yuan: parliamo di 300mila barili al giorno, stando a dati non smentiti della Dongming Petrochemical Group.
Insomma, la questione sta sempre più polarizzandosi, arrivando al nocciolo del problema, allo scontro finale ed esistenziale per gli equilibri futuri del mondo: Cina contro Usa, con la Russia di fatto comprimaria di una partita che rischia di diventare ogni giorno più rischiosa. Prima che l'incontro di Helsinki avesse iniziato, il consigliere della Casa Bianca, John Bolton, ha parlato chiaro: Washington resterà in Siria fino a quando la guerra all'Isis non sarà vinta e fino a quando ci sarà influenza iraniana nell'area. 
Contemporaneamente, due fatti: Israele, dopo aver colpito la Striscia di Gaza nella sua eterna lotta contro Hamas, ha bombardato in un raid una base militare fuori Aleppo, proprio in Siria. Il timore, non confermato, è che nell'azione abbiano perso la vita proprio militari iraniani di stanza accanto alle milizie di Assad. Inoltre, sta salendo - anche in questo caso nel silenzio generale - la tensione anti-iraniana in Iraq, dove il vincitore delle ultime elezioni, il chierico estremista Moqtada Al-Sadr, sta infiammando le folle contro Teheran e la sua influenza nella zona, dopo che da giorni si susseguono disordini legati a continue interruzioni del flusso di energia nel Paese. Stranamente, quanto sta accadendo in Iraq non deve stupire, nonostante l'intensità stia aumentando, con aeroporto e uffici di aziende straniere presi d'assalto e operatori economici di altri Paesi che già preparano l'evacuazione del personale: non più tardi del 12 luglio scorso, infatti, per risolvere il cronico problema energetico del Paese, Al-Sadr aveva proposto la privatizzazione dell'intero sistema. E sapete a chi vorrebbe appaltarla, un business miliardario? Ad aziende straniere non occupanti. 
Stiamo entrando in un risiko di pericolosità potenziale enorme per la destabilizzazione dell'intera area ma anche nel redde rationem finale, quello che mostrerà al mondo chi stava con chi nella strumentale "guerra civile" siriana e nell'ancora più patetica e criminale campagna contro l'Isis. E l'Europa, in tutto ciò? Pensa ai migranti. Anche perché gli Usa hanno detto "no" alle esenzioni dalle sanzioni contro l'Iran richieste da tre Paesi europei - Gran Bretagna, Francia e Germania - in una lettera del 4 giugno scorso e reiterate al vertice Nato della scorsa settimana: sia il capo del Dipartimento di Stato, Mike Pompeo, che il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, sono stati chiari al riguardo, chiunque opererà con Teheran, dovrà pagare dazio. E, casualmente, tanto per far capire che aria tira contro Teheran, l'Arabia Saudita ha già tagliato fuori le ditte tedesche da ogni appalto nel settore energetico, proprio perché Berlino pare troppo riottosa nei confronti delle sanzioni contro gli aytollah. 
Cosa significa l'interscambio commerciale con l'Iran per l'Italia, ce lo mostrano questi grafici: avete sentito una parola al riguardo da Conte o Moavero? No, zero. Si parla solo di migranti. Casualmente, però, tanto per dimostrare all'Europa quanto sia serva e quanto poco conti, il Financial Times venerdì parlava a chiare lettere dell'intenzione della Russia di investire circa 50 miliardi di dollari proprio nel comparto energetico dell'Iran: reazione di Washington? Nessuna. Dite che c'entra il vertice di Helsinki di ieri? No, c'entra la volontà spartitoria, a livello energetico, geopolitico e strategico. C'entra il doppiogiochismo di Vladimir Putin, come d'altronde quello di altro genere di Recep Erdogan. E l'Europa in mezzo, silente a subire. 
 
La Cina, invece, tace e fa i fatti. E come ha risposto l'Ue agli accorati e diretti appelli di Pechino verso una maggiore collaborazione bilaterale per contrastare la politica di dazi e guerra commerciale degli Usa? Picche. Di più, domenica Donald Trump ha definito l'Ue una nemica degli Usa a livello commerciale ed economico e per tutta risposta Donald Tusk è corso a piagnucolare, ribadendo amicizia e fedeltà sempiterna, quasi fossero la Benemerita, verso i nostri vassalli d'Oltreoceano. Pagheremo, pagheremo un prezzo all'altissimo alla mancanza di coraggio di questi pusillanimi. Il mondo sta precipitando, a passi sempre più spediti, verso uno scontro finale per gli equilibri dei prossimi 50, 100 anni e noi ci preoccupiamo unicamente di quattro barconi in arrivo dalla Libia o dei 40 milioni risparmiati con il ricalcolo dei vitalizi. Tanto, c'è Cristiano Ronaldo che sostiene le visite mediche ad allietarci la giornata e riempire le trasmissioni tv. 
Non so se vale la pena di ridere o piangere. Certamente, meritiamo tutto ciò che ci accadrà. Perché, ripeto, ignorantia non excusat

