9 dicembre forconi: 04/15/18

domenica 15 aprile 2018

Il petro-yuan può lanciare il renminbi come valuta globale e mettere in ginocchio il petro-dollaro



In un interessante serie di interviste di esperti finanziari raccolte oggi da RT emerge come i futures sul petrolio sostenuti dallo yuan possono nel medio periodo annientare il dominio del dollaro USA sul mercato del greggio. Tuttavia, il biglietto verde non cederà facilmente ila sua posizione di moneta egemone. "La domanda numero uno è quella di capire se la Cina sarà in grado di rendere il mercato petrolifero un suo mercato della domanda, e non il mercato delle forniture petrolifere scambiato in dollari come è ora", ha dichiarato Vladimir Rozhankovsky, analista di Global FX Investment.

La Cina ha recentemente superato gli Stati Uniti come il primo acquirente di petrolio al mondo. "La domanda numero due riguarda il futuro delle guerre commerciali. Se il commercio mondiale entra in una spirale mortale di sanzioni economiche reciproche, mantenere il commercio del petrolio in dollari sarà una questione di importanza strategica, o una questione di sopravvivenza per gli Stati Uniti", ha aggiunto l'analista.

Di conseguenza, Washington può minare deliberatamente l'immagine del petro-yuan attaccando le azioni cinesi. Questo potrebbe comportare la svalutazione dello yuan, rendendo il futuro del petrolio cinese meno attraente, ha proseguito Rozhankovsky.

Tuttavia, gli Stati Uniti hanno evidenti svantaggi su cui il petro-yuan può capitalizzare. Innanzitutto, il dollaro USA è ancora troppo forte, rendendo la produzione petrolifera nazionale molto costosa. In secondo luogo, gli Stati Uniti non hanno gasdotti transatlantici e le navi cisterna sono costose e altamente rischiose, ha aggiunto l'analista.

"La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è già iniziata. La Cina ha in programma di promuovere il renminbi come valuta di riserva e non c'è mossa migliore che acquistare materie prime nella sua valuta nazionale. Può risparmiare sulla conversione di valuta e diventare meno dipendente dal dollaro USA ", ha commentato Stanislav Werner, capo del dipartimento di analisi di Dominion.

L'analista nota che il mercato del petrolio ha un valore di 14 trilioni di dollari al momento, ed è più grande dell'economia cinese. "Le prime sessioni di trading sono state volatili, ma questa è una storia tipica per i nuovi strumenti finanziari. Gli Stati Uniti hanno una seria ragione per innervosirsi, perché in molti modi l'egemonia del dollaro USA viene dal commercio di petrolio in dollari ", ha concluso.

Fonte: qui

L’Unione €uropea non può essere democratizzata


Mentre la crisi interna dell’Unione Europea peggiora, e molti cittadini si ribellano contro quello che è diventato un progetto neoliberista, i politici europei si affrettano a spogliare i governi nazionali di ogni potere per impedire  ulteriori interventi democratici. Il centro-sinistra crede ancora che la UE sia una istituzione votata al bene dell’Europa. Omettono la domanda più importante: di quale Europa stiamo parlando?

