9 dicembre forconi: 06/21/16

martedì 21 giugno 2016

Siamo stati a un pelo dall'apocalisse nei cieli siriani.

Siria“Caccia Usa e russi si sono affrontati sui cieli della Siria. I F-18  si sono levati perché Putin stava facendo bombardare i ribelli protetti dal Pentagono!”. Così il Daily Mail.

Il 17 giugno siamo arrivati a un pelo dalla guerra mondiale. Secondo la versione occidentale, quando gli F18 statunitensi sono arrivati, hanno intimato ai russi di andarsene, e i Sukoy se ne sono andati. Ma quando gli F-18  sono andati via per  rifornirsi, i russi sono tornati – ed hanno finito il lavoro.

“E’ un atto oltraggioso che deve essere spiegato, ha detto furioso un alto ufficiale americano al Los Angeles  Times: “o i russi non controllano le proprie forze, o è stato  un atto deliberato, provocatorio. Aspettiamo risposte”.  Ed hanno convocato i russi per una teleconferenza di “spiegazione”. Il generale Igor Konashenkov, portavoce  del ministero russo della Difesa, ha spiegato:  la località colpita (At-Tanf) si trova a oltre 300 chilometri dalle località prima designate degli Usa come controllate dalle forze legittime d’opposizione; secondo, i  comandi russi hanno chiesto da mesi agli americani  di condividere informazioni sulle  varie forze in azione in Siria, senza mai ottenere risposta.

La versione di Mosca

La versione russo-siriana è questa: da quando è stato instaurato in Siria il cessate-il-fuoco (per iniziativa russa), Obama non ha rispettato  gli impegni, di separare i “ribelli moderati” sostenuti dagli Usa, da Al Qaeda.  In aprile, i ribelli sostenuti dal Pentagono, ed Al Qaeda, si sono riuniti per attaccare il governo siriano a sud di Aleppo. Le forze americane-per-procura hanno violato il cessate il fuoco. Ora, esistono ben due risoluzioni Onu che decretano che Al Qaeda in Siria deve essere combattuto, essendo non una forza d’opposizione legittima ma terrorista. Ma gli americani,  almeno per due volte,  hanno chiesto alla Russia di non bombardare Al Qaeda… sostenendo che non è loro possibile separare i  loro ribelli ‘moderati’ da Al Qaeda, e un attacco ad Al Qaeda avrebbe colpito i loro amici ‘moderati’. Cosa strana, ‘moderati’ e Al Qaeda  sembrano quasi indistinguibili, tanto sono intrecciati.


Il ministro degli esteri Lavrov ne ha parlato ripetutamente a Kerry ottenendo la stessa risposta: non bombardate Al Qaeda, perché lì ci sono i ribelli nostri.  Dopo quattro mesi,  i russi si sono fatti questa strana idea:  che gli americani non vogliono affatto metter fine alla guerra in Siria, né risolvere la questione a un tavolo negoziale.

