9 dicembre forconi: 08/09/18

giovedì 9 agosto 2018

Guerra commerciale, non solo USA-Cina: ecco quella Canada – Arabia Saudita

canada

Si acuisce la tensione tra il Canada e l'Arabia Saudita: ecco quali sono state le cause scatenanti.

Anche se il mondo sembra essere preoccupato dall’escalation di tensioni tra Stati Uniti e Cina, c’è almeno un’altra relazione pronta a scoppiare: quella tra Canada e Arabia Saudita.
L'Arabia Saudita ha infatti sospeso i legami diplomatici e i nuovi rapporti commerciali con il Canada in risposta alla richiesta del Canada di liberare alcuni attivisti per i diritti delle donne. Come reazione, l'Arabia Saudita ha richiamato l'ambasciatore a Ottawa e ha ordinato che l'inviato canadese a Riyadh partisse entro 24 ore, stando a quanto afferma una dichiarazione del ministero degli Esteri. Il Canada sta “cercando di ottenere maggiore chiarezza” sulla questione, ha detto una portavoce del ministro degli esteri Chrystia Freeland.
In particolare, il ministero degli Esteri saudita ha citato alcune osservazioni compiute la scorsa settimana da Freeland e dall'ambasciata canadese a Riyadh, che criticavano gli arresti di alcuni attivisti per i diritti delle donne, tra cui Samar Badawi, una cittadina canadese il cui fratello Raif Badawi, un blogger che criticava il governo, era già in prigione.
Le dichiarazioni del Canada – si legge nelle dichiarazioni del ministero - sono “un affronto al regno che richiede una risposta acuta per impedire a qualsiasi parte di tentare di interferire con la sovranità saudita”.
Sotto il principe Mohammed, figlio di Re Salman, l'Arabia Saudita ha già reagito in modo più aggressivo del solito contro quei Paesi che percepisce come troppo interessati ai propri affari interni. In poco più di un anno, il regno ha infatti guidato una coalizione di quattro Paesi che ha reciso i legami con il vicino Qatar, ha richiamato l'ambasciatore in Germania e ha ridotto i rapporti commerciali con alcune aziende tedesche. Il Paese è anche stato largamente accusato di costringere il primo ministro libanese Saad al-Hariri a dimettersi (un'accusa comunque sempre negata).
“La rottura delle relazioni diplomatiche saudite con il Canada sottolinea come la nuova Arabia Saudita che Mohammed bin Salman sta mettendo insieme non sia assolutamente in grado di tollerare alcuna forma di critica nei confronti della gestione dei suoi affari interni” – ha dichiarato Kristian Ulrichsen, del Baker Institute for Public Policy della Rice University in Texas.
La politica estera saudita ha iniziato a cambiare quando Re Salman è succeduto al suo defunto fratello Abdullah nel 2015, posizionando suo figlio come il principe più potente del regno. Come ministro della difesa, il principe Mohammed è anche responsabile del coinvolgimento militare del regno nello Yemen contro i ribelli sostenuti dall'Iran. Sotto i precedenti leader, il regno aveva in buona parte scelto la strada diplomatica, basandosi principalmente sulla sua forza finanziaria per ottenere influenza nella macro area.
Ora le cose sembrano essere cambiate. Sebbene due mesi fa le donne saudite abbiano iniziato a esercitare il diritto di guidare un'auto, alcuni dei più importanti attivisti per i diritti delle donne del Paese - compresi alcuni che hanno combattuto per anni proprio per poter far esercitare il diritto alla guida - sono stati arrestati all'inizio del 2018 per motivi di “sicurezza nazionale”.
“Siamo seriamente preoccupati da questi resoconti dei media e chiediamo maggiore chiarezza sulla recente dichiarazione del Regno dell'Arabia Saudita”, ha detto in una email Marie-Pier Baril, portavoce di Freeland. “Il Canada difenderà sempre la protezione dei diritti umani, compresi i diritti delle donne e la libertà di espressione in tutto il mondo. Il nostro governo non esiterà mai a promuovere questi valori e crede che questo dialogo sia fondamentale per la diplomazia internazionale”.
Per quanto concerne le relazioni commerciali, dall’inizio dell’anno il Canada ha esportato in Arabia Saudita già 1,4 miliardi di dollari di beni e ha importato 2 miliardi di dollari di prodotti, con conseguente deficit di circa 600 milioni di dollari, secondo i dati di Statistics Canada.
Fonte: qui

Barkin, Fed: tassi devono salire a livelli normali


Negli Stati Uniti la crescita è solida, la disoccupazione è bassa e l'inflazione attorno al tasso annuo del 2%, circostanza che "richiede di riportare i tassi di interesse a livelli normali". 
"È difficile sostenere che tassi più bassi del normale siano appropriati quando la disoccupazione è bassa e l'inflazione è effettivamente l'obiettivo della Fed", ha affermato Barkin, presidente della Fed di Richmond. "Quando l'economia richiede di tornare ai livelli normali, alle condizioni che ho appena descritto, dovremmo seguire".
"Più le prospettive di crescita sono elevate, maggiore deve essere il tasso di riferimento", ha affermato.
La Fed ha programmato due ulteriori rialzi dei tassi quest'anno e tre nel 2019.