Storia dell'U€ neoliberista


Stabilire il momento in cui il processo di integrazione europea si è volto al peggio non è compito facile. È una difficoltà dovuta al fatto che gli aspetti più nefasti (da una prospettiva progressista) di questo processo sono il risultato di decisioni apparentemente non nefaste prese nei decenni precedenti. Per semplificare, possiamo fissare il momento di svolta dell’Europa verso il neoliberismo intorno alla metà degli anni ’70, quando il regime cosiddetto “keynesiano”, adottato in occidente dopo la seconda guerra mondiale, stava attraversando una crisi conclamata.
La pressione salariale, i costi crescenti, e l’aumento della competizione internazionale avevano causato una riduzione dei profitti, provocando l’ira dei capitalisti. Ma, ad un livello più profondo, il regime di pieno impiego minacciava di costituire le fondamenta per un superamento del capitalismo stesso: una classe lavoratrice sempre più politicamente impegnata aveva iniziato a fare fronte con i movimenti della controcultura dei tardi anni ’60, chiedendo una democratizzazione radicale dell’economia e della  società.
Come l’economista polacco Michał Kalecki aveva anticipato trenta anni prima, il pieno impiego non era divenuto solamente una minaccia economica per la classe dominante, ma anche una minaccia politica.
Durante gli anni ’70 e ’80 ciò costituiva una preoccupazione per le 
élites, confermata da svariati documenti pubblicati all’epoca. Lo spesso citato documento della Commissione Trilaterale, Crisi della democrazia, datato 1975, sosteneva -dal punto di vista dell’establishment– che la situazione richiedeva una risposta a molteplici livelli. Una risposta mirata non solo a ridurre il potere contrattuale del lavoro, ma anche a promuovere un “più alto grado di moderazione nella democrazia” e un maggiore disimpegno (o “non impegno”) politico della società civile rispetto a quanto il sistema faceva, da raggiungere attraverso la diffusione dell'”apatia”.

Il secondo obiettivo –che la Commissione Trilaterale giudicava come una “precondizione fondamentale” per raggiungere il primo obiettivo, la transizione ad un nuovo ordine economico (cioè il neoliberismo)– è stato raggiunto, prima di tutto, mediante una graduale de-politicizzazione della politica economica. 

Ciò significava svuotare la sovranità nazionale e sottrarre la politica macroeconomica dal controllo democratico parlamentare –per esempio, rendendo le banche centrali formalmente indipendenti dai governi– isolando, in tal modo, la transizione neoliberistica dalla contestazione popolare. “Legando le proprie mani”, i governi erano in grado di ridurre i costi politici della transizione neoliberistica –che, chiaramente, comportava politiche impopolari– addossando la responsabilità ad accordi, trattati internazionali e istituzioni multilaterali. Tali politiche furono quindi presentate come l’inevitabile risultato della nuova e dura realtà della globalizzazione.

In Europa occidentale, questa lotta per smobilitare i movimenti popolari è stata portata alla sua più estrema conclusione. Nel 1971, a seguito del collasso del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, la maggior parte dei Paesi europei continuò a sperimentare varie forme di accordi valutari. Ciò condusse, infine, alla creazione dello SME (Sistema Monetario Europeo), che, in sostanza, ancorava tutte le valute partecipanti al marco tedesco e, per consequenza, alle posizioni “anti-keynesiane” e anti-inflazionistiche della Bundesbank. La strategia ebbe successo nel promuove una maggiore coesione del tasso di cambio, ma l’aggiustamento ricadde interamente sulle spalle dei Paesi con alta inflazione e valuta più debole. Le loro valute si apprezzarono in termini reali e trasmisero un impulso disinflazionistico attraverso lo SME. Questa “disinflazione competitiva” portò alla bassa crescita e alta disoccupazione che caratterizzò l’economia europea ngli anni ’80, generando deficit strutturali delle partite correnti in Paesi come Italia e Francia.

La decisione delle nazioni con valuta più debole di partecipare allo SME condusse le stesse ad una perdita di competitività e di quote di esportazione, mentre beneficiò in modo enorme le nazioni con valuta forte (in particolare la Germania). Dal punto di vista delle prime, sembrerebbe trattarsi di una decisione in larga misura autodistruttiva. Tuttavia, una simile decisione non può essere compresa ragionando esclusivamente in termini di interesse nazionale, ma dovrebbe essere vista come il modo in cui una parte della comunità nazionale è stata in grado di porre vincoli ad un’altra, come ha notato James Heartfield.