Essi vogliono vedere le loro esigenze soddisfatte al 100 per cento: Assad must go, la dissoluzione dello stato siriano, e  la sua sostituzione con una amministrazione terrorista (americana-per-procura) in Siria. A  poco  a poco , i ribelli protetti dagli americani, violazione dopo violazione, rodevano la carta delle riconquiste russo-siriano-iraniane.  Nell’ultimo contatto, Kerry ha detto a Lavrov che hanno bisogno di altri tre   mesi per distinguere bene i loro terroristi buoni dai terroristi cattivi – come ha spiegato lo stesso Lavrov al Forum di San Pietroburgo: “E’ una tattica per mantenere un legame con il Fronte al Nusra (Al Qaeda) e usarlo più tardi per rovesciare Assad”.
Ed  hanno colpito.  Il loro bersaglio è stata  una piccola base, in una zona desertica e disabitata,  a prossimità del confine con la  Giordania e l’Irak, dove circa 180 ribelli  si addestravano in un programma del Pentagono,  ufficialmente per lottare contro Daesh…Appena attaccati, i ribelli hanno infatti chiesto il soccorso aereo americano telefonando al centro  di comando Usa basato in Katar, da cui il Pentagono  orchestra gli attacchi aerei quotidiani “contro lo Stato Islamico” (coi noti risultati); decollati in gran fretta, gli F-18 hanno intimato ai SU-34 di andarsene,  tramite un canale diretto di comunicazione. I russi sono scomparsi e poi, come già detto, quando gli americani si sono allontanati per rifornirsi, sono tornati. Base distrutta. Almeno due vittime fra i ribelli  americanofili. Il portavoce del  Cremlino, Dimitri Peskov, ha dichiarato ai giornalisti  che era difficile, dal cielo, distinguere i diversi gruppo d ribelli (sottinteso: se non ci riescono gli americani…Non manca mai di umorismo putiniano, Peskov).
Attenzione: Al Qaeda non è nella posizione attaccata dai russi, e i russi lo sapevano bene. L’area di At-Tanf è occupata dai ribelli che combattono protetti dalle artiglierie americane posizionate nella vicina Giordania e in Irak, e quasi certamente sotto l’assistenza (il comando?) di forze speciali britanniche e  giordane, come forse tutti gli alti combattenti “siriani” anti-Assad e formalmente anti-IS: dunque i russi hanno mandato un segnale. Finché  gli Usa non separano chiaramente i loro ribelli preferiti da Al Qaeda,  tutte le forze che loro sostengono saranno colpite  senza distinzione, dovunque (senza santuari) e in qualunque momento.
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Il ministro della difesa Sergei Shoigu con Assad.
Da qui, si impongono  due considerazioni.
  • Le forze russe non si sono lasciate per nulla intimidire dai ruggiti bellicisti che vengono da Washington, ultima la lettera di 51 diplomatici e funzionari del Dipartimento di Stato che esigono da Obama di attaccare la Siria ed abbattere Assad immediatamente (prima che i ribelli preferiti vengano erosi dall’iniziativa siriana). Mosca ha dato un segnale chiaro: non lascerà che il cessat-il-fuoco venga sabotato dagli americani e dai loro terroristi teleguidati.
  • Ancora una volta, l’azione militare russa ha colto di sorpresa le forze americane, e  ne accortamente paralizzato  la reazione, sfruttando  audacemente una “finestra di opportunità politica” offerta loro da Washington: Obama non può innescare la terza guerra mondiale  a pochi mesi dall’uscita di scena, ed esiste una visibile frattura tra il Pentagono e la Cia, che ha i “suoi” ribelli-terroristi preferiti, e  segue gli interessi sauditi e la loro strategia, più che quella del Pentagono.  Mosca ha giocato d’azzardo ed ha vinto, in questa partita di poker atomico vedendo il bluff statunitense – è il modus operandi tipico di Shoigu  e dei comandi russi:  audacia, fredda assunzione di rischi, e sorpresa  con acuta  valutazione delle falle ‘politiche’ del nemico.

Le  forze che i russi hanno colpito a Tanf erano la base di quelle che gli USA avevano presso di lasciar espandersi a Nord, verso la città di Deir Ezzor,  teoricamente per disfare lo Stato Islamico, in realtà per instaurare una “entità sunnita” sotto controllo americano che dovrebbe coprire il Sud-Est della Siria e l’Oves dell’IraK, dividendo la Siria in due. Insomma dovevano far fallire l’operazione di riconquista di Deir Ezzor  da parte di forze siriane ed Hezbollah:  centinaia di siriani hanno tenuto un aeroporto isolato di Eir Ezzor nonostante i violentissimi attacchi dello Stato Islamico, testa di ponte per una  battaglia   di liberazione di Deir Ezzor nei prossimi mesi. Il piano americano, come si vede, era sostituire Daesh con un Daesh 2.0.  Per adesso, hanno fallito.  La terza guerra mondiale è stata a un pelo.