Fonte: qui

Depositors – Not Taxpayers – Will Take the Hit for the Next ‘2008’ Crash Because Major Banks May Use the ‘Bail-In’ System

Note to readers: please click the share buttons above  
The Federal Reserve’s recent undermining of the Volcker Rule brings depositors closer than ever to a Cyprus-style “bail-in” in another 2008 crash. And all signs indicate another is on the way. This time, however, many U.S. banks may confiscate deposits to stay solvent because the Dodd-Frank law bars them from touching taxpayers’ monies. Indeed, most major banks have been planning the “bail-in” tactic ever since Dodd-Frank. 
*
What’s likely to happen to depositors’ money in a major commercial bank in another 2008 crash? And for months, financial pundits and experts such as William Cohen have been warning an even bigger one is on its way because nothing has essentially changed.  If it’s one of those giant too-big-to-fail types that caused that global catastrophe, chances are they’ve been planning what’s called a “bail-in” system to seize depositors’ money—temporarily, of course. But whether depositors want to withdraw $50 from the ATM for the weekend, write a cheque at the supermarket, or cash in a CD, they’ll be shut out by their banks.
And when the furious confront those banks, they’ll be told it’s an emergency and, until Monday, would they like to start procedures with the FDIC for a refund? Or accept the bank’s IOU (stocks) immediatelyfor it? (With a failing bank, stocks (aka “equities”) would be as worthless as a Confederate dollar after Appomattox.)
Forget joining fellow depositors armed with baseball bats and AK-16s to storm the banks and retrieve money on Monday. Banks will be closed. Probably ringed by paddy wagons and well-armed police with state-of-the-art equipment to handle any “disturbance.”
Worse, depositors relying on the FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation), banking’s insurer since 1933 to protect their money, probably will get none in these times. Although the law permits it to borrow $100 billion from the Treasury in an economic crisis—and face taxpayer rage once again—at the end of March, the fund had $56 billion in its coffers. It’s also expected to cover deposits of at least $26 billion from both domestic and foreign customers, but also derivatives that were at $550 trillion by February.
But the new bank bill (S. 2155), also known as the “bank lobbyists’ bill”, just signed into law by president Trump says stress tests now would be “periodic” and not required for banks holding less than $100 billion.
As financial writer Dean Baker described the bill:
[It] rolls back major provisions of the Dodd-Frank financial regulations of 2010, allowing banks to engage in riskier investment strategies and to hide discriminatory practices.
Written to protect bank customers after the 2008 crash, the Dodd-FrankWall Street Reform and Consumer Protection Act was designed
To promote the financial stability of the United States by improving accountability and transparency in the financial system, to end “too big to fail” [banks], to protect the American taxpayer by ending bailouts, to protect consumers from abusive financial services practices, and for other purposes.
In other words, in a financial collapse serious enough to cause Great Depression II, banksare forbidden to use taxpayer revenues resting in the Treasury’s vaults because of public rage in 2009 over making $700 billion of their tax monies available to banks.
Banks were then required by the FDIC and the Federal Reserve Board to hold enough money in their vaults to cover a sudden major shortage. It was guaranteed and enforced by annual and semi-annual stress-test monitoring for solvency in a financial crisis to prevent another “2008.”
But banks grew restive about the expensive and onerous time and energy spent to comply in the years since, to say nothing about being hamstrung in investments—particularly derivatives. And so such protection was significantly compromised a few days ago by the Federal Reserve Board after “intensive pressure” by the banking lobby.
It voted unanimously to “loosen restrictions on high-risk trading (aka derivatives)” by the nation’s major banks. This involves speculation. Banks were forbidden to use depositors’ money under Dodd-Frank law (DFA). But as the Fed’s chairman defended this dangerous step: “Our goal is to replace overly complex and inefficient requirements with a more streamlined set of requirements.”
The FDIC, and four other regulatory agencies will have to approve the change by fall and will take public commentin the next 60 days.
That’s the scenario planned for depositors by the banking industry on how to handle “the next one.” It makes a bail-in possible with depositors’ money.
A little history on the bail-in is in order.
This tactic was first mentioned internationally in a 2010 report to the G-20 nations as a method to prevent bank insolvency. Because the U.S. is part of the G-20, it opened the vista of subverting DFA by any creative means, plainly the practicality of immediately seizing depositors’ funds in a crash and getting away with it.
Theory turned to practice in 2012 on the Mediterranean island of Cyprus to prevent the collapse of its banking system after heavy investments in Greek bonds went sour. A portionof a depositor’s account was “levied” supposedly once only at the start: 9.9% on deposits over €100,000, 6.7% under €100,000. The banks then closed for a brief “holiday.
News of this new “rescue” source instantly spread throughout the banking worldabout how to be solvent on the nextbusiness day after a failure.
One of the bail-in advantages pointed out was that unlike the lengthy timeframe of bankruptcy proceedings, solvency can be achieved that quickly because the depositors’ monies are at hand. Such speed would also prevent bank-run riots. And any lawsuits will be dealt with far down the road.
This fait accompli tactic was suggested in June 2013 by the Reserve Bank of New Zealand’s implemental plan for a bail-in:
…the bank can be closed promptly at any time of the day and on any day of the week, freezing in full all liabilities and preventing access by customers and counterparties to their accounts.
To say the least, American banking officials warmed to the bail-in. After all, once a deposit is made—checking, savings, CDs, and other financial deals—it’s legally the bank’s property. It’s used for making for loans, paying overhead—and investing in derivatives or other avenues to swell profits.
Legally, depositors are also considered an “unsecured creditor,” the last in line to get what’s left after a bankruptcy receiver doles out the remaining assets to several parties first. In the order of restitution priorities they are: administration, the government, employee wages/commissions, benefit/pension plans, general/senior liabilities, junior obligation managers, executive/directors’ salaries, shareholders, junior partners, and “other” equity holders. So a long, long line of creditors come before depositors.
In 2016, banks could only seize deposits that were more than the FDIC’s $250,000 protection levels per account. But if a bank is about to fold, past behavior of too many officials indicate these days they’ll confiscate alldeposits now and deal with consequences later. By then, of course, they might merge with a bigger bank as did 65 of them last year, among them community banks.