Fu la reazione alla lotta distributiva degli anni ’70, quando il capitale europeo si rivolse allo Stato per disciplinare la classe lavoratrice e le sue organizzazioni, con l’intento –prima di tutto– di ristabilire la redditività del capitale attraverso la compressione dei salari. In tal senso, la logica della “disinflazione competitiva”, contenuta nello SME, consentiva ai politici nazionali, adesso “privati” dello strumento della svalutazione competitiva, di presentare la compressione dei salari e l’austerità fiscale come i soli mezzi attraverso i quali fosse possibile recuperare la competitività del proprio Paese.

Il prisma della “de-politicizzazione”, una volontaria e cosciente limitazione dei diritti di sovranità dello Stato da parte delle élites nazionali, ci aiuta a comprendere tutte le fasi successive del processo di integrazione europea.
Un passo decisivo fu compiuto nel 1986, con il Single European Act (Atto Unico Europeo), che abolì il controllo dei capitali in tutta la CEE. Quei controlli erano stati la ragione principale di qualsiasi senso di stabilità valutaria in Europa fino a quel momento -ma ciò fu ignorato dal rapporto Delors del 1989, che era l’estensione logica della legislazione del mercato unico e che fungeva da modello per il Trattato di Maastricht del 1992. Questo trattato (formalmente Trattato dell’Unione Europea o TUE) stabilì un calendario ufficiale per la creazione di una unione monetaria europea.

La maggior parte degli Stati partecipanti acconsentì ad adottare l’euro come propria valuta ufficiale, e a trasferire il controllo della politica monetaria dalle rispettive banche centrali alla Banca Centrale Europea (BCE) entro il 1999. La Germania insistette anche perché l’unico obiettivo della BCE fosse tenere bassa l’inflazione: il primo, se non l’unico, criterio per agire doveva essere assicurare la stabilità dei prezzi. Inoltre, gli articoli da 123 a 135 della versione aggiornata del Trattato di Maastricht, il Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, proibisce in modo chiaro alla BCE di finanziare i deficit pubblici.

Col senno di poi, lo scopo appare chiaro: estendere la logica del libero mercato alle finanze pubbliche degli Stati, e così attivare un effetto di disciplina. Abbiamo visto i brutti effetti di questo in seguito alla crisi finanziaria 2007-2009. Jean-Clude Trichet, ex presidente della BCE, non ha fatto mistero del fatto che il rifiuto della banca centrale di sostenere i mercati dei titoli pubblici nella prima fase della crisi finanziaria era finalizzato a costringere i governi della zona euro a consolidare i loro bilanci.

Il trattato di Maastricht stabiliva, inoltre, limiti rigorosi in termini di deficit e debito/PIL per gli Stati membri, che sono stati successivamente ristretti. Ciò, in sostanza, privava i Paesi della loro autonomia fiscale, senza trasferire questo potere di spesa a un’autorità superiore. Come ha scritto Heartfield, l’unione monetaria può quindi essere considerata essenzialmente “un processo di de-politicizzazione di un asse centrale dell’amministrazione economica e fiscale: la moneta”. In questo senso, l’istituzione dell’euro può essere considerata il punto finale dei decenni di guerra delle élites europee alla sovranità e alla democrazia.

Come scrisse il grande economista britannico Wynne Godley nel 1992, “il potere di emettere la propria moneta, di disporre della propria banca centrale, è ciò che, più di tutto, definisce l’indipendenza nazionale”. Pertanto, adottando l’euro, gli Stati membri hanno effettivamente acquisito lo status di autorità locali o colonie.

La questione centrale dei trattati europei

La portata dei trattati europei, tuttavia, va ben oltre la politica fiscale e monetaria. Attraverso di essi si stabilisce, in realtà, la struttura giuridica fondamentale della politica economica dell’Unione Europea. Ed essa è rimasta immutata nella sostanza. I principi guida dell’UE sono chiaramente indicati nel capitolo sulla politica economica, in cui si afferma che l’UE e i suoi Stati membri devono condurre una politica economica “in conformità al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” e rispettare i principi guida dei “prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie solide e una bilancia dei pagamenti sostenibile”.