La prossima volta, come andrà? I neocon sanno di avere poco tempo. Dopo l’uscita di Steinmeyer sulla NATO “warmongering”,  le crepe in Europa sulla politica  bellicista NATO sono lì da vedere. Come per caso, un aereo della Air Berlin è stato costretto ad atterrare per un allarme bomba, lanciato dallo “Stato Islamico Europa”. Si sa che lo Stato Islamico interviene sempre, a difendere e proteggere la NATO.

L’articolo Siamo stati a un pelo. Nei cieli siriani. è tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.

Soros: il collasso dell’UE trasformerà la Russia in potenza mondiale

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Il multimiliardario George Soros pensa che mentre l’UE si sta sgretolando la Russia si stia trasformando in una potenza mondiale. Lo ha reso noto la Reuters.

Intervenendo all'evento "Russia Aperta", organizzato a Londra da Mikhail Khodorkovskij, Soros ha osservato che la situazione attuale per molti aspetti è simile alla storia della formazione e della prosperità dell'unione sovranazionale europea durante il crollo dell'Unione Sovietica.

Ieri è stato pubblicato un articolo di Soros sul quotidiano britannico Guardian, in cui ha messo in guardia Londra da un possibile "venerdì nero" già il giorno successivo al referendum, nel caso in cui gli elettori voteranno a favore dell'uscita della Gran Bretagna dall'UE. Secondo Soros, la sterlina britannica crollerebbe al livello dell'euro, e la maggior parte dei britannici si impoveriranno.

Nei primi di giugno, Soros ha dichiarato che esistono "buone probabilità" che l'UE vada in frantumi a causa della crisi migratoria, alle continua difficoltà della Grecia e alla potenziale uscita della Gran Bretagna. "Se la Gran Bretagna se ne va, questo potrebbe innescare un esodo generale e la disintegrazione dell'Unione Europea sarà quasi inevitabile", ha affermato il noto speculatore finanziario.

George Soros è un finanziere e investitore americano. È spesso considerato uno speculatore finaziario. Nota è anche la sua partecipazione politica. Soros è stato, in particolare, promotore delle rivoluzioni "di velluto" o colorate(perfino in Russia!) del 1989, che hanno portato alla caduta dei regimi comunisti nell'Europa Orientale. Ci sono prove del suo coinvolgimento nella "rivoluzione delle rose" avvenuta in Georgia nel 2003.

Fonte: qui

Il Pakistan denuncia gli USA all’ONU: ”Basta con i vostri droni, state massacrando la nostra popolazione”

droniIl Pakistan ha denunciato gli attacchi sistematici dei droni statunitensi contro il proprio territorio con il pretesto della lotta contro il terrorismo.


La rappresentante permanente del Pakistan davanti all’Organizzazione delle Nazioni unite, Tehmina Yanyua, ha accusato il silenzio dei media occidentali e degli organismi internazionali davanti al massacro di civili che è stato causato dalle incursioni dei droni senza pilota. 


Il comunicato della Cancelleria Pakistana ha richiesto una risposta dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU davanti alle violazioni dei diritti umani e la perdita di vite preziose causate dagli attacchi dei droni.

L’ambasciatrice ha esortato la comunità internazionale ed il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU a seguire da vicino le violazioni dei diritti umani che si producono  come risultato degli attacchi aerei illegali. 


