martedì 7 maggio 2019
TRA I MILITARI CRESCE IL MALCONTENTO CONTRO L’OPERATO DEL MINISTRO DELLA DIFESA
SE PURE I GENERALI, ABITUATI ALL’OBBEDIENZA, SONO ARRIVATI A QUESTO PUNTO, SIGNIFICA CHE SIAMO ARRIVATI A UN PUNTO DI NON RITORNO
L’ISTRUTTORIA SUL GENERALE PAOLO RICCÒ, IL RIORDINO DELLE CARRIERE, L’INFLUENZA DI LUIGI DI MAIO E L’INSOFFERENZA DI SALVINI: TUTTI I FRONTI APERTI
Chiara Giannini per “il Giornale”
Il malcontento tra i militari cresce. Le esternazioni del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, in seguito all' apertura di un' istruttoria nei confronti del generale Paolo Riccò, che lo scorso 25 aprile aveva abbandonato la cerimonia della festa della Liberazione a Viterbo in seguito agli attacchi dell' Anpi, non sono piaciute né alla base né ai vertici delle Forze armate. Sui social la polemica si è scatenata, tanto che è stato creato un gruppo, che conta oltre 4.400 iscritti, dal nome «Io sto con il generale Paolo Riccò».
Il fatto è che il ministro, nel corso del suo anno di mandato, ha fatto un sacco di promesse, ma ne ha mantenute poche, a partire da quelle sul riordino delle carriere, tanto che un delegato Cocer ha dovuto fare, nel silenzio più assoluto della Difesa, 40 giorni di sciopero della fame per avere le rassicurazioni del caso dal premier Giuseppe Conte.
I militari sono abituati all' obbedienza, al rispetto dell' istituzione, per cui se sono arrivati a questo punto è perché davvero non ne possono più dell' agire dei 5 stelle. Tutto passa per la piattaforma Rousseau, con decisioni che cadono dall' alto.
«La Trenta - racconta un ufficiale - è una brava persona, ma è nelle mani di Di Maio e dei pentastellati. Non ha un suo vero potere decisionale. Il problema non è lei, ma i suoi più stretti collaboratori, che ci chiediamo: sono stati scelti dal ministro o da qualcun altro?». A far infuriare ancora di più sono i recenti attacchi al ministro dell' Interno, Matteo Salvini, i cui consensi sono in crescita anche in ambito Forze armate.
Il vicepremier non manca ogni volta di avere premura per le divise e questo piace ai militari, che si sentono, invece, con i 5 Stelle, in mano a dilettanti allo sbaraglio. E il malcontento tocca davvero tutti i livelli, malgrado le apparenze.
Il generale di brigata in ausiliaria Vincenzo Liguori ha scritto ieri su Facebook, dopo che la Trenta ha cancellato un suo commento: «Lei parla tanto di trasparenza, ma applica la censura nella peggiore forma di bolscevica memoria! Il mio pensiero non offendeva nessuno ed era riferito agli aspetti tecnici delle procedure di accertamento da lei poste in essere e reclamizzate. La sua reazione avvilisce qualsiasi tentativo di dialogo, riducendolo al mero o ti schieri con e mi ossequi o ti cancello! Questa non è democrazia».
Il tenente Alessandro Scano, del reggimento Lanceri di Montebello, ferito nel 1993 nei combattimenti di Mogadiscio, non usa mezzi termini sulla vicenda del generale Riccò e si chiede quale sia «l' opportunità, data la gravità e la risonanza mediatica, di verifiche e accertamenti che sono legittimi e previsti dalla legge. Ma anche circa l' opportunità da parte di esponenti dell' attuale governo di pubblicare i propri giudizi sui social». Ricordando il curriculum di Riccò, specifica: «Per noi, la sofferenza e il valore sul campo, non hanno colore.
Chiariscano i politici, nei loro ambiti parlamentari e non nelle cerimonie ufficiali, le loro differenze e soprattutto le loro contraddizioni senza riversare la loro bile ideologica su di noi, sulle nostre famiglie e, peggio, sui nostri caduti». E conclude: «Noi siamo già tutti con Paolo Riccò».