Fonte: qui

Il GRANDE BLUFF TEDESCO


Deutsche Bank: trimestrale BOOM, ma forse i motivi sono molto più profondi di quanto possiate pensare. Derivati e titoli illiquidi nel mirino.

Sempre in contrasto, con il beneficio del dubbio.
Quale sarà la realtà? Una banca che realmente è “fuori controllo” e che quindi è destinata al default o quantomeno al salvataggio pubblico, oppure stiamo sopravvalutando il problema?
Io continuo ad essere convinto del fatto che Deutsche Bank rappresenta una mina vagante, una banca che ha accelerato su tutta la finanza più estrema per tenere il passo delle più importanti banche USA.
Spesso, come è giusto che sia, critichiamo le nostre banche. Ma cari lettori, sappiate che anche nei paesi considerati totalmente sicuri, come la Germania, ci sono delle storie che di sicuro hanno ben poco. E la vicenda USA di Deutsche Bank ce ne ha dato la prova.
(…)Deutsche Bank ha fallito gli stress test della Federal Reserve, che per motivare la sua bocciatura ha fatto riferimento a una “debolezza materiale nei piani relativi al capitale” del colosso bancario tedesco. I risultati sono la seconda parte degli esami annuali della banca centrale americana, nei quali questa approva o meno i piani degli istituti di credito per aumentare i buyback o pagare i dividendi. Deutsche Bank e’ stata l’unica banca a fallire il secondo round degli stress test. La Fed ha detto che la banca tedesca non e’ capace di prevedere correttamente i ricavi e le perdite delle linee chiave di business e ha mostrato lacune nei controlli sulla gestione del rischio. (…) [Source
La controllata americana di DB gestisce asset per 133 miliardi di dollari, non ha passato la seconda parte degli stress test annuali della Federal Reserve per carenze ampie e critiche. Questo lo ritengo essere solo la punta di un iceberg, visto che le banche tedesche oltre ad avere in pancia ancora moltissimi derivati, hanno mantenuto un modello di business poco efficiente. Per motivi di spazio e tempo non vi parlo di Commerzbank e delle varie Sparkasse, ma se ben ricordate, in passato già vi ho detto molto sull’argomento.
Intanto però il faro sui derivati e sui titoli illiquidi deve sempre restare ben acceso sul problema. Infatti il fenomeno è ancora più grave di quello che emerge, considerato che gli stessi derivati in pancia alle banche teutoniche sono circa un terzo del totale detenuto dalle banche europee e che i titoli più opachi e rischiosi, quelli definiti di livello tre (titoli illiquidi), sono circa il 40% del capitale netto tangibile, contro circa il 9% delle banche italiane.
Quindi motivi per restare tranquilli, insomma, ce ne sono pochi. Ma ecco che un illuminante news cerca di ribaltare tutto.
Utile lordo (700 milioni) e netto (400 milioni), ricavi (6,6 miliardi), spese al netto degli interessi (5,8 miliardi), CET1 (13,6%) e leva finanziaria (3,9%): i dati preliminari di Deutsche Bank nel secondo trimestre dell’anno sono andati tutti «considerevolmente» meglio delle previsioni di mercato e del consensus. E questo gap, tra quanto atteso e quanto realizzato, è stato tale da far scattare ieri un trigger, l’obbligo, imposto dall’autorità di vigilanza bancaria tedesca BaFin, di pubblicazione dei dati trimestrali in via preliminare. Le regole della compliance questa volta hanno giocato a favore della banca, da tempo messa sotto osservazione dai suoi azionisti, dagli investitori internazionali e dalle agenzie di rating per migliorare redditività e strategia. I risultati a sorpresa infatti sono stati graditi dal mercato che li ha premiati con un rialzo di DB alla Borsa di Francoforte del 7,36 per cento. (…) Nel comunicato Deutsche Bank ieri ha sottolineato che la performance del secondo trimestre conferma la stabilità della banca. Ma c’è di più. Gli azionisti, gli analisti, gli stakeholders e le agenzie di rating attendevano da tempo un segnale che posizionasse la banca al suo giro di boa, con le peggiori notizie archiviate e il nuovo piano strategico e di ristrutturazione operativo a pieni giri e dunque finalmente implementato a passo spedito. Questo trimestre potrebbe segnare la svolta, ma il mercato attenderà conferme nel secondo semestre dell’anno. (…) Deutsche bank ha avviato lo smantellamento di quelle attività negli Usa che l’hanno vista perdente contro la concorrenza delle rivali statunitensi: ma in Germania e in Europa non cederà terreno ma al contrario continuerà a rafforzarsi, tenendo sotto controllo e riducendo i costi delle attività meno redditizie ma investendo di più nell’alta tecnologia per tenersi al passo con i tempi. (…) [Source
Incredibile. Anzi no.
Tutto fila, bisogna fare il possibile per far tornare fiducia su DB per evitare il fuggi fuggi di investitori e clienti. Bisogna dare segnali tangibili di un miglioramento che a conti fatti sembra illuminante. Però non possiamo anche dimenticarci del resto.
Parlo proprio e sempre di loro. 48 mila miliardi di euro lordi – 14 volte il Prodotto interno lordo della Germania – di DERIVATI in pancia all’istituto.
Ve lo ripeto.
14 volte il PIL tedesco.
Se non è una bomba atomica innescata questa…