La diplomatica ha aggiunto che i sistematici attacchi di aerei senza pilota degli USA violano anche la carta dell’ONU ed il diritto internazionale.
Dall’invasione dell’Afghanistan avvenuta nel 2001, il Pentagono realizza, su ordine diretto di Obama (premio Nobel per la Pace), bombardamenti contro presunte posizioni del gruppo terrorista dei Talebani nel territorio pakistano, cosa che ha provocato le critiche delle autorità del paese ed il forte risentimento contro gli statunitensi   delle popolazioni colpite .
Islamabad ha qualificato come una violazione della sua sovranità territoriale i voli dei droni statunitensi nel suo spazio aereo, operazioni che hanno causato la morte di centinaia di civili inermi ed una forte reazione di odio da parte della popolazione delle aree interessate che hanno manifestato la loro rabbia e la loro condanna.
Proteste contro attacchi dei droni USA
Proteste contro attacchi dei droni USA
I droni USA colpiscono indiscriminatamente qualsiasi assembramento di persone, come ad esempio feste di matrimonio o gruppi di bambini che giocano all’aperto. Come sostenuto anche da varie organizzazioni internazionali , queste azioni sono considerate veri e propri crimini di guerra la cui responsabilità ricade sulle autorità statunitensi ed in paticolare sul Presidente Obama (premio Nobel per la Pace) che ha autorizzato queste operazioni omicide.
Le operazioni dei droni USA vengono realizzate non solo in Pakistan ma anche in altri paesi come la Somalia, il Sudan, lo Yemen, la Siria, l’Iraq ed altri. Alcune di queste operazioni vengono dirette e partono da basi americane in Sicilia (Sigonella).
Fonte: Al Mayadeen
Traduzione e sintesi: Luciano Lago
Fonte: qui

Petrolio, cancellati investimenti per mille miliardi di dollari

Petrolio investimentiAlmeno mille miliardi di dollari di investimenti sono sfumati in seguito al crollo del petrolio. E i tagli rischiano di continuare, con possibili gravi conseguenze in un prossimo futuro: nel giro di 3-5 anni potrebbe essere impossibile anche solo compensare il naturale declino dei giacimenti.

Due nuovi studi, realizzati da società di consulenza, rilanciano con forza l’allarme sulle carenze di offerta che si delineano all’orizzonte, dopo il boom di produzione degli ultimi anni. Gli investimenti in conto capitale destinati a sviluppare nuovi giacimenti tra il 2015 e il 2020 sono state ridotti del 22%, ossia di 740 miliardi di dollari, stima WoodMackenzie, e se si includono i tagli alle spese di esplorazione la cifra supera 1.000 miliardi.

Le conseguenze cominciano già a manifestarsi: quest’anno tra petrolio e gas ci sono 5 milioni di barili al giorno in meno rispetto a quanto ci si aspettasse, avverte la società, mentre l’anno prossimo mancheranno all’appello altri 6 mbg, pari al 4% dell’offerta.