How could a bail-in be possible in the U.S. in view of one of the DFA Title II sections (203:2c) that seemed to consider the depositors’ plight? The law required
…a description of the effect that the default of the financial company would have on economic conditions or financial stability for low income, minority, or underserved communities.
But all that was asked involved a “description,” not protectionof the nation’s millions of depositors.
The answer is that bail-in designers—and those bankers—regarded depositors as ignorant, unable (or unwilling) to follow banking’s changing and complex laws, much less read or understand the “fine-print” on monthly banking statements. For instance, how many know about the new S. 2155 law or its implications to their lives? Or know the now-subverted Volcker rules in the Dodd-Frank law?
They don’t because information is too complicated for most depositors to understand. Too, the mainstream media and its advertisers obviously believe viewers aren’t interested even if they were to boil key points down for comprehension. Their audiences are mostly “plain folk,” including millions of bank depositors. The media rationale seems to be that it won’t adversely affect their advertisers despite a heavy loss of customers in a crash. Or they fear the wrath of ferocious banking lobbyists and lawyers if they make explanations simple for most depositors to understand.
For instance, back in 2013 did the mainstream media feature financial writer Ellen Brown, among other columnists, warning depositors that
… our deposits, our pensions, and our public investment funds will all be subject to confiscation in a bail-in… If your bank account or pension gets wiped out, you could wind up in the street or sharing food with your pets.
Fewer still were likely to watch C-Span for even one of Sen. Elizabeth Warren’s three recent impassioned speeches begging Senate colleagues to vote “no” on passage of S. 2155, with its cynical title “Economic Growth, Regulatory Relief, and Consumer Protection Act.” In the third one, she lamented:
Now, as the bill is on the verge of passing the Senate, I want to stop and just ask: why? Who is asking us to do this? Our constituents hate it—a recent poll showed that an overwhelming majority of Americans oppose this bill. So why is it that the only thing Washington can agree to do on a bipartisan basis in this Congress is to help out giant banks?
I’ll tell you why. Washington’s amnesia is legendary. We go through the same cycle like clockwork. When the economy is looking good, lobbyists flood Congress and tell politicians it’s perfectly safe to roll back the rules on the big banks.  It’s always the same arguments: America needs more lending for more economic growth; our country is losing ground to our competitors; banks have learned their lesson and don’t need the rules to behave responsibly.  And the kicker: What could possibly go wrong?
But that “bipartisan” bill seriously affecting depositors’ money passed both Houses: 67-31 in the Senate, aided by 15 Democrats, and 225-158 in the House, thanks to 33 Democrats. Those who voted “aye” knew that most depositors voting in the November mid-terms will never go to the trouble of finding out who in Congress made it possible for banks to seize their money in another crash. The roll-call vote is listed in the links of this paragraph for depositors who want to contact or confront members of their Congressional representatives.
Moreover, most depositors seem to be considered by bankers to be impotent because to sue a bank requires hiring an attorney to fight the institution’s legion of lawyers and endless court postponements. Even successful class-action suits not only have taken years to travel through the lower courts to settle, but a U.S. Supreme Court ruling for class-action plaintiffs against a corporation these days seems unlikely given 5-4 verdicts in cases as recent as Epic Systems v. Lewis forcing employees to settle issues by having signed pre-work arbitrations agreements rather than using post-hiring collective action against management.
Also, a favorable ruling would mean reimbursing depositors and require anothertaxpayer bailout, or set off a multitude of bank failures plunging the economy into that Great Depression II. Given that choice, the Supreme Court probably will let depositors take the fall in yet another 5-4 decision.
Up to the bail-in tactic, depositors’ monies have been considered a sacred trust offered by the banks. It’s not like, say, a home or car loan in which borrowers know they face the risk of repossession if they fail to meet payments.
By contrast, depositorshand the banks their money, trusting it’s safer than under the mattress. It also earns interest because the bankis the borrower. Interest currently is about 0.01% these days, provided it’s not wiped out by a $5 monthly maintenance fee for the usual mandated balance of $300 for passbook savings accounts.
By some twisted logic, however, bankers don’t want see the difference between a mortgage holder and depositor. “Let the buyer beware” still seems to be the governing philosophy. Either transaction means the bank owns the house and deposit. Despite big promotions (perhaps a toaster) lavished on the two different customers, the ultimate treatment is comes across as contempt—especially revealed in banks now considering use of the bail-in on depositors.
So what should depositors do to protect their money from a bail-in.
Both senators Warren and Jeff Merkley were contacted after Trump signed the bill into law and asked if they planned to hopper a stand-alone bill protecting depositors in the event of the next bank crash. So far, neither has responded.
The obvious solution for depositors is to move their money to a credit union, despite the hassle of having to notify direct-depositors for Social Security, pension funds, or other incoming sums. But most credit unions take care of such switches.
Deposits up to $250,000 have been insured since 1970 by the National Credit Union Share Insurance Fund.  And as my Oregon credit union just pointed out to us members:
Credit unions might look like banks, but we’re very different. Other financial institutions are governed by stockholders who focus on making a profit. But not credit unions. We’re governed by members; we’re member focused. That means we’re focused on achieving more together, not making profits for stockholders. The difference is how we’re governed.
The only other alternatives for depositors in a bail-in still seem to be the hiding the cash under the mattress or a coffee can behind the beans and peas.
*
Barbara G. Ellis, Ph.D., is the principal of a Portland (OR) writing/pr firm. A veteran professional writer and editor (LIFE magazine, Washington, D.C. Evening Star, Beirut Daily Star, Mideast Magazine), she also was a journalism professor (Oregon State University/Louisiana’s McNeese State University). Author of dozens of articles for magazines and online websites, she was a nominee for the 2004 Pulitzer Prize in history (The Moving Appeal). Today, she contributes to Truthout and Counterpunch, as well as being a political and environmental activist.

