E LE LEGGI PER CONTRASTARE QUESTO FENOMENO NON HANNO CAMBIATO NULLA: 3MILA 'DOTTORATI' SE NE VANNO OGNI ANNO
1. «LA CORRUZIONE NEGLI ATENEI SPINGE ALL' ESTERO I TALENTI»
Sergio Rizzo per il ''Corriere della Sera''
Tenevano famiglia. E continuano a tenerla ancora oggi, dopo che una legge dello Stato ha prescritto ben cinque anni fa il divieto ai parenti di insegnare nella stessa facoltà. Il bello è, dice il presidente dell' Autorità anticorruzione, «che si è trovato evidentemente il modo di aggirarla». Tante sono le segnalazioni che gli piovono sul tavolo: «Siamo subissati». Lettere che denunciano anche sospetti di malaffare nei concorsi, puntualmente girate alla Procura della Repubblica. Così numerose da far dire a Raffaele Cantone che «esiste un collegamento enorme fra la fuga dei cervelli e la corruzione».
Del resto, perché un giovane bravo e capace dovrebbe restare in Italia avendo l' opportunità di insegnare all' estero, se sa già che la sua strada sarà sbarrata da un concorso taroccato mentre il figliolo del barone ce l' avrà spianata? Le segnalazioni che arrivano all' Anac sono tutte da verificare, ovvio. Ma l' odore della parentopoli universitaria in barba alle norme è penetrante.
E pensare che già dieci anni fa, quando era solo un ufficetto in centro a Roma, e prima che il governo Berlusconi la sopprimesse nella culla, la neonata autorità anticorruzione guidata dall' ex prefetto Achille Serra aveva sfornato un esplosivo dossier sulla scuola universitaria di alta formazione europea Jean Monnet di Caserta. Dove si raccontava che «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugio legano nel 50% dei casi il corpo docente (82 persone) con personalità del mondo politico, forense o accademico».
Quasi un decennio dopo, al convegno dei responsabili amministrativi degli atenei, Cantone racconta che in una università meridionale «è stata istituita una cattedra di Storia greca in una facoltà giuridica e una cattedra di Istituzioni di diritto pubblico in una facoltà letteraria». E che i titolari erano «i figli di due professori delle altre università». Destini incrociati, di cui la storia dell' università italiana offre ampia letteratura. Con gli stessi protagonisti che ne vanno fieri: tanto la cattedra alla discendenza è sempre stata ritenuta non un sopruso, ma un diritto.
Quando scoppia il caso dei familiari di Luigi Frati, rettore della Sapienza di Roma e preside per moltissimi anni della facoltà di Medicina, a chi chiede spiegazioni lui sbatte in faccia una strepitosa metafora: «Quando Cesare Maldini è diventato commissario tecnico della Nazionale, Paolo Maldini non è stato buttato fuori dalla squadra».
Peccato che un rettore non sia un allenatore di calcio e che nella squadra della sua facoltà di Medicina non ci sia un familiare, ma tre. Suo figlio cardiologo, sua moglie laureata in Lettere docente di Storia della medicina e sua figlia laureata in Giurisprudenza docente di Medicina legale: di più, nominata dal governo di Enrico Letta nel comitato nazionale di bioetica. Tre Paolo Maldini?
Narrano che questa scintilla inneschi il famoso divieto contenuto nella legge di Mariastella Gelmini. Anche se non ci sono prove. Che quella decisione scateni invece singolari effetti collaterali, invece, è noto. Il Messaggero racconta che alla vigilia dell' approvazione della norma la dottoressa Paola Rogliati, nuora del preside della facoltà di Medicina di Tor Vergata a Roma, Renato Lauro, diventa professore associato della cattedra di Malattie dell' apparato respiratorio.
Sottolineando la circostanza che nella stessa facoltà e nel medesimo dipartimento, riporta l' Ansa, «c' è anche il marito della signora, nonché figlio del preside, David Lauro, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre». Tutto regolare. Ma difficile sostenere che sia normale.
Eppure per anni è stata questa la normalità delle cronache giornalistiche. All' Università di Bari c' era il corridoio Tatarano, dove c' erano le stanze del professore di Diritto privato Giovanni Tatarano e dei suoi figli Marco e Maria Chiara.
C' era la dinastia dei Massari: nove, per l' esattezza. E dei Girone: cinque, considerando anche il genero. Così a Bari, dove nel saggio L' università truccata Roberto Perotti aveva contato 42 parenti su 176 docenti di Economia. Ma così pure nel resto d' Italia. E le inchieste, da Nord a Sud, non si contano. Anche se quasi tutte finiscono sempre al solito modo: in una bolla di sapone.