E anche un potenziale aumento di capitale non potrebbe che limitare minimamente il problema.
Credo sia chiarissimo che il problema si può solo cercare di gestirlo al meglio, evitando traumi e consentendo alla banca una progressiva “exit strategy”. Ma per questo è necessario un mercato “tranquillo e sereno” e non certo in tensione.
La trimestrale potrebbe aiutare, ma “smontareil castello di carta creato in DB tra derivati e titoli illiquidi di livello3, non sarà né facile né rapido.


Fonte: qui

Mauldin Warns "This Debt Train Will Crash"

We are approaching the end of the debt Train Wreck series. I’ve spent several weeks explaining why I think excessive debt is dragging the world economy toward an epic crash. The tracks ahead are clear for now but will not remain so. The end probably won’t be pretty. But there’s good news, too: we have time to get our portfolios, our businesses, and our families prepared.
Today, we’ll look at some new numbers on just how big the problem is, then I’ll recap the various angles we’ve discussed. This problem is so big that we easily overlook key points. I hope that listing them all in one place will help you grasp their enormity. Next week, and possibly a few after that, I’ll describe some possible strategies to protect your assets and family.
Now on with the end of the train.

Off the Tracks

Talking about global debt requires that we consider almost incomprehensibly large numbers. Our minds can’t process their enormity. How much is a trillion dollars, really? But understanding this peril forces us to try.
Earlier in this series, I shared a 2015 McKinsey chart that summed up global debt totals. They pegged it at $199 trillion as of Q2 2014. Note that the debt grew faster than global GDP. Everything I see suggests it will go higher at an ever-increasing rate.
Source: McKinsey Global Institute
Last month, McKinsey published a very useful online tool for visualizing global debt, based on Q2 2017 data. It shows a total of $169T, which is less than McKinsey said in 2014. Is debt shrinking? No. The new tool excludes the Financial debt category, which was $45T three years earlier. A separate Institute for International Finance report said financial debt was $59T at the end of 2017. These aren’t quite comparable numbers, but in the (very big) ballpark range we can estimate total debt was somewhere between $225T (per McKinsey) and $238T (per IIF) in mid-2017. (IIF’s latest update last week says it is now $247T).
Source: McKinsey Global Institute
That would mean world debt grew something like 13% in the three years ended 2017. If so, it would be a slowdown comparable to the 2007-2014 pace McKinsey showed in the chart above—but still faster than world GDP grew in those three years. McKinsey says global debt (ex-financial) grew from $97T in 2007 to $169T in mid-2017.
Importantly, households aren’t driving this. Governments accounted for 43% of the increase McKinsey cites and nonfinancial corporate debt was 41%. That is where I think the coming train crash will originate. Governments have more debt than corporations, but also more tools (like taxing authority) to manage it.
On the other hand, governments also have massive “unfunded liabilities” that don’t show in the numbers above. So, they aren’t in a great position, either.
Bottom line: There’s going to be a train wreck here. Which train will go off which track is unclear, but something will. And we’re all going to feel it.