Usa e Turchia possono mettere nei guai l'Europa

La situazione della Turchia è sempre più difficile: Ankara è finita nel mirino degli Usa. E potrebbero esserci conseguenze negative per l'Europa

Il precipitare della crisi economico-finanziaria turca non vi ha certo colti impreparati, visto che ne parlo da almeno un mese. Il problema è che ora la questione sta davvero diventando rischiosa. E a livello sistemico, qui non siamo di fronte a uno scenario argentino, ma potenzialmente venezuelano: peccato che riguardi il Paese strutturalmente e strategicamente più importante negli equilibri fra Occidente e mondo islamico, Medio Oriente in testa e, particolare non da poco, membro Nato. Quello che sta subendo la Turchia è un attacco speculativo in piena regola, un 1992 in versione 2.0: martedì la lira turca ha perso il 5,5% sul dollaro, andando abbondantemente oltre la linea di supporto psicologico di 5 sul cambio con il biglietto verde (5,42) e da inizio anno la svalutazione è ormai del 27%. Il tutto, in un Paese le cui aziende hanno un'esposizione debitoria estera monstre, come ci mostra il grafico più in basso: parliamo di circa 340 miliardi lordi (circa 215 al netto degli attivi) e con un tasso di inflazione che punta dritto verso il 20%, partendo dall'attuale 16% abbondante. Iper-inflazione, insomma. 


Per carità, sia il Venezuela che il fantasma di Weimar sono ancora lontani anni luce, ma la crisi del 2008 e quelle sovrane del 2010 ci hanno insegnato che, in un mondo finanziarizzato e interconnesso ai massimi livelli, quello dell'effetto palla di neve che muta in valanga è un rischio tutt'altro che peregrino. Per cercare di tamponare la situazione, la Banca centrale ha bruciato altri 2,2 miliardi di riserve in dollari, ma i dati macro cominciano a far paura: da inizio anno, la Borsa di Istanbul ha perso il 17% e il decennale turco ormai paga qualcosa come il 20% di rendimento. Quello obbligazionario sovrano della Mezzaluna è il peggiore a livello globale, -38% da inizio anno contro il -36% dell'Argentina. 
 
E qualcosa sta pericolosamente avvicinando i destini dei due Paesi: se infatti Buenos Aires si è strangolata con le proprie mani a vita, accettando giocoforza il prestito record da 50 miliardi di dollari del Fmi (l'alternativa sarebbe stato un altro default sul debito, temo fatale), anche per Ankara comincia a circolare la voce di un prossimo pellegrinaggio con il cappello in mano dalle parti di Washington. Certo, entrambe le parti negano, al momento, ma la propensione autolesionistica dettata da ego ipertrofico e delirio di onnipotenza di Recep Erdogan potrebbe presto cambiare lo scenario, visto che il sultano ha un'avversione tipica dei despoti populisti per le politiche di contrazione monetaria e, dall'alto del suo potere (anche familistico, avendo piazzato parenti ovunque nei gangli vitali dello Stato), sta stroncando ogni richiamo interno alla necessità di un rialzo dei tassi di interesse. 
Inoltre, rimane sempre il vulnus di base: a esacerbare e far precipitare la situazione nell'arco dell'ultima settimana ci hanno pensato le sanzioni comminate verso soggetti turchi dal Dipartimento di Stato Usa relativamente al caso del pastore evangelico, Andrew Brunson, detenuto in Turchia. Un braccio di ferro che Ankara sta combattendo in maniera abbastanza suicida non tanto per il caso in sé, quanto come proxy del vero bersaglio grosso nel mirino di Erdogan da due anni: ovvero, Fatullah Gulem, il predicatore islamico auto-esiliatosi in Pennsylvania e che il presidente turco ritiene l'ideatore del fallito golpe del 15 luglio 2016. E come ci mostra questo grafico, le sanzioni Usa hanno accelerato e appesantito di molto la svalutazione della lira. 
 
Insomma, gli Usa stanno usando l'arma finanziaria ed economica per destabilizzare la Turchia. Di fatto, la logica del "segnale inviato", infatti, è stata superata abbondantemente. Qui, ormai, siamo al ricatto. E questo grafico mette la situazione in prospettiva: fa parte - anzi, è la parte integrante - del report pubblicato martedì da Goldman Sachs, la quale fa notare che un ulteriore deprezzamento della valuta turca, esattamente in area 7,1 sul dollaro, potrebbe portare potenzialmente a un wipe-outdel capitale in eccesso delle banche turche. Di fatto, crisi totale da erosione dei buffers. E, potenzialmente, difficile da gestire senza le maniere forti, un qualcosa che Erdogan ha più volte dimostrato di non disdegnare. 
 
Insomma, siamo di fronte alla minaccia nemmeno troppo velata di uno scenario di destabilizzazione di stampo iraniano, tutto basato sulla leva economica e, quindi, del malcontento interno per le condizioni di vita. Non a caso, in Iran è guerra nemmeno più per accaparrarsi dollari a cifre folli sul mercato nero, ma direttamente verso l'oro, il bene rifugio che tesaurizza le aspettative di crisi reali. E strutturali. Gli analisti non hanno dubbi: per evitare un potenziale default, Erdogan dovrà accettare l'aumento dei tassi di interesse, forti tagli alla spesa pubblica (solitamente il detonatore delle rivolte) e quasi certamente un intervento da quantificare del Fmi. La questione, come sempre in questi casi, sta nel timing. Per Jacob Kirkegaard, senior fellow al Peterson Institute for International Economics di Washington, l'epilogo di un programma di sostegno da parte del Fondo monetario è ineluttabile ma resta una domanda dirimente: «Quanto dovrà peggiorare la situazione, prima che Erdogan ceda e tratti con il Fmi? Io penso che debba peggiorare molto». 
E, infatti, non solo il presidente turco ha annunciato contro-sanzioni, quantomeno farsesche, verso gli Usa, ma ha rincarato la dose, annunciando che Ankara non terrà minimamente conto del diktat di Washington e continuerà la propria collaborazione economica e commerciale con l'Iran. Insomma, muro contro muro. Esattamente come quello che sembra intenzionata a condurre l'Unione europea, la quale alla minaccia ultimativa della Casa Bianca («Chi fa affari con l'Iran nonostante le sanzioni, non ne farà mai più con gli Stati Uniti») ha risposto con una durezza senza precedenti, visto che Federica Mogherini ha detto chiaramente alle aziende europee che cesseranno le loro attività con Teheran in ossequio alle sanzioni Usa che andranno incontro, a loro volta, a sanzioni di Bruxelles. 
Quanto è pericolosa questa situazione? Per l'Ue tanto. Per un semplice motivo: a capo della Commissione, l'organo che formalmente garantisce lo scudo legale alle aziende Ue contro le sanzioni, c'è lo stesso Jean-Claude Juncker che non più tardi di dieci giorni fa, in visita alla Casa Bianca, ha accettato di aumentare gli acquisti di gas naturale liquefatto (Lng) statunitense come fonte alternativa a quello russo, peccato che il primo costi 175 dollari ogni mille metri cubi contro i 120-130 di quello di Mosca. Il tutto, con un'aggravante: ieri la Germania ha dato ufficialmente il via alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2, destinato appunto a portare il gas russo direttamente in Europa, oltretutto bypassando l'Ucraina. 
Insomma, qual è la posizione ufficiale europea sul tema? Qual è l'agenda? Perché attenzione, Washington ha un chiaro piano in testa: da un lato, simulare la guerra commerciale con la Cina per "mistificare" lo sgonfiamento della bolla dei mercati senza che la gente precipiti nel panico tipo 2008 e, così facendo, spingere Pechino a un Qe in piena regola. Dall'altro, scardinare l'Unione europea, competitor commerciale troppo forte e scomodo in tempi di quote di mercato che si restringono, margini che si assottigliano ed euro che compete sempre più con il dollaro. E l'atteggiamento di Juncker da un lato, ma anche di Giuseppe Conte dall'altro, ci mostrano come gli americani puntino chiaramente all'utilizzo di quinte colonne per terremotare un'Unione già non solidissima. La Turchia, poi, rientra a pieno nella strategia di più ampio respiro della Casa Bianca. Il caos ad Ankara, infatti, garantirebbe a Trump di ridiscutere l'intero assetto della Nato, una questione che ha già avanzato più volte, minacciando di togliere lo scudo di difesa Usa se gli alleati non permetteranno il concretizzarsi di due condizioni: l'aumento delle spese militari (tutto warfare che andrà a ingrassare il Pil statunitense e i bilanci delle grandi corporations che reggono il Paese) e mano libera per la fase finale del programma di allargamento a Est, ovvero quei Balcani che fanno innervosire Mosca e che vedono l'Albania pronta a diventare il nuovo avamposto militare Usa, in caso Erdogan non scenda a più miti consigli. 
C'è poi l'arma strategica: se la crisi dovesse precipitare, lo stesso Erdogan potrebbe bussare prima alla porta dell'Ue che a quella del Fmi, minacciando la fine della politica di contenimento dei flussi di migranti e la riapertura della "rotta balcanica" via terra verso il Nord. Il tutto, a meno di due mesi dalle elezioni in Baviera, fondamentali per la tenuta del governo Merkel e tutte incentrate proprio sul tema immigrazione. Gli Usa hanno dichiarato guerra globale, perché vogliono che la partita del dominio futuro si ridimensioni a un faccia a faccia contro la Cina: tutti gli altri contendenti, vanno eliminati prima. Europa in testa, prima ancora della Russia. 
Fonte: qui

OBELISCO: il tuo investimento ha reso il 99%. In negativo

E siamo di nuovo qui a parlare di Poste Italiane.
Non prendetela come una guerra personale nei confronti del colosso italiano, ma semplicemente è una mia volontà di denunciare il differente trattamento che viene spesso riservato al sistema bancario a confronto di chi, magari, non è ufficialmente banca ma si comporta da tale in tutto e per tutto.
Ricordate cosa vi avevo scritto, sempre in ambito di Poste Italiane, sull’investimento nel fondo immobiliare Vegagest? 
Bene, non è un caso unico. Qui stiamo parlando di Obelisco, un fondo immobiliare che sempre Poste Italiane ha distribuito e che sta riservando una perdita ai sottoscrittori pari al 99%.
(…)Torna di attualità il caso del Fondo Immobiliare “Obelisco” collocato da Poste Italiane Spa. Lanciato nel 2005 e pubblicizzato all’epoca come una soluzione d’investimento redditizia e a basso rischio, ebbe inizialmente un grande successo, tanto che vennero vendute ai risparmiatori quasi 70.000 quote per un valore unitario di 2.500 euro. Nessuno immaginava, tantomeno gli impiegati di PT, che di lì a poco sarebbe arrivata la crisi e con essa le minusvalenze del mercato immobiliare. (…) [Source
E chiamale minusvalenze! Ma soprattutto, i sottoscrittori che si aspettavano un’alternativa al classico librettino, pensando quindi magari ad un qualcosa di tranquillo, come la prenderanno? Non dite che l’hanno già presa, non sarebbe carino… Intanto però è evidente che si tratta dell’ennesimo caso di totale malagestione d parte di CHI doveva controllare e che NON lo ha fatto…
Il fondo immobiliare Obelisco, collocato da Poste Italiane, perde il 99%, secondo quanto segnalato da La Stampa.
Il prodotto gestito da InvestiRe (sgr del gruppo Finnat) aveva raccolto 172 milioni di euro al momento del collocamento nel 2005 (vendette 70mila quote): oggi ne vale circa tre, con un debito oltre i limiti regolamentari.
(…) Alla prevista scadenza decennale le quote del fondo erano scese dal valore iniziale di 2.500 euro a circa 650, cosicché InvestiRe si avvalse di una specifica clausaola, prorogando i termini al 31 dicembre 2018, nella speranza di una ripresa.
L’accusa ora rivolte a Poste è sul suo ruolo nella vicenda. La struttura guidata da Del Fante è sì soltanto distributore del fondo ma collocandolo tramite propri sportelli e consulenti finanziari se ne è fatta in qualche modo garante. (Source) 
Ora, permettetemi però di spezzare una lancia in favore degli amici sportellisti di Poste Italiane che hanno collocato il prodotto. Secondo voi qual è il loro livello di responsabilità? E quale invece quella di CHI ha loro imposto le vendite? E poi, come sono state vendute? E la profilatura del cliente? E inoltre, chi tutela il risparmio e vigila sulle società (CONSOB) che fine ha fatto?
Devo dirvi anche che è successo o ci arrivate da soli? Ovvero, come è possibile che abbia perso il 99%? Semplice. Era una truffa, hanno messo nel contenitore Obelisco immobili ipersopravvalutati e asset di bassissimo livello. Un che qualcuno ha utilizzato per “scaricarsi” il rischio, magari guadagnandoci anche il giusto, per poi preparare un bel pacchetto agli ignari sottoscrittori. Ignari come anche i dipendenti di Poste Italiane che ovviamente non sapevano proprio tutto di Obelisco. Anche perché siamo onesti, il mestiere del consulente (visto in modo SERIO) non si investa. E’ figlio di anni di esperienza, di corsi che mirano a specializzare e preparare delle figure professionali. Qui invece si demanda la vendita di prodotti a persone che sono paragonabili a “venditori” puri.
Eccovi il grafico dell’andamento del fondo immobiliare Obelisco. Almeno vedete che non vi racconto storie.
Ma lasciamo perdere, la cultura finanziaria della gente e degli stessi consulenti è quella che è, forse non ci meritiamo di più.
Meglio andare in vacanza. Tanto arrabbiarsi serve a poco. Fonte: qui

GERMANIA. ORDOLIBERISTA FINO AL SUICIDIO (DELLA CIVILTA’)

Due terzi delle aziende tedesche   lamentano che  le carenze infrastrutturali, a cominciare da strade e ponti fatiscenti: “L’economia ha bisogno che la logistica sia la più possibile agevole possibile”, e le condizioni infrastrutturali sono ormai di ostacolo. Lo ha stabilito dell’Istituto Tedesco del Business (IW)  che ha intervistato 2800 aziende: il 68% di esse accusano intoppi dovuti alle carenze delle infrastrutture, ossia il 10% in più   che nel 2013, quando la stessa inchiesta sulle stesse imprese, e  si erano lagnate  il 58%.  La situazione è particolarmente grave nel Nord Reno-Westfalia, il land relativamente sottosviluppato.
E non si tratta solo di strade e ponti: anche l’istruzione e i servizi digitali soffrono, le infrastrutture fisiche e intangibili, persino gli studi universitari, soffrono della scarsità degli investimenti “da parte di ogni settore del governo tedesco, nonostante che esso accumuli  attivi di bilancio da anni”,    dice che  Bruegel Institute  – che al  mistero di questa carenza di investimenti nonostante i colossali surplus con cui Berlino potrebbe pagarseli,  ha dedicato uno studio preoccupato: è infatti “il patrimonio del capitale fisso” della nazione che si sta   degradando per risparmio sulla manutenzione.
Appare così che la Repubblica Federale Tedesca applichi anche a se stessa le austerità (inutili)  che impone ai paesi-cicala  quando obbliga Grecia e Italia a   mantenere attivi di bilancio, e (tutti) il limite del 3% del deficit, e in generale a “tagliare i costi”. Ovviamente pare che Berlino  guardi alla manutenzione delle strade, ponti e ferrovie, o edifici pubblici e ammodernamenti digitali, come dei “costi”.  Inutile  opporre che questi “risparmi” in tempi di recessione sono “pro-ciclici”,m ossia  aggravano la recessione e con essa, peggiorano il  debito in rapporto al Pil (se non altro perché fanno calare il Pil): la Bundesbank, e Berlino, e l’intera popolazione tedesca  sono lì a sorvegliare che greci e italiani non vivano “sopra i loro mezzi”, e  li additano ai “mercati” perché” li  “puniscano” se provano a sforare, esigendo tassi più alti sul debito pubblico.    La scoperta che la Germania lesina in modo incredibile sui propri investimenti infrastrutturali, ci dice almeno che davvero ci crede, alla sua propria ricetta austeritaria: la applica sui di sé fino all’autolesionismo.
E’ un caso  storico di  tirchieria metafisica? Se lo è,  l’attacco di avarizia sarà sicuramente aggravato – e spingerà a fare altri “risparmi” – dai  recenti cali degli ordinativi ricevuti dall’industria tedesca. Cali ragguardevoli:  -4% a giugno rispetto al mese precedente.  Gli economisti si aspettavano un calo di solo  lo 0,4 rispetto alla crescita a maggio del 2,6.   Gli ordini dall’Eurozona sono calati del 2,7 percento, mentre gli affari con il resto del mondo sono scesi del 5,9 percento. La domanda interna si è ridotta del 2,8%. Gli economisti presumono che la ripresa in Germania sia al culmine. Pertanto, molti esperti e istituti di ricerca hanno ridotto le loro previsioni economiche per il 2018 a poco meno del due percento.
Tu NON cadrai in debito”
Il rallentamento non è  poi tanto strano,  visto che ormai il 17,3 per cento degli europei vivono sotto la soglia di povertà del loro paese  (ogni paese ha la “sua” soglia di povertà,  che si verifica quando è al 60%  del reddito ‘mediano’ della società): sono ben  87 milioni di persone – i cui consumi sono calati, e ben poco possono  comprare delle  merci tedesche. Che la povertà sia aumentata  causa l’euro e aggravata dalla gestione austeritaria tedesca della moneta,  lo mostra la divisione geografica. Sotto il 17 per cento sono Finlandia (11,6%), Danimarca (11,9), Norvegia (12,8)  Olanda (12,7);  al disopra sono Romania (dove il 25,5% della popolazione è sotto la soglia di povertà), Spagna (22,) e Grecia  (21,2), seguite da Italia (20,6) e Portogallo (19,0) – i paesi del Sud, penalizzati dall’euro forte  che ha fatto calare l’export  e, insieme, dalle cure “di risanamento” recessive, riduzione del debito, deficit, tagli di costi, privatizzazioni eccetera.
In Spagna, Grecia, Romania, oltre un abitante su 10  è in “povertà estrema”, intesa come reddito sotto il 40 per cento del mediano (attenzione: non medio, mediano).
La Grecia  è ovviamente il caso storico della crudeltà germanica: un “case  history” che spero verrà studiata un giorno alla Bocconi come esempio dei  grandi  successi della tecnocrazia europea e delle sue teorie.
Le cifre non finiscono di stupire. La “cura” e “salvataggio” della Grecia sono cominciati nel 2010. Ancora l’anno prima, 2009,  il Pil  del Paese, calcolato a parità di  potere d’acquisto, toccò 330 miliardi di dollari, nonostante già anche gli  ellenici sentissero gli  effetti della crisi finanziaria scoppiata nel  2008. Ebbene: nel 2016, il Pil è  solo di 190 miliardi di dollari: un taglio di 140 miliardi. Nel 2017, il Pil greco, trascinato dalla ripresina europea generale, è risalito microscopicamente: a  200 miliardi. Nel 2018 si aspetta cresca a 225: in ogni caso, sempre  100 miliardi in meno del 2009. Il tasso di disoccupazione è al 20% e quella giovanile al 40. Ma questo non dice ancora tutto:  il tasso di investimento è sceso dal 17,2% nel 2010 all’11,7 nel 2016. Un calo colossale  del mantenimento delle  infrastrutture – che ovviamente  si traduce, alla lunga, nella rovina di quell’ “equipaggiamento  del territorio” (strade, ponti, via ferrate, distribuzione elettrica, telecomunicazioni) che sono essenziali a un paese moderno. In altre parole un arretramento verso un sottosviluppo reso permanente  dalla rovina infrastrutturale, che rende impossibile una rinascita.
i paesi nel mondo che hanno avuto un crollo del Pil peggiore della Grecia, hanno la guerra, civile  o no,  in casa. Da noi, ha fatto tutto la BCE.
L’Italia è stata messa sulla stessa strada dai governi da Monti in poi che hanno applicato le ricette ordoliberiste dettate dalla Germania. Il tasso di investimento è sceso dal 20% del Pil al 16,% – rovina delle infrastrutture – per via dei vincoli di credito imposti dall’UE a Basilea III e le severe norme sui bilanci statali da tenere in attivo primario. Il governo Renzi, in tardiva resipiscenza,  ha creato un fondo degli investimenti, ma risibile: 1,9 miliardi per il20017, poco più  di 3 miliardi per il 2018.  Come ha  reso chiaro il professor Paolo Savona, occorrerebbero ordini d’investimento sostenuto vicini ai 50 miliardi: l’Italia deve aumentare il suo Pil del 30%  accrescere non solo l’occupazione; l’Italia ha un’enorme richiesta arretrata in infrastrutture, il turismo è vecchio   per mancanza d’investimenti,  i giacimenti artistici trascurati e incapaci di rendere, le aziende necessitano di tecnologie adeguate.

La UE diventerà un nano economico ?

Ma appena si prospetta la volontà di un rilancio della spesa infrastrutturale,  “i mercati” (essenzialmente: la Bundesbank, a cui bastano 10 miliardi per   manipolare punitivamente i nostri titoli pubblici) ci puniscono con lo spread. Se l’onere degli interessi aumenta di un solo punto percentuale,  il disavanzo annuale aumenta da 40 a 60 miliardi di euro, che vengono così sottratti agli investimenti strutturali.   Ora, in una zona monetaria non ci dovrebbe essere spread alcuno, una vera banca entrale manterrebbe uguale il rischio di credito  (rigorosamente zero) dell’eurozona.   Attenzione, perché l’arretramento  cronico finirà per colpire anche l’Italia numero 3, quella che funziona e trascinare le altre  due, la povera-culturalmente arretrata e la corrotta-parassitaria: le aziende innovative e dinamiche che hanno vinto la sfida dell’euro, superato il cambio sfavorevole, si sono rammodernate e reinventate in processi e prodotti, e adesso danno all’Italia un attivo nell’export di 40 miliardi. Per confronto, basti pensare che la altezzosa Francia ha invece un passivo dell’export –  e di 80 miliardi.
Ma i mancati investimenti infrastrutturali, che già esercitano un freno potente su  questa Italia di  che combatte e vince,  finiranno per debellare anche questi sforzi eroici. La  mitologia grillesco-meridionale anti-industriale,  non aiuta certo. Ma peggio ancora è il rifiuto   europeo (tedesco) di allentare la stretta per spese produttive  a debito. Appena si è prospettato di allentare la regolamentazione bancaria europea, la membra tedesca della BCE, Sabine Lautenschlaeger, ha strillato: “Si rischia di indebolire gli strumenti in mano ai regolatori, renderanno loro più  difficile richiedere più capitale per certi rischi…bisogna che la BCE torni ad alzare i tassi d’interesse”.
Non c’è verso, insomma.   Nemmeno di fronte all’evidenza, il tedesco cambia.  Le carenze infrastrutturali resteranno e i aggraveranno, a cominciare dalla stessa Germania che avrebbe i fondi per pagarsele, ma non lo fa perché la sua teoria impone di “tagliare i costi”.

Sabine
Una volta un ministro belga definì l’Europa “un  gigante economico, un nano politico e un verme militare”. Adesso, la UE rischia alla lunga di rendere l’Europa  anche un nano economico, in confronto alla Cina ad esempio, con le infrastrutture invecchiate a forza di risparmiare.   Qualcosa che ricorda tristemente  da vicino i meravigliosi acquedotti e le eccezionali strade di cui Roma aveva coperto l’Europa, che furono abbandonati dai barbari all’incuria o alla distruzione mentre erano incapaci di ricostruire le arcate cadute, o che loro stessi avevano tagliato per far mancare l’acqua a Roma assediata. Quei barbari erano almeno esterni, e aspiravano a diventare”romani”. Questi li abbiamo dentro,  anzi al centro, e vogliono restare tedeschi: ossia tirchie  corti.