Drammatiche sono le conclusioni a cui arriva un’altra ricerca, realizzata da Deloitte: i budget di investimento delle compagnie (escluso Medio Oriente e Nord Africa) sono stati più che dimezzati negli ultimi due anni, col risultato di scendere «al di sotto del livello minimo necessario non tanto per soddisfare la crescita della domanda, ma anche solo per compensare il declino delle risorse». Fra 3-5 anni è dunque prevedibile che la produzione sia inferiore ai livelli attuali. E rimediare non sarà facile: se il petrolio resterà intorno a 55 $/barile, Deloitte teme che ci sia un gap di finanziamenti fino a 2mila miliardi di dollari.
Anche con consumi deboli e costi bassi, stima la società di consulenza, tra il 2016 e il 2020 l’industria petrolifera avrebbe bisogno di investire almeno 3mila miliardi di $ (più altri 2.700 miliardi nell’area Mena). Si tratta di 600 miliardi l’anno, ossia il 40% in più di quanto è atteso per il 2016. Un altro miliardo sarà necessario nei prossimi 5 anni per i dividendi - che ben poche compagnie hanno ridotto - e a servizio del debito, con 590 miliardi di obbligazioni che andranno a scadenza entro il 2020. La priorità, teme Deloitte, non sarà il capex.
L’impatto della caduta dei prezzi del petrolio è stato «enorme», osserva WoodMackenzie, e ha colpito quasi tutti i Paesi produttori. L’unica area risparmiata è stata il Medio Oriente, dove l’Arabia Saudita e altri continuano a investire «per mantenere le quote di mercato». Il crollo del barile ha avuto viceversa conseguenze drammatiche per lo shale oil: solo tra il 2016 e il 2017 negli Stati Uniti sono stati cancellati 125 miliardi di investimenti - ossia oltre la metà - e altri 200 miliardi di tagli sono attesi entro il 2020. La situazione è molto grave anche nel Mare del Nord e in Russia, con riduzioni del capex intorno al 40%, che tuttavia nel secondo caso sono legate in buona parte al deprezzamento del rublo.
Anche la discesa dei costi influisce, ridimensionando le cifre destinate allo sviluppo di nuove risorse. «Tuttavia - avverte WoodMackenzie - per innescare il prossimo ciclo di investimenti ci vorranno una maggior deflazione dei costi e un’ulteriore ottimizzazione dei progetti, insieme alla fiducia che i prezzi saranno più alti e a nuovi incentivi fiscali».
Il mercato per ora non si lascia condizionare. Nella generale fuga dal rischio innescata dall’ipotesi Brexit, il prezzo del petrolio ieri è sceso per la quinta seduta consecutiva, come non accadeva da febbraio. Nonostante il calo delle scorte petrolifere negli Usa, il Brent ha chiuso a 48,97 $ (-1,7%), il Wti a 48,01 $ (-1%).
A frenare il barile contribuisce anche il timore che lo shale oil possa tornare a crescere. Secondo Citi gran parte dei pozzi perforati ma non ancora sottoposti a fratturazione idraulica (i cosiddetti DucDrilled but uncompleted) sono remunerativi col petrolio a 50 $ e se completati potrebbero riportare sul mercato fino a un milione di barili di greggio al giorno. Goldman Sachs - che definisce «fragile» la recente ripresa dei prezzi - suggerisce addirittura che ci potrebbe essere una ripresa anticipata degli investimenti brownfield, ossia a base zero: «Questo è un ciclo di investimenti breve, che come nel 2009 potrebbe portare a forte rimbalzo della produzione», sostiene la banca, che tuttavia su questo punto è piuttosto isolata.
Fonte: qui

Petrolio, le società Usa cancellano un quinto delle riserve (e non è solo colpa dei prezzi)

Più di nove miliardi di barili di petrolio sono scomparsi.

Non dal terreno, forse (anche se non è detto che ci fossero proprio tutti) ma certamente dai bilanci delle società americane, che hanno dovuto cancellarli dalle categoria delle riserve provate: l’unica che conti davvero, perché - identificando le risorse che saranno verosimilmente estratte nel breve termine - rappresenta il più prezioso patrimonio e la garanzia dell’esistenza futura di una compagnia.