Woes to Come

We launched this journey in my May 11 Credit-Driven Train Crash letter. I described my friend Peter Boockvar’s perceptive statement: “We no longer have business cycles, we have credit cycles.”
His point is subtle yet critical. Post-crisis growth, mild as it’s been, has been largely a function of debt, which central banks encouraged and enabled. The result was inflated asset prices without the kind of “recovery” seen in previous business cycles. Interest rates, i.e. the cost of debt, thus became critical.
With rates now moving up again, premium asset prices are losing their raison d’etre and will stabilize and eventually fall. Peter Boockvar says this, not the conventional business cycle, is what will set off recession. That’s key. Lower asset prices won’t be the result of the next recession; they will cause that recession.
I showed in that letter how companies will need to refinance about $4T of bonds in the next year, almost all of it at higher rates. This will hit debt-burdened companies that are already struggling and make it almost impossible for some to keep operating. Lenders, i.e. high-yield bond holders, will try to exit their positions all at once only to find a severe shortage of willing buyers.
The following week in Train Crash Preview, I listed the steps in which I think the crisis will unfold. They fall in four stages.
  • The Beginning of Woes: Something, possibly high-yield bonds, will set off a liquidity scramble. It will spread through the already-unstable financial system and trigger a broader credit crisis.
  • Lending Drought: Rising defaults will force banks to reduce lending, depriving previously stable businesses of working capital. This will reduce earnings and economic growth. The lower growth will turn into negative growth and we will enter recession.
  • Political Backlash: Concurrent with the above, employers will be automating jobs as they grow desperate to cut costs. Suffering workers—who are also voters—will force higher “safety net” spending and government debt will skyrocket. A populist backlash could lead to tax increases that prolong the recession.
  • The Great Reset: As this recession unfolds, the Fed and other central banks will abandon plans to reverse QE programs. I seriously think the Federal Reserve’s balance sheet assets could approach $20 trillion later in the next decade. But it won’t work because the world simply has too much debt. They will need to find some way to rationalize or “reset” the debt. Exactly how is hard to predict but it probably won’t be good for lenders, or for the holders of government promises like pensions and healthcare.
Next in High Yield Train Wreck, we dove deeper into the dream-driven high-yield bond market exemplified by this year’s nutty $702-million WeWork issue. I quoted Grant Williams, who wrote a masterful takedown of this craziness.
Ten years into the ongoing laboratory experiment being conducted by the world’s central banks, everywhere you look there are multiple examples of the kind of lunacy those policies have fomented by reducing the cost of capital to virtually zero and forcing investors to take risks they would ordinarily avoid in order to find some kind of return.
WeWork is one example of a company for whom, in the face of rapid growth, massive negative cashflows aren’t a problem, but there are plenty of others. Uber, AirBnB, SnapChat and, of course, Tesla have all captured the imagination of investors thanks to lofty dreams, articulated by charismatic CEOs—but the day things turn around and the economy begins to weaken or, God forbid, investors seek a return on their investment as opposed to settling for rolling promises of gigantic, game-changing revenues to come, it is over.
We went on to talk about the insanity of yield-hungry investors practically throwing cash at borrowers while demanding little in return. I also showed how this is not simply a junk-rated company problem, since almost half of investment-grade companies are rated BBB and could easily slip to junk status in a downturn.
Source: On My Radar

Growing Leverage

The week after we turned to Europe in The Italian Trigger. Unfortunately, Italy isn’t Europe’s only problem. The big Kahuna is Germany, which spent years offering generous vendor financing to the rest of the continent to entice the purchase of German goods. The result: a giant trade surplus for Germany and giant, unpayable debts for those who bought German goods.
The Euro currency union is fatally flawed because it leaves each member state to set its own fiscal policy. There are good reasons for that, but it is not sustainable indefinitely. The Eurozone must get either much more centralized or fall apart. All the Rube Goldberg contraptions the ECB and others invent are temporary fixes. They’ve worked so far. They won’t work forever.
I still think the most probable scenario is that Germany and the Netherlands (and the rest of the northern European cabal) reluctantly agree to let the European Central Bank mutualize all the sovereign debt, taking onto their balance sheet and issuing new ECB-backed debt for the entire zone. There would have to be serious constraints on running deficits after that point, but it would prevent a breakup, or at least delay it for another decade or so.
Of course, within a few years those new deficit constraints would be ignored. I said in a previous letter Germany will need to collect almost 80% of GDP in 30 years in order to be able to deliver its promised healthcare and pensions. Their inability to do that will be evident much sooner. Germany will end up becoming one of the biggest problems.
The next installment, Debt Clock Ticking, was a bit philosophical. I talked about debt letting you bring the future into the present, buying things you couldn’t afford if you had to pay for them now. But the entire world went into debt for the equivalent of tropical vacations and, having now enjoyed them, realizes it must pay the bill. The resources to do so do not yet exist. So, in the time-honored tradition of lenders everywhere, we extend and pretend. But with our ability to pretend almost gone, we’re heading to the Great Reset.
Source: Moody’s Investor’s Service
Then I reviewed some of the McKinsey and IIF numbers and described the amount of leverage that’s built up in the system. Just a decade after the Great Recession, the average non-financial business went from 3.4x leverage to 4.1x. They are now roughly 20% more leveraged than they were the last time all hell broke loose. CEOs and boards seem to have learned little from the experience—or maybe learned too much. If you believe the Fed has your back, then leveraging to the moon makes sense.