Altri articoli rilevanti del TFUE includono:

  • Articolo 81, che proibisce ogni intervento dei governi in materia economica “che possa pregiudicare il commercio tra Stati membri”;
  • L’articolo 121, che conferisce al Consiglio Europeo e alla Commissione Europea – entrambi organismi non eletti – il diritto di “formulare… gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’Unione”;
  • L’articolo 126, che regola le misure disciplinari da adottare in caso di deficit eccessivo;
  • L’articolo 151, che stabilisce che la politica sociale e riguardante il lavoro della UE, terrà conto della necessità di “mantenere la competitività dell’economia dell’Unione”;
  • L’ Articolo 107, che vieta gli aiuti di Stato alle industrie nazionali strategiche.
I trattati hanno  incorporato il neoliberismo nel tessuto stesso dell’Unione Europea, mettendo di fatto al bando le politiche “keynesiane” che erano state comuni nei decenni precedenti. Essi impediscono la svalutazione della moneta e l’acquisto diretto da parte della banca centrale del debito pubblico (per quei paesi che hanno adottato l’euro). Impediscono politiche di gestione della domanda o l’uso strategico degli appalti pubblici e impongono severe restrizioni alla previdenza sociale e alla creazione di occupazione attraverso la spesa pubblica. I trattati hanno gettato le basi per una reingegnerizzazione su larga scala delle economie e delle società europee.

Le implicazioni giuridiche di questi trattati – che sono spesso oscurate da considerazioni sociali ed economiche – devono essere prese in seria considerazione. Questo perché, nonostante la Francia e l’Olanda abbiano votato contro una costituzione europea nel 2005, “in definitiva, i trattati stabiliscono un ordine costituzionale per l’UE”. Un ordine costituzionale molto particolare, dovuto alla sua natura sovranazionale (e quindi intrinsecamente non democratica). Infatti, a differenza delle costituzioni nazionali, tale ordine non può essere modificato democraticamente dai cittadini: può soltanto essere emendato all’unanimità nel contesto di un nuovo accordo internazionale – che, in termini pratici, significa che non è modificabile.

L’unica cosa che i singoli Stati possono fare è ripudiare l’intera struttura. Come ha affermato il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, all’inizio del mandato di SYRIZA, “non può esserci alcuna scelta democratica contro i trattati europei”.

Inoltre, a differenza di altre costituzioni e quadri giuridici, che generalmente sono tesi a definire la relazione tra le varie istituzioni di uno Stato e i diritti fondamentali dei cittadini, questa costituzione europea di fatto “stabilisce una specifica filosofia economica (o ideologia) sulla quale poi basa – o meglio ‘costituzionalizza’ – regolamenti dettagliati che vincolano la sua politica economica”.  Lo fa anche ancorando norme e regolamenti all’interno delle costituzioni nazionali, svuotandole, in tal modo, progressivamente dall’interno. Ciò conferisce poteri immensi alla Corte di Giustizia Europea, che ha l’ultima parola sulle controversie legali tra governi nazionali e istituzioni della UE. Non sorprende che Alec Stone Sweet, un esperto di diritto internazionale, l’abbia definito un “colpo di Stato giuridico”.

Negli ultimi anni il costituzionalismo autoritario dell’Unione Europea si è evoluto in una forma ancora più anti-democratica che si sta allontanando dagli elementi di democrazia formale, portando alcuni osservatori a suggerire che l’UE “potrebbe facilmente diventare il prototipo post-democratico e persino una struttura di governo pre-dittatoriale contro la sovranità nazionale e le democrazie “. Lo abbiamo visto in Grecia nel 2015, quando la BCE ha tagliato la liquidità di emergenza alle banche greche per mettere in riga il governo di SYRIZA e costringerlo ad accettare il terzo memorandum di salvataggio.

Per concludere, qualsiasi convinzione che la UE possa essere “democratizzata” e riformata in una direzione progressista è una pia illusione. Non  sarebbe soltanto  necessario un