9 dicembre forconi: 03/19/18

lunedì 19 marzo 2018

ATTENTI ALLE COZZE VIVE IN ARRIVO DALLA SPAGNA: SONO CONTAMINATE CON UN BATTERIO PERICOLOSO!

E’ ALLARME IN TUTTA ITALIA 

GIA’ AVVIATO IL RITIRO DEI PRODOTTI DA SUPERMERCATI, PESCHERIE E MERCATI


cozzeCOZZE
Cozze vive contaminate da Escherichia Coli. Il Rasff, il sistema di allerta europeo rapido per la sicurezza alimentare, ha lanciato l’allarme nazionale per le la possibile presenza del pericoloso batterio Escherichia Coli nelle cozze vive. L’allarme cozze contaminate da Escherichia Coli è stato diffuso in tutta Italia, da nord a sud, poiché queste cozze vive contaminate sarebbero state già immesse sull’intero mercato nazionale e l’Escherichia Coli è un batterio molto insidioso presente in acque inquinate da feci che può essere una bomba per l'apparato digerente e provocare nausea, forti crampi addominali, diarrea, vomito.

cozzeCOZZE
L'allerta cozze vive contaminate da Escherichia Coli è del 16 marzo (rif. 731.2018), purtroppo però non si conoscono i lotti con cozze vive contaminate anche perché riguardano non solo la Grande distribuzione ma pescherie e mercati. Il ritiro delle cozze vive contaminate da Escherichia Coli è stato già avviato in tutta Italia, una misura cautelare a tutela della salute dei consumatori.

Il Sistema di allerta invita tutti a prestare la massima attenzione e a non consumare le cozze vive senza prima sottoporle al controllo dal Servizio igiene degli alimenti e nutrizione della Asl locale. Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti", ricorda che «il consumo dei molluschi bivalvi è considerato uno dei principali responsabili di trasmissione all'uomo di diverse malattie d'origine batterica e virale nonché intossicazioni da enterobatteri. Pertanto, invita chiunque avesse acquistato questo prodotto a consumarlo ben cotto evitando il consumo di prodotti crudi».

Fonte: qui

PROTEZIONISMO


Trovare sui banchi del supermercato i mirtilli cileni trasportati in aereo in qualsiasi stagione e a un prezzo ragionevole fa piacere e fa comodo. Il libero commercio generalmente avvantaggia i consumatori, accresce la concorrenza e stimola l’innovazione.
La decisione di Trump di imporre dazi su acciaio e alluminio ha suscitato un’imponente e allarmata reazione negativa, più a livello politico che di mercato, e a parte le poche contee della Pennsylvania che ancora producono acciaio, anche negli Stati Uniti l’idea che avviare guerre commerciali possa comportare per l’America vittorie facili e proficue è stata subissata di critiche. Si è detto che aprire il vaso di Pandora degli accordi commerciali può portare alla fine dell’espansione in corso, a un’esplosione dell’inflazione e a un’accelerazione del movimento al rialzo dei tassi. Alcuni si sono spinti a dire che i conflitti commerciali aprono la strada a quelli militari.

La reazione contenuta dei mercati, ormai ritornati vicino ai livelli immediatamente precedenti l’annuncio sui dazi su acciaio e alluminio, ci pare per il momento più ragionevole di quella sopra le righe dei commenti politici. Vorremmo fare sulla questione alcune considerazioni.

Come nota Gary Shilling, il mondo non è stato creato senza dazi. Aggiungiamo che la storia economica dal neolitico in avanti, una storia tutto sommato di progresso, si è dispiegata all’interno di gabbie doganali. Dalla Cina imperiale al Re Sole dazi e gabelle sono stati onnipresenti non solo tra stati ma anche tra regioni o città. La prima globalizzazione, quella seguita alle scoperte geografiche del Cinquecento, non fu frenata dai dazi, che contribuirono in realtà a finanziarla. Dal canto suo, lo sviluppo della grande industria americana dalla fondazione della Repubblica alla fine dell’Ottocento non sarebbe stato possibile senza gli alti dazi che la protessero dalla concorrenza britannica. Le tariffe doganali furono del resto la maggiore fonte d’entrata per il governo federale americano dal 1789 al 1914.

Le brevi fasi storiche in cui il libero commercio fu parzialmente sperimentato, dall’Intercursus Magnus tra inglesi, borgognoni, olandesi e anseatici a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento all’Europa della parte centrale dell’Ottocento, ebbero successo finché videro un equilibrio di forza tra i paesi coinvolti e terminarono non appena questo equilibrio venne meno.