Pension Problems

The last three letters in the series got personal for many readers as I talked about pension debt. In The Pension Train Has No Seat Belts, we looked at the demographic challenge facing US pension funds, mainly state and local government plans but also some private ones. We are asking a shrinking group of working-age people to support a growing number of retirees and that’s just not going to work.
Source: Peter G. Peterson Foundation
The promises employers made to workers are a kind of debt. They’re the borrowers, workers are the lenders… and unlike in 2008, this time it will be lenders who get hurt the most. A new report by the American Legislative Exchange Council (ALEC) shows the unfunded liabilities of state and local pension plans jumped $433 billion in the last year to more than $6 trillion. That is nearly $50,000 for every household in America.
Nor is this only a US problem, as we saw in Europe Has Train Wrecks, Too. According to the World Economic Forum, the United Kingdom alone has a $4-trillion retirement savings shortfall that will rise to $33 trillion by 2050. This in a country whose entire GDP is only about $2.6 trillion and doesn’t account for the increasingly likely disaster Brexit will be. Switzerland, Spain, and others have similarly dire outlooks, often driven by even worse demographics than we have in the US. Germany, as noted above, is simply off the rails.
Finally, in Unfunded Promises, we reached the ultimate debt problem: US government unfunded liabilities. On paper, Washington’s debt is about $21.2 trillion… but that doesn’t include the $13.2-trillion unfunded, off-the-books Social Security liability, or the $37-trillion Medicare unfunded liability. Those aren’t my numbers, by the way; they come from the Social Security and Medicare trustees and are probably understated. My friend, Boston University professor Larry Kotlikoff, thinks it should be more like $210 trillion. He has a considerable amount of published works and a book he co-authored with fellow Texan Scott Burns.
That’s not all. The federal government also has liabilities for civil service and military pensions, veteran benefits, some defaulted private pensions via PBGC, and open-ended guarantees to entities like FDIC, Fannie Mae, and more.
The budget outlook is horrible even without all that, too. The Congressional Budget Office thinks federal debt will be 200% of GDP by 2048, and that by 2041 it will take all federal tax revenue just to support Social Security, the various health care programs and pay interest. That’s before defense or anything else the government does. And that’s assuming relatively high growth and NO recessions and a rising stock market forever as we ride off into the sunset.
I wrapped up quoting my friend Dr. Woody Brock, who thinks the most likely outcome will be wealth taxes at federal, state, and local levels. I truly hope he’s wrong about that, but I fear he is not. My preferred new tax for the US would be a VAT that eliminates the Social Security tax (thus giving lower-income workers and businesses a raise) but still funds Social Security and healthcare. Other government expenditures would be funded from income taxes which could be reduced significantly, and even eliminated on incomes below $50,000. Now that’s a tax cut that would boost the economy and balance the budget.
There really are only two ways to solve this problem: massive taxes on someone, or a debt liquidation of some kind. And remember, if you are getting a retirement pension fund and/or healthcare, your benefits are part of that “debt liquidation.” Both will be painful. We have pulled forward our spending and must eventually pay for it. The time is coming. Please don’t shoot the messenger.
Let’s summarize. Global debt is over $225 trillion. By the beginning of the next decade it could be over $300 trillion. Global government unfunded liabilities are easily in the $100-trillion range today and could easily double by the end of the next decade. Debt service, pensions, and healthcare will take 20-25% of GDP in many countries (more in some of Europe).
Your mileage may and will vary by country. In some, there will be inflation and in others, deflation. We will be thinking the unthinkable and choosing policies that seem insane to even mention today. But then, think about what Japan is doing. And the ECB. Add in automation and the loss of hundreds of millions of jobs in the OECD countries. Then think about what will happen in the emerging economies.
But at the same time, imagine all the new companies being built and fortunes made. The opportunities. The situation, as Doug Casey once quipped, “Is hopeless, but not serious.” Not yet. Not for you and me.