La riduzione delle riserve è in parte l’effetto - peraltro prevedibile - della caduta dei prezzi del greggio, ma ad accentuare il fenomeno ha contribuito anche la maggiore severità della Sec, l’autorità di mercato statunitense, che secondo l’agenzia Bloomberg negli ultimi mesi ha forzato diverse società attive nello shale oil ad adottare un approccio più realistico. Secondo la definizione ufficiale imposta dalla stessa Sec, si possono infatti conteggiare come riserve provate solo gli idrocarburi che, allo stato attuale delle tecnologie, hanno la ragionevole certezza di essere estratti con profitto nei prossimi 5 anni.
In teoria non c’è spazio per la discrezionalità. Fin dal 2009 la Sec aveva precisato che le compagnie devono predisporre un preciso programma operativo: «Il mero intento di sviluppare le risorse, senza nient’altro, non costituisce l’adozione di un piano di sviluppo». Finché il petrolio quotava oltre 100 dollari al barile la Consob americana aveva chiuso un occhio sui fracker, che spesso che vantavano riserve strabilianti. Ma quando è arrivata la crisi molte di queste società, cariche di debiti e sempre più incapaci di finanziarsi, hanno rallentato l’attività al punto da rendere inverosimili i loro programmi di sviluppo a 5 anni.
Il pressing della Sec, secondo Bloomberg, si è indirizzato in particolare su Ultra PetroleumGoodrich PetroleumLinn Energy e Penn VirginiaTutte sono finite in bancarotta negli ultimi mesi, dopo un drastico taglio delle riserve provate: un asset che molto spesso le compagnie utilizzano come collaterale per ottenere credito.
Il crollo del petrolio resta comunque il fattore principale all’origine del calo delle riserve provate, il più drammatico dal 2009: per 59 compagnie quotate negli Usa è stato di oltre il 20%, per la precisione di 9,2 miliardi di barili. La relazione tra il declino dei prezzi e delle riserve è automatica, perché la Sec ha stabilito parametri precisi anche per determinare quali risorse sia possibile estrarre con profitto: il riferimento da utilizzare è il “price deck” ufficiale, che consiste nella media aritmetica delle quotazioni del Wti registrate nel primo giorno di contrattazione di ciascuno dei dodici mesi precedenti.
Il particolare metodo di calcolo negli ultimi due anni ha protetto le compagnie da contraccolpi: fino a tutto il 2015 - anche se il petrolio crollava dall’estate 2014 - si potevano considerare riserve provate anche i barili che per essere redditizi avrebbero richiesto prezzi superiori a 90 dollari. Ora però la festa è finita. La discesa del greggio è stata così prolungata da filtrare finalmente al price deck: per il 2016 valgono solo i barili che vanno a breakeven a 50,13 $, il 48% in meno rispetto all’anno scorso.
Le riserve provate sono una categoria dai confini fluidi, che tornerà ad allargarsi con una risalita dei prezzi del greggio e/o con l’introduzione di nuove tecnologie, che abbassino i costi di estrazione. La revisione tuttavia è una batosta non indifferente, che ha colpito non solo gli operatori dello shale oil, ma anche le Majors, che vedono aggravarsi una situazione già difficile. Con un taglio di oltre mille miliardi alle spese in esplorazioni e sviluppo di giacimenti, l’anno scorso le scoperte di idrocarburi sono crollate ai minimi dal 1952 (si veda il Sole 24 Ore del 16 giugno e del 25 maggio). Anche l’M&A - altra strada per acquisire riserve - si è fermato, col risultato che tra le maggiori compagnie integrate, solo EniTotal Chevron nell’ultimo esercizio hanno più che compensato le risorse estratte. Persino il gigante ExxonMobil, per la prima volta da 22 anni, ha registrato un tasso di sostituzione delle riserve inferiore al 100%, fermandosi al 67%.
Fonte: qui

Francia, la protesta del poliziotto: nega la stretta di mano al presidente Hollande: «Ci mancano i mezzi per lavorare»

Schermata-2016-06-18-alle-13.07.42Plateale gesto di protesta durante la cerimonia per la coppia di agenti uccisi da Larossi Abballa, Jean-Baptiste Salvaing e Jessica Schneider, a Versailles, vicino a Parigi. Un poliziotto si è infatti rifiutato di stringere la mano sia al Presidente Hollande che al Premier Valls.

​L'esponente delle forze dell'ordine, ritto sull'attenti, al passaggio delle due autorità è rimasto fermo e imperturbabile, tra lo stupore generale. Con Valls il poliziotto ha anche scambiato qualche frase, e il Premier francese si è detto per nulla offeso dal gesto, che merita comprensione.

​Raggiunto dai giornali alla fine della cerimonia, l'uomo ha spiegato che il suo era un gesto di protesta e che "ci sono troppi problemi nella polizia, non ne possiamo più, chiediamo fatti".

Ha poi continuato spiegando che nel paese dove abitava il killer dei suoi colleghi  Aballa, la polizia ha 3 macchine per 40 agenti.

​Lamentele simili sono all'ordine del giorno anche nel nostro paese. Le forze dell'ordine lottano quotidianamente con scarsità di mezzi e stipendi all'osso. Quello dell'agente francese è un gesto che fa riflettere, in un periodo di grandi proclami sulla sicurezza da parte dei governi, a chi si occupa della sicurezza dei cittadini non possono mancare mezzi e risorse.

Fonte: qui