Karl Marx, all’inizio del 1848, si schierò a favore del libero scambio perché l’impoverimento che questo avrebbe creato tra i perdenti avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione.
Roosevelt nel 1934 rimodulò ma non abolì le alte barriere doganali dello Smoot-Hawley Act del 1930. La forte ripresa della seconda metà del decennio avvenne, in America e in Europa, per via fiscale e non fu frenata dagli alti dazi.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti offrirono a Europa e Giappone accordi commerciali molto favorevoli in modo da facilitarne la ricostruzione. Questa situazione squilibrata si è protratta fino a oggi. 

La riforma fiscale americana approvata in dicembre voleva correggere uno di questi fattori di squilibrio (quello per cui l’America è l’unico paese che non rimborsa le imposte indirette ai suoi esportatori e l’unico che non tassa l’import) ma la lobby degli importatori lo ha impedito. Gli Stati Uniti sono del resto l’unico paese in cui la lobby degli importatori è più forte di quella degli esportatori.

La Cina, alfiere del libero commercio come lo sono sempre gli esportatori netti, aggiunge agli squilibri citati una notevole disinvoltura nell’appropriazione di proprietà intellettuale. Se un’impresa tecnologica occidentale vuole operare in Cina deve cedere know-how, altrimenti non viene ammessa. Negli altri settori, come l’acciaio, la Cina finanzia le perdite delle aziende pubbliche, che possono così esportare sottocosto e mandare fuori mercato i concorrenti americani ed europei. La Cina usa poi Messico e Canada per fare entrare i suoi prodotti negli Stati Uniti come se fossero di origine Nafta, godendo così delle agevolazioni previste dal trattato. L’Europa non protesta con la Cina perché ha paura di perderne il mercato. L’America ci sta invece provando.

Sarebbe bello se i fautori del libero scambio, oltre ad alzare la voce nei casi in cui chi è meno protezionista decide di diventarlo come gli altri, si levassero anche contro chi rimane, come Europa e Cina, più protezionista degli altri.

È poi facile abusare del concetto di difesa nazionale, ma è anche comprensibile che l’America, che aveva venti fabbriche di alluminio nel 2000 e oggi ne ha solo due, si domandi come farà a produrre carri armati e portaerei il giorno in cui non avrà più siderurgia e metallurgia e ci sarà una guerra. Proprio nei giorni scorsi Putin ha disposto che tutta la filiera militare russa utilizzi esclusivamente, entro il 2025, materie prime e componenti domestiche.

Il libero scambio abbassa i prezzi attraverso la concorrenza e questo è il suo grande aspetto positivo. 

Ma quando di produttore ne rimane solo uno, perché è il più bravo e perché tutti gli altri hanno chiuso, questo (la Cina) può mettersi a fare i prezzi che vuole. È quello che rischia di avvenire nella distribuzione con Amazon e Alibaba. Oggi abbassano i prezzi, ma quando saranno rimasti da soli?

Va inoltre detto che manipolare il cambio produce tutti i giorni gli stessi effetti dei dazi, con la differenza che i dazi si applicano di solito a un numero circoscritto di voci, mentre con il cambio si tocca tutto.

In particolare, la Germania ha superato l’anno scorso un livello intollerabile di surplus delle partite correnti pari al 9 per cento del Pil e si illude di cavarsela riducendolo al 7 entro l’anno prossimo attraverso la rivalutazione dell’euro e gli aumenti salariali che ne stanno riducendo la competitività. Anche al 7 la Germania si attirerà riprovazione e sanzioni quanto meno dall’America. Col 7 di surplus un paese che voglia evitare di passare per molto maleducato deve rivalutare oppure accettare di produrre (non solo assemblare) nei paesi in cui esporta oppure ancora rassegnarsi a subire dei dazi. Anche il più paziente dei liberoscambisti non può continuare a vivere circondato da mercantilisti.
Nel 2018 il Congresso americano non farà più nulla. Impossibile la riforma sanitaria, politicamente suicida la riforma del welfare, difficile qualsiasi altra cosa. Alla fine dell’anno il Congresso passerà probabilmente ai democratici. Trump, incapace di stare fermo, cercherà di realizzare qualcosa in politica estera e con un riesame completo degli accordi commerciali internazionali. Di free trade e fair trade, quindi, sentiremo ancora parlare molto.