Il generale Marco Bertolini, ex comandante del Comando operativo di vertice interforze, candidato alle Europee per Fdi, avanza critiche: «Si sta trasformano una vicenda spiacevole, che poteva essere sbrigata con un encomio solenne all' interessato, in un assist per chi sta cercando di distruggere le Forze Armate; che non sono proprietà del ministro, né della coalizione di governo, ma di tutti gli italiani».
Fonte: qui
UN PAESE DIVISO TRA POVERI CRISTI E SOLITI FURBI
IL 12% DEGLI ITALIANI PAGA IL 58% DELLE TASSE - IL 49,3% DICHIARA DI NON AVERE REDDITO E QUINDI NON PAGA NULLA. 27,3 MILIONI DI ITALIANI PAGANO IN MEDIA 157 € L'ANNO DI TASSE, PRATICAMENTE ZERO CONTRIBUTI, E SARANNO TUTTI A CARICO DELLA COLLETTIVITÀ IN FUTURO.
I 467MILA CONTRIBUENTI CHE GUADAGNANO IN MEDIA 52MILA EURO NETTI L'ANNO PAGANO IL 19,35% DI TUTTA L’IRPEF
Alberto Brambilla e Paolo Novati (Centro Studi Itinerari previdenziali) per ''L'Economia - Corriere della Sera''
I numeri che non tornano
Politica e media, quasi tutti, sono concordi: siamo un Paese «strozzato» dalle tasse. E, dunque, bisogna ridurre le aliquote, introdurre la flat tax, aumentare le agevolazioni o la no tax area. Sono molte e tumultuose le proposte per porre rimedio al problema. Ma è proprio così? Dalle elaborazioni effettuate da «Itinerari Previdenziali» su dati del ministero dell’Economia e dell’Agenzia delle Entrate non sembra proprio.
Un primo dato: su 60,48 milioni di cittadini residenti a fine 2017, quelli che hanno presentato la dichiarazione dei redditi (i contribuenti dichiaranti) sono stati 41.211.336, ma quelli che versano almeno un euro di Irpef sono 30.672.866. Possiamo dedurre che il 49,29% degli italiani non ha reddito e quindi non paga nulla di Irpef. Non è oppresso.
Quanti sono a carico (e non lo sanno)
Ma un altro dato è più eclatante: i contribuenti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 lordi l’anno e da 7.500 a 15 mila euro) sono 18.622.308, pari al 45,19% del totale e pagano solo il 2,62% di tutta l’Irpef (2,82% nel 2016). A questi contribuenti corrispondono 27,331 milioni di abitanti i quali, considerando anche le detrazioni, pagano in media circa 157,9 euro l’anno e, di conseguenza, si suppone anche pochissimi contributi sociali, e quindi con molte probabilità saranno dei futuri pensionati assistiti dalla collettività.
Tra i 15 mila e i 20 mila euro di reddito lordo annuo dichiarato (17.500 euro la mediana) troviamo 5,8 milioni di contribuenti pari a 8,5 milioni di abitanti. Questi contribuenti pagano un’imposta media annua di 1.979 euro, che si riduce a 1.348 euro se rapportata agli abitanti; anche questa fascia di reddito paga un’Irpef insufficiente per coprire il costo pro capite della sola spesa sanitaria. I 1.979 euro di Irpef potranno sembrare tanti, ma se la politica facesse ragionare la gente anziché dire che le tasse sono troppo alte, farebbe comprendere che una gran parte degli italiani sono già oggi «a carico» di altri concittadini.
L’esempio della spesa sanitaria
Prendiamo ad esempio la spesa sanitaria nazionale che costa pro-capite circa 1.878,16 euro. Per i primi 2 scaglioni di reddito la differenza tra l’Irpef media versata e il solo costo della sanità, ammonta a 47 miliardi che sono a carico degli altri contribuenti. E parliamo solo della sanità, senza considerare tutti gli altri servizi forniti dallo Stato e dagli enti locali, di cui pure beneficiano, ma che qualche altro contribuente si dovrà accollarsi.