La legge, dice Cantone ha ora «istituzionalizzato il sospetto». E Mariastella Gelmini replica che il divieto aveva proprio l' obiettivo di ripulire i concorsi. Resta il fatto che in un Paese normale di una norma del genere non ci sarebbe mai stato il bisogno. Lo ha detto anche Cantone, precisando di non averla «attaccata»: «Ho detto che è un paradosso che ci debba essere una legge che stabilisce un divieto che dovrebbe essere scontato».
2. GIOVANI, BRILLANTI, BEN PAGATI COSÌ TREMILA RICERCATORI L' ANNO VANNO (E RESTANO) ALL' ESTERO
Antonella De Gregorio per il ''Corriere della Sera''
Ad abbandonare la nave sono tremila giovani all' anno, dei circa 11 mila che conseguono il titolo di dottori. Vanno via soprattutto se le loro discipline di riferimento sono Scienze fisiche (31,5%) Matematica o Informatica (22,4%).
Meno mobili i dottori in Scienze giuridiche (7,5%), in Agraria e Veterinaria (8,1%), dice l' Istat.
Che ha fatto un identikit del dottore di ricerca che cerca fortuna all' estero, dove ci sono più opportunità e si fanno lavori più qualificati e meglio retribuiti. Proviene per lo più da famiglie del Centro-Nord, con elevato livello di istruzione ed è diventato dottore prima dei 32 anni. Se si calcola che in Italia l' età media di ingresso (meglio, di stabilizzazione) nella professione è di 37 anni, e che gli scatti retributivi sono rimasti congelati per anni, si intuisce quanto sia difficile avere gratificazioni in patria.
«Le nostre università assumono con il contagocce e i posti sono riservati a gente che è in lista da anni, tendenzialmente allievi dei professori», dice Michele Tiraboschi, docente di Diritto del lavoro a Modena. «Una tradizione che nella sua accezione più nobile premia i migliori delle varie scuole. Ma che ha portato a una forte degenerazione del sistema. In Danimarca, Svezia, Giappone, Stati Uniti, non si premia la fedeltà dell' allievo, ma c' è un' effettiva competizione meritocratica».
Con l' associazione Adapt, fondata da Marco Biagi, Tiraboschi ha lavorato a una proposta di legge per creare un mercato della ricerca privato, per dare riconoscimento ufficiale ai ricercatori nelle aziende: «Ci allineerebbe alla tendenza europea e consentirebbe di far fronte alle esigenze di crescita e sviluppo del Paese».
E invece le piccole e medie imprese italiane a gestione familiare, specializzate in settori a medio-basso contenuto tecnologico, sono poco propense a investire in ricerca e sviluppo e in capitale umano.
A livello accademico sono burocrazia e baronie, più che il merito, a decidere chi fa carriera. Ecco perché i nostri ricercatori se ne vanno. A guadagnare il doppio, a volte quattro volte più dei colleghi che rimangono, a utilizzare meglio le proprie competenze.
Il mercato del lavoro nazionale «non riesce a valorizzare appieno il percorso formativo e il potenziale professionale dei dottori», conferma Almalaurea. Così vanno ad arricchire chi cresce e investe sul talento: in Gran Bretagna prevalentemente (16,3%), negli Usa (15,7%), in Francia (14,2%), Germania (11,4%), Svizzera (8,9%).
Alcuni, più avventurosi, trovano le opportunità che l' università italiana non offre in Nepal, Cina, Finlandia. E non si tratta di «circolazione» di cervelli, perché il numero di giovani che emigrano non è compensato da flussi di italiani, con pari qualifiche, che rientrano in patria. Tanto meno da cittadini di altri Paesi, di pari livello, che scelgono l' Italia. «Concorsi e insegnamenti in lingua italiana, pochi posti e già assegnati... Perché uno straniero dovrebbe partecipare?» commenta Tiraboschi.
L' altra faccia della medaglia è la certezza che l' attività di ricerca svolta in Italia sia di ottima qualità. Lo confermano i dati sui fondi Erc (i fondi europei per la ricerca) ma, tra i titolari italiani dei finanziamenti, una quota crescente di ricercatori li spende all' estero. Il Paese, conclude il docente, «sta rinunciando a qualcosa che sa fare bene, e che è più che mai essenziale per la crescita di un' economia avanzata».
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