Se i difensori a oltranza del libero scambio suonano a volte ideologici e in conflitto d’interesse, l’America deve stare bene attenta a non superare, nelle sue richieste, la linea del fair trade. Se la supererà farà male in primo luogo a se stessa. Non tanto per le ritorsioni (in una guerra commerciale gli esportatori hanno molto più da perdere degli importatori) quanto per l’impigrimento che il tepore protezionista crea nel tempo ai produttori domestici. È un impigrimento analogo, peraltro, a quello indotto dai cambi e dai tassi troppo bassi che vediamo nel resto del mondo.
Venendo ai mercati, prosegue la fase di consolidamento e di limbo su tassi, valute e borse. Se l’inflazione, pur salendo, manterrà un passo lento e se gli utili del primo trimestre, come è possibile, usciranno buoni, i bond rimarranno su questi livelli e le borse, terminata questa fase di purgatorio, potranno cautamente riavvicinarsi ai massimi, per il momento senza superarli.

Fonte: qui

With Mike Pompeo, Trump Is Heading Into Dangerous Waters

Pompeo's promotion means a more hawkish, muscular American foreign policy in which force is used more readily and confrontation with Iran is likely

On Tuesday, US President Donald Trump fired Secretary of State Rex Tillerson and appointed the hawkish CIA chief, Mike Pompeo, to replace him.
Tillerson, who’d come to government service as the CEO of Exxon-Mobil, one of the largest energy companies in the world, often butted heads with Trump’s free-wheeling, chaotic style of decision-making regarding foreign policy.
Tillerson had also been severely criticised by both veteran US diplomats and members of Congress over his plans to vastly downsize the State Department and his inability to fill critical ambassadorial posts.
Trump’s inner circle
Pompeo served four terms in the House of Representatives representing Kansas, and is a member of the Trump inner circle. He is known to cater to Trump’s peculiar briefing style in which he dispenses with written material and receives his daily briefing in oral form with plenty of Powerpoint slides.
Pompeo holds extreme views on critical national security issues like Iran. While Tillerson spoke approvingly of the P5+1 nuclear deal, Pompeo attacked it mercilessly and derided the clerical regime. He tweeted: “I look forward to rolling back this disastrous deal with the world’s largest state sponsor of terrorism.”
He is known for taking positions which adhere slavishly to those of Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu. In further comments about the nuclear deal, Pompeo said:
“[It] won’t stop Iran from getting a nuclear bomb and places Israel at more risk. [The] theory that post-sanctions Iran will moderate is a joke – they want to annihilate Israel, now buying Russian missiles.”
No Iranian leader has ever explicitly called for the “annihilation” of Israel. When Iran’s leaders have offered seemingly bellicose statements about Israel, it is always in response to direct threats by Israeli leaders against Iran. Further, the nuclear deal was never meant to stop Iran from ever obtaining a nuclear weapon. It was meant to delay that process for a decade or more, which it has done.
Pompeo also raised a criticism of the Iran deal which had been dismissed out of hand by the Obama administration as unreasonably draconian:
“Ceasing to call for the destruction of Israel should have been a condition of the Iran Deal – along with release of innocent American hostages.”
This represents the Israeli “kitchen-sink” approach to torpedoing negotiations: you throw every possible demand into the kitchen sink knowing your interlocutor will object. Then you walk away blaming him for the impasse. That offers you the opportunity to adopt a more aggressive approach against him.
Islamophobic views
Pompeo’s nomination is opposed by the leading national Muslim-American group, the Council on American-Islamic Relations (CAIR), which noted his harshly Islamophobic views. He received a major award from ACT for America, an organisation designated by the Southern Poverty Legal Center as a hate group.
CAIR released this statement:
“Those, like Mr Pompeo, who have expressed Islamophobic views and have been associated with an anti-Muslim hate group…should have no role in our nation’s government, let alone at the highest levels of policy-making,” said CAIR national executive director Nihad Awad. “These appointments have the potential to harm our nation’s image and our relations with key players in the international community.”
Returning to the nuclear deal, Trump himself has not cancelled it. But with Pompeo’s promotion, the world can expect an elevation in the hostile rhetoric from the White House, and now State Department, against Iran.
Not only might the nuclear agreement be cancelled, but the US may support actual military action either against Iran directly or against its forces fighting in Syria. It’s conceivable that the US might intervene more forcefully in Syria, as has Russia.
Interestingly, Netanyahu visited the White House last week and had talks with Trump. Presumably, Syria and Iran were high on their agenda. An Israeli journalist writing in Maariv discussed the threat represented by several major corruption scandals besetting Netanyahu.
He alluded to the possibility of a military confrontation with Iran regarding Syria, which could be a prelude to new elections.
Separately, a confidential Israeli source told me that the nation’s security cabinet met last weekend to deliberate on a “major military operation” in Syria, presumably to confront the forces of Iran and its regional ally, Hezbollah. It’s reasonable to assume that Netanyahu, at the least, sought Trump’s approval for the attack; and at the most sought American participation in it.
All of this means a more hawkish, muscular American foreign policy in which force is used more readily and more aggressively. Tillerson’s dismissal may also lead to the sacking of other figures in the Trump national security team who haven’t adapted to the Trump “style”.
Among them could be National Security Advisor HR McMaster, who lately has been regularly reported as on his way out. Though McMaster has been known too as a hawk on Iran and North Korea, he has been pragmatic and buttoned-down in his approach to national security. This has conflicted with Trump’s fly-by-the-seat-of-his pants approach.
Another hardline, anti-Islam addition
The addition of another hawk such as John Bolton into the mix (he has been touted as a replacement for chief of staff John Kelly or McMaster, should he be fired) could send US foreign and national security careening into uncharted waters. Bolton is known for his strident anti-Muslim views.
Bolton was particularly popular among a small but influential group of hardline anti-Islam activists, the “counter-jihad” movement, who believed the US government was being infiltrated by Islamists and that Islamic law was quietly taking over the US legal system.
He has been allied with arch-Islamophobe, Pam Geller, and wrote a forward to her book espousing her crackpot views. He was one of the Bush administration officials who trumpeted the false claim that Iraq’s Saddam Hussein had nuclear weapons.
He also shares Pompeo and Trump’s harsh views on Iran. In a 2015 New York Times op-ed he advocated a military attack by Israel and/or the US on Iran’s nuclear facilities:
“Time is terribly short, but a strike can still succeed. Such action should be combined with vigorous American support for Iran’s opposition, aimed at regime change in Tehran.”
Clearly, Bolton does not believe in diplomacy. Rather, he prefers war and the aggressive projection of American power as the best means of securing American interests in the world.
With the accession of figures like Pompeo and Bolton to positions of power in the Trump administration, we face a nightmarish Dr Strangelove scenario. As you may recall, that film ends with an air force officer gleefully riding a nuclear bomb as it drops on its Russian target.
*
Richard Silverstein writes the Tikun Olam blog, devoted to exposing the excesses of the Israeli national security state. His work has appeared in Haaretz, the Forward, the Seattle Times and the Los Angeles Times. He contributed to the essay collection devoted to the 2006 Lebanon war A Time to Speak Out (Verso) and has another essay in the collection Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood (Rowman & Littlefield).