A questa cifra dobbiamo sommare altri 2,52 miliardi per i cittadini con redditi tra i 15 e i 20 mila euro che pagano un’imposta media di 1.348 euro l’anno. Il totale fa circa 50 miliardi che dovranno pagare i cittadini che dichiarano redditi dai 35 mila euro in su. Una cosa è certa: per lo meno quasi la metà della popolazione italiana non può certo lamentarsi per le imposte in quanto non le paga proprio; a questi possiamo aggiungere quel 14% che paga imposte insufficienti per pagarsi la sola sanità. E allora, chi paga le imposte?
Vi presento i «ricchi»
Il gettito Irpef al netto del «bonus Renzi» (di cui beneficiano 11,7 milioni di contribuenti per un costo di 9,5 miliardi) è pari a 164,701 miliardi (così suddivisi 147,9, l’89,84% del totale, dall’Irpef vera e propria; 11,9 miliardi per l’addizionale regionale e 4,8 miliardi per quella comunale). Il grosso di questi 164 miliardi è a carico del 12,28% di contribuenti, poco più di 5 milioni di soggetti che dichiarano redditi da 35 mila euro in su e che pagano ben il 57,88% contro il 2,62% pagato dal 45,19% di dichiaranti.
Sono i «ricchi» ai quali Luigi Di Maio non darebbe mai la flat tax, ma taglia le pensioni. Ricapitolando: 1) I contribuenti con redditi lordi sopra i 100 mila euro (per inciso: il netto di 100 mila euro è pari a circa di 52 mila euro) sono l’1,13%, pari a 467.442 contribuenti, che tuttavia pagano il 19,35% di tutta l’Irpef; 2) tra 200 e 300 mila euro di reddito troviamo lo 0,176%, circa 59 mila contribuenti che pagano il 2,99% dell’Irpef; 3) sopra i 300 mila euro solo lo 0,093% dei contribuenti versanti, circa 38.227 persone che pagano però il 5,93% dell’Irpef.
Il «contrasto» di interessi che ci farebbe bene
Considerando poi che è difficile credere che quasi 36 milioni di abitanti vivano con redditi inferiori ai 20 mila euro lordi l’anno, si dovrebbe immaginare una politica fiscale che incentivi l’emersione attraverso il contrasto di interessi tra chi compra la prestazione e chi la fornisce. Per esempio, in via sperimentale, per un triennio, si potrebbe consentire di dedurre ogni anno almeno il 50% di tutte le spese sostenute dalle famiglie, Iva compresa, per lavori di casa, meccanici, assistenti familiari e altro.
Questo «contrasto di interessi» può garantire, a differenza delle forme di tassazione che non prevedono la possibilità di deduzioni e detrazione e che incentivano a non chiedere scontrini e fatture, tanto non servono poiché indeducibili, addirittura un aumento del gettito, favorendo al contempo la famiglia che beneficia di una deduzione importante (pari a una 14° mensilità) mentre l’enorme schiera di evasori o elusori dovrà pagare tasse e contributi con grave sollievo di artigiani e lavoratori autonomi onesti e che pagano le tasse.
Il taglio miope e il rimborso opinabile
Cosa succede invece? Assistiamo a un taglio vistoso delle pensioni di quello sparuto 1% di popolazione che nella vita attiva ha dichiarato oltre 100 mila euro di reddito e a un ridotto adeguamento delle pensioni sopra i 1.600 euro lordi al costo della vita. Per contro si è deciso di rimborsare tutti quei «poveri» , con un patrimonio immobiliare che potrebbe essere portata addirittura a 200.000 euro, che hanno investito in titoli o azioni di banche fallite, magari senza neppure chiedere ai suddetti come li hanno fatti quei soldi. Due pesi e due misure che essendo «non eque» alla fine presenteranno un conto salato. Peccato che comunque a pagare in termini economici saremo sempre noi. Fonte: qui
TRUMP ANNUNCIA IL 25% DI ''TARIFFS'' SU 200 MILIARDI DI BENI CINESI E LE BORSE VANNO A PICCO
SHENZHEN SPROFONDA DEL 7,4% E I MERCATI EUROPEI PARTONO MALISSIMO
SEMBRAVA CHE IL NEGOZIATO FOSSE VICINO ALLA FIRMA FINALE, EVIDENTEMENTE IL PUZZONE DI WASHINGTON VUOLE STRAPPARE QUALCHE ALTRA CONCESSIONE LAST MINUTE. LA CINA PRIMA MINACCIA DI FAR SALTARE LA VISITA DEL VICE PREMIER, POI CAMBIA IDEA
Ore 10. La nuova offensiva di Donald Trump sul fronte commerciale manda a picco tutti i listini asiatici, in una giornata che si preannuncia difficile per i listini di tutto il mondo. L'Europa parte in profondo rosso: Milano cede l'1,92%, Francoforte l'1,63%, Parigi l'1,95% mentre Londra è chiusa per festività.
I principali indici in estremo Oriente registrano alla conclusione degli scambi un rosso pesantissimo: il Composite di Shanghai crolla del 5,58%, mentre Shenzhen sprofonda del 7,38%.
A innescare la paura degli investitori il tweet di ieri sera con cui il presidente americano ha annunciato dazi al 25% sull'import di 200 miliardi di dollari di beni "made in China" che dovrebbero scattare a partire da venerdì. Una mossa a sorpresa proprio mentre è in corso il rush finale dei negoziati che avrebbero dovuto invece portare a una tregua commerciale tra i due Paesi, con un'intesa che secondo alcuni osservatori sarebbe potuta arrivare proprio questo venerdì.
Pechino per in un primo momento aveva lasciato intendere di valutare anche l'annullamento della visita del vice premier Liu He a Washington ma in mattinato ha fatto sapere che la delegazione cinese "si sta preparando per andare negli Usa" per il nuovo round negoziale sul commercio dell'8 maggio, come da programma. Il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, ha aggiunto di sperare che "Usa e Cina possano trovare una soluzione a metà strada"
Sul fronte valutario è stabile l'euro: la moneta unica si posiziona a 1,119 dollari. Partenza invece al rialzo per lo spread: il differenziale Btp-Bund schizza in avvio a 259 punti dai 253 della chiusura di venerdì. Il rendimento del nostro titolo decennale si attesta al 2,59%.
L'effetto Trump si fa sentire anche sul petrolio, le cui quotazioni sono in deciso ribasso in mattinata. Il Wti cede 1,36 dollari a 60,58 dollari nelle borse elettroniche in Asia, il Brent è crollato di 1,40 dollari a 69,45 dollari.
6 Maggio 2019
Fonte: qui
COME HA FATTO L’AZIENDA CINESE HUAWEI A DIVENTARE IL LEADER GLOBALE DELLE RETI MONDIALI?
NATA NEL 1987, SOLTANTO L’ANNO SCORSO HA INVESTITO 15 MILIARDI DI DOLLARI E POTREBBE PRESTO DIVENTARE IL PRIMO PRODUTTORE DI CELLULARI. I CINESI SANNO CHE GESTIRE L’INFRASTRUTTURA SIGNIFICHERÀ DOMINARE IL MONDO
LO SPEZZATINO DEL MONOPOLIO DELLA BELL E LA PARABOLA DI MOTOROLA: COME GLI USA SONO STATI FREGATI
5G, COSÌ GLI USA HANNO CEDUTO ALLA CINA IL BUSINESS DELLE RETI
Luca Salvioli per www.ilsole24ore.com
Huawei oggi è l’azienda meglio posizionata sul 5G al mondo. Che non è solo l’evoluzione del 4G, visto che la nuova tecnologia di rete andrà oltre gli smartphone e avrà applicazioni nell’industria, nei servizi, nel pubblico, nella sanità, nell’agricoltura. Secondo la Gsma Association da qui al 2034 il 5G sarà responsabile della crescita del 5,3% del pil mondiale. Essere protagonisti industriali di questo salto tecnologico è evidentemente strategico. Huawei lo ha capito per tempo. L’azienda cinese è relativamente giovane, è nata soltanto nel 1987 per mano del fondatore Ren Zhengfei, presidente ancora oggi e padre di Meng Wanzhou, la cfo arrestata in Canada all’inizio di dicembre su richiesta degli Stati Uniti, una delle principali ragioni di tensioni tra Stati Uniti e Cina.
Sulle tecnologie di rete è cresciuta molto in fretta. Già nel 2012 era leader globale. Sugli smartphone è andata se possibile più veloce: è ormai vicina al sorpasso su Apple e punta Samsung. E la corsa continua con una forte spinta negli investimenti: l’anno scorso Huawei ha speso 15,3 miliardi di dollari. Più del doppio di quanto investiva 5 anni fa; solo Amazon ha fatto meglio come crescita, secondo l’ultima ricerca di Bloomberg che considera i 10 leader mondiali in quanto a spesa per R&D. Nella graduatoria complessiva si trova a un passo da Samsung, numero 3 globale, e a salire Alphabet e il leader Amazon con 28,8 miliardi di dollari. Apple, per fare un esempio, è “soltanto” al settimo posto con 14,2 miliardi.
Secondo i dati di Dell’Oro Group, relativi ai primi 9 mesi del 2018, i leader nel 5G sono Huawei, Nokia, Ericsson, Cisco e Zte: insieme rappresentano il 75% del mercato globale con Huawei che ne vale da sola il 30%. Due aziende cinesi, Huawei e Zte, due europee, Ericsson e Nokia, e solo una americana, Cisco. Che però è attiva solamente nella vendita di switch e router, attrezzature di base per le reti, ma non nelle antenne radio che consentono alle celle di connettersi ai device mobili e dove la svedese Ericsson è leader. In pratica, gli Stati Uniti non hanno grandi protagonisti industriali che coprano l’intera offerta della tecnologia più strategica del prossimo decennio. Oggi nel Paese i provider principali di tecnologie di rete sono le europee Nokia ed Ericsson. Huawei come noto è stata bandita per la realizzazione del 5G, ma anche a vedere le tecnologie precedenti nel Nord America è assente. Mentre la coreana Samsung si è aggiudicata alcuni contratti.
Come hanno fatto gli Stati Uniti, il Paese della Silicon Valley dove sono nate Microsoft, Apple, Google e tutte le principali aziende che fanno correre i dati sulle reti, a perdersi il business delle infrastrutture? Non è sempre stato così, in effetti. Agli albori della rivoluzione digitale, quando Huawei muoveva i primi passi, un’azienda come AT&T, che subentrava alla Bell System company, era una fucina di innovazione. Il monopolio fu poi smembrato dall’antitrust in tre aziende: Lucent, Ncr e At&t. C’era poi Motorola, che vinse la gara con i Bell’s Lab per la prima chiamata con cellulare nella storia: la fece Marty Cooper di Motorola al suo rivale che lavorava sullo stesso progetto alla Bell.
Il Telecommunications Act del 1996 viene considerato un atto chiave nella perdita di leadership: entrarono nuovi competitor e molte aziende fecero fatica. Inoltre fu in quell’occasione che gli Stati Uniti decisero di sviluppare una loro tecnologia di rete, mentre l’Europa aveva scelto il Gsm che divenne poi standard globale. E così gli Stati Uniti rimasero al palo. Lucent fu comprata dalla francese Alcatel nel 2006. Nokia Siemens Network comprò la divisione reti di Motorola nel 2011, per poi comprarsi Alcatel-Lucent nel 2015. Mentre Huawei lavorava nei laboratori ai primi chip per il 5G, gettando le basi per la leadership globale. Fonte: qui
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