Com’era ovvio, sull’attacco a un convoglio Onu in Siria la macchina del fango è entrata in azione a tempo di record. In testa al plotone di chi accusa l’esercito siriano e quello russo ci sono Francia, Usa e l’inutile ormai ex numero uno dell’Onu, Ban-Ki-Moon.
A vario titolo hanno puntato il dito contro Damasco e Mosca, ma hanno scordato un particolare: le prove. Chi invece ha portato tracciati radar e filmati girati dai droni, chiedendo un’indagine indipendente sull’accaduto è stato il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov.
Risposta alla sua richiesta? Casualmente, non pervenuta.
Primo, c’è un filmato girato da un drone nel quale si vede il convoglio Onu che viaggia scortato da quello che appare un mezzo blindato con un cannoncino montato sulla parte alta. Lo sappiamo con certezza perché i russi hanno seguito il convoglio con droni, proprio perché passava vicino a zone in mano ai terroristi, cessando la sorveglianza quando il convoglio è arrivato. Sotto accusa sono finiti i cosiddetti Elmetti Bianchi, una strana organizzazione sempre al seguito dei terroristi di Al-Nusra: è una sorta di Ong dei qaedisti, ma si fa passare per organizzazione umanitaria e i beoti occidentali, ovviamente, accreditano la tesi. Di più, i filmati russi dimostrano, con foto, che il convoglio non è stato bombardato dal cielo, bensì incendiato appena giunto a destinazione.
Secondo, un drone d’attacco Predator della coalizione a guida Usa si trovava in zona nel momento in cui, il 19 settembre, è stato colpito il convoglio umanitario Onu vicino ad Aleppo: lo sostiene il ministero della Difesa russo, a detta del quale il drone era decollato dalla base aerea turca di Incirlik. Stando al generale Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa di Mosca, il drone “è stato identificato” dai sistemi di rilevazione russi “come drone di tipo Predator”. L’apparecchio – sostiene Konashenkov – “è arrivato nella zona del villaggio di Uram al-Kubra, dove si trovava la colonna” di autocarri con gli aiuti umanitari, “alcuni minuti prima dell’incendio ed è andato via circa 30 minuti dopo”. Sempre stando al generale russo, il drone si trovava a un’altezza di 3.600 metri e viaggiava a una velocità di circa 200 chilometri all’ora. Smentite Usa al riguardo? Zero.
Terzo, il ministro degli Esteri americano, John Kerry, a seguito di quello che gli Usa hanno chiamato “un incidente”, ovvero il bombardamento di una colonna di militari siriani, ha chiesto l’imposizione di una no-fly zone, di fatto l’interdizione al volo per i caccia dell’aeronautica siriana. Stranamente, questa richiesta non solo garantirebbe un vantaggio sul campo enorme per Isis e ribelli moderati, ma è anche arrivata a stretto giro di posta dal cambio delle regole d’ingaggio posto in essere dai russi, i quali da oggi in poi colpiranno qualsiasi velivolo attacchi l’esercito siriano, siano essi americani o israeliani.
Quarto, pur non essendoci conferme della notizia (cosa abbastanza normale vista la delicatezza dell’accaduto), la Russia non si sarebbe limitata a portare le prove, ma avrebbe già risposto all’incidente che ha visto morire sotto il fuoco Usa una settantatina di soldati siriani. Mercoledì, infatti, le navi da guerra russe di stanza al largo della Siria avrebbero colpito e distrutto un centro di operazioni militari, uccidendo tra i venti e i trenta ufficiali dei servizi segreti israeliani e occidentali.
“Le navi hanno sparato 3 missili Kalibr sul centro di coordinamento operativo degli ufficiali stranieri nella regione di Dar al-Iza, a ovest di Aleppo presso il jabal Saman, eliminando 30 ufficiali israeliani e occidentali”, afferma l’agenzia Sputnik, citando fonti militari di Aleppo. Il centro operativo era situato nell’ovest della provincia di Aleppo, sul monte Saman, in vecchie cave. Diversi ufficiali di Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Qatar e Regno Unito sono stati eliminati assieme a ufficiali israeliani: questi ufficiali, eliminati nel centro operativo di Aleppo, dirigevano gli attacchi dei terroristi su Aleppo e Idlib. Se fosse confermata, la notizia avrebbe un doppio valore strategico, perché proverebbe il coinvolgimento diretto di servizi segreti occidentali e israeliani al fianco di ribelli e terroristi in Siria, ma anche la volontà della Russia di smettere con la diplomazia e rispondere colpo su colpo, anche contro forze di sicurezza occidentali.
Quinto, sempre parlando di navi russe e sempre mercoledì, Mosca ha annunciato che la portaerei Admiral Kuznetsov, la più grande della flotta, sarà dispiegata davanti alle coste siriane, per rafforzare le capacità militari in appoggio alle truppe governative. “Al momento il dispiegamento navale russo nell’Est del Mediterraneo consiste in sei navi da guerra e tre di sostegno logistico”, ha detto il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, e al gruppo si unirà la Kuznetsov. Il fatto che la Russia abbia appena sentito il bisogno di compiere una dimostrazione di forza navale ancora più rilevante implica che ben presto anche gli Stati Uniti risponderanno prontamente alla mossa russa. C’è da dubitare che questi sviluppi porteranno a una de-escalation delle ostilità nella regione, tanto più che quella portaerei dispone di un sistema completo di difesa che contempla che l’utilizzo di sottomarini e caccia torpedinieri.
Sesto, la malafede di Onu e Usa quando si parla di Siria è sostanziata anche da altro. Parlando al Palazzo di vetro nel giorno del suo addio, Ban-Ki-Moon ha detto che “nessuno ha ucciso tanti siriani come Assad”, provocando lo spellamento delle mani dei vari papaveri presenti in sala. La risposta siriana non si è fatta attendere, visto che il ministero degli Esteri ha ricordato come il Segretario generale “è stato protagonista dello scandalo di ritirare il rapporto che ha condannato l’Arabia Saudita in cambio di un pugno di dollari”. E non scordiamoci l’altro capolavoro di Ban-Ki-Moon, ottenuto con l’appoggio americano: mettere l’ambasciatore saudita all’Onu a capo del Comitato consultivo per i Diritti Umani. Tanto per restare in tema, sempre mercoledì il Senato Usa ha dato via libera alla vendita di armi all’Arabia Saudita per un controvalore di 1,5 miliardi di dollari, bocciando l’atto di veto presentato da alcuni membri del Congresso. Tutte armi che andranno ad ammazzare donne, vecchi e bambini in Yemen: ma di quelli, chissenefrega.
Come vedete, lo cose non stanno esattamente come vi raccontano Repubblica e Corriere o come ve le mostrano i telegiornali: da un lato, infatti, c’è chi porta le prove a discarico della propria colpevolezza, dall’altra c’è chi denuncia a vanvera, forte però dell’appoggio mediatico pressoché assoluto e di istituzioni corrotte come l’Onu. Ve lo dico sempre, ma adesso più che mai: informatevi da più fonti, cercate riscontri e prove, non accettate passivamente le versioni ufficiali.
E aggiungo, se permettete, anche una nota di campanilismo e pragmatismo. “L’Italia sta perdendo quote di mercato importanti nell’export verso la Russia”, questo l’avvertimento lanciato mercoledì dall’ambasciatore di Mosca, Sergey Razov, parlando a Bolzano al Seminario Italo-russo organizzato dall’Associazione Conoscere Eurasia, dal Forum Internazionale di San Pietroburgo e dalla Camera di Commercio di Bolzano. “Se fino allo scorso anno eravate saldamente il nostro quarto Paese fornitore, ora siete il quinto”. Scavalcati da chi? Dagli Usa, ovviamente, cioè da coloro che hanno imposto all’Europa di applicare il blocco commerciale alla Russia: “Questo giusto per far capire a chi giovano le sanzioni”, ha spiegato l’ambasciatore.
Stando a un report della Cgia di Mestre, dal 2014 (anno della loro introduzione) le sanzioni sono costate al nostro made in Italy 3,6 miliardi di euro, quasi tutti ascrivibili al comparto manifatturiero (macchinari, abbigliamento, autoveicoli, metallurgia, mobili, elettronica) e il crollo delle esportazioni ha coinvolto sopratutto le imprese della Lombardia (-1,18 miliardi), dell’Emilia Romagna (-771 milioni) e del Veneto (-688 milioni). Non solo, ma stando agli ultimi dati resi noti ieri al seminario di Bolzano, nei primi 6 mesi del 2016 gli scambi hanno registrato un’ulteriore perdita del 48,8%. Dei veri strateghi, non c’è che dire.
Mauro Bottarelli
DI MAURO BOTTTARELLI