Rieletto Vladimir Putin Presidente della Russia

Russia: Putin vince elezioni con il 76,6%, è record. Trump non lo chiama

L'affluenza è stata invece del 67,49%

Ansa - Il presidente Vladimir Putin ha vinto le elezioni con il 76,6% dei voti. Lo fa sapere la Commissione Elettorale Centrale diffondendo i dati preliminari al termine dello scrutinio. Ora la Commissione ha 10 giorni di tempo per presentare i dati definitivi. L'affluenza è stata invece del 67,49%. Il vice presidente della Commissione Elettorale, Nikolai Bulaev, ha sottolineato che "56 milioni di russi" hanno votato per Putin, ovvero il record assoluto nella storia delle elezioni presidenziali russe. Così Interfax.  Il presidente russo Vladimir Putin avrà un incontro con i candidati che hanno corso per la presidenza russa. Così il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov. "Putin incontrerà oggi i candidati", ha detto Peskov. "Lo ha fatto anche nel 2012". Lo riporta la Tass.
Il presidente della Repubblica federale tedesca, Frank-Walter Steinmeier, si è congratulato con il presidente russo Vladimir Putin per la sua rielezione. "Mi auguro che si riuscirà a contrastare l'allontanamento nel nostro continente tra le persone in Russia e in Germania e mi auguro che Lei sfrutti il nuovo mandato per questo scopo", ha scritto Steinmeier al capo del Cremlino, aggiungendo: "Dobbiamo portare avanti il dialogo in un contesto di reciproca fiducia".
Nessuna telefonata, invece, dalla Casa Bianca.  'Non siamo sorpresi dall'esito del voto', spiega un portavoce, confermando ch enessuna telefonata è prevista fra Donald Trump a Vladimir Putin.
Osce boccia elezioni, senza reale competizione  - Le elezioni russe, sebbene organizzate in modo competente e ordinato, si sono distinte per una mancanza di "reale competizione". Lo ha stabilito la missione Osce nel suo giudizio finale. Tra gli elementi negativi figurano anche "l'esclusione di un candidato" dal processo elettorale (Alexei Navalny, ndr), le "limitazioni" alla libertà d'espressione e di assemblea prima delle elezioni, le "pressioni" ai danni dei critici delle autorità e la "copertura mediatica eccessiva" riservata a Vladimir Putin.
Il presidente cinese Xi Jinping ha inviato un messaggio alla controparte russa Vladimir Putin per congratularsi dopo la vittoria alle presidenziali di domenica che valgono il quarto mandato di sei anni al Cremlino. Xi, che ha subito ricambiato il messaggio ricevuto sabato da Putin per la riconferma di 5 anni al vertice della Repubblica popolare, ha ricordato, riferisce l'agenzia Nuova Cina, che negli ultimi anni il popolo russo s'è unito avanzando con decisione verso il rafforzamento della nazione, la realizzazione del rinnovamento e dello sviluppo, il raggiungimento di rimarchevoli successi nello sviluppo economico e sociale, oltre a giocare un ruolo costruttivo negli affari internazionali. Xi, esprimendo il raggiungimento di un ulteriore rafforzamento, ha menzionato la partnership strategica tra i due Paesi salita ai massimi livelli storici, quale esempio di "un nuovo tipo di relazioni internazionali basate sul mutuo rispetto, onestà e giustizia, cooperazione e risultati reciprocamente vantaggiosi in una comunità con un futuro condiviso per l'umanità".

La quarta rielezione di Vladimir Putin alla Presidenza della Russia è avvenuta senza alcuna sorpresa. 
Una affluenza più alta che nel recente passato, e una vittoria che, secondo le prime proiezioni, sarebbe anch'essa superiore al previsto, completano il quadro di un successo che, se non altro, appare quanto meno bene orchestrato. Il Putin che è stato trionfalmente rieletto, tuttavia, è il leader nazionalista che ha voluto far coincidere la data delle elezioni con l'anniversario dell'annessione della Crimea.
È anche il leader della guerra in Siria, della repressione delle opposizioni, del rifiuto delle critiche ed infine il campione del grande riarmo nucleare russo. In altre parole è un personaggio né comodo, né simpatico, che ama discutere da posizioni di forza, più per imporre il suo punto di vista che per raggiungere un compromesso equilibrato.
Putin è uno degli interlocutori necessari dell'Europa. Sono svariati gli interlocutori difficili con cui l'Europa è obbligata a discutere. Vicino a Putin troviamo ad esempio Donald Trump, è un po' più defilato il nuovo Presidente permanente della Cina, Xi Jinping. Non sono eguali tra loro, per fortuna, e pongono problemi diversi, ma tutti richiedono un approccio paziente e ben ragionato.

© POOL New / Reuters

Con Putin, ad esempio, abbiamo alcuni interessi comuni: la lotta al terrorismo, il contrasto alla proliferazione nucleare, una maggiore stabilità nel Medio Oriente, la sicurezza energetica: sotto questi titoli generici si nascondono anche molte diversità nei dettagli, ma grosso modo è possibile immaginare alcune collaborazioni. Il problema è quello di riuscire a combinare la collaborazione in un settore e il permanere della contrapposizione in altri settori: ci riuscivamo piuttosto bene negli anni della guerra fredda tra Est ed Ovest, ma oggi la situazione si è fatta più confusa e quindi anche più difficile da gestire.
Anche perché una simile politica richiede una forte unità d'azione tra i paesi dell'Unione Europea(oramai giunta al suo collasso!): c'è qualcuno che è disposto a scommetterci? Di più, Putin è molto veloce a scoprire i punti deboli del suo interlocutore e non esita a profittarne. Già oggi è in contatto con politici europei favorevoli ad un indebolimento dell'Unione. Con l'aggravante che questa sembra anche la preferenza del nostro alleato indispensabile, o almeno del suo attuale Presidente.
Ecco allora che gli europei rischiano di naufragare tra Scilla e Cariddi, alle prese con leader politici molto diversi tra loro, ma ugualmente distanti da quello che vorremmo sentirci dire.
La rielezione di Putin non cambia il quadro internazionale: conferma con forza la presenza di un interlocutore ben noto. Non offre alcuna scappatoia consolatoria. Ora sappiamo che Vladimir IV ha ben salda la Russia nelle sue mani, malgrado la crisi economica e i montanti problemi sociali(che hanno pure e soprattutto i paesi Occidentali). È possibile che, alla lunga, questi problemi di fondo impongano al Cremlino mutamenti strategici più favorevoli all'Europa: ma non nell'immediato. Oggi è nei prossimi mesi dovremo trovare la capacità e la credibilità necessarie per gestire al meglio un altro difficile interlocutore. Fonte: qui


Elezioni presidenziali russe: Putin alla riconquista (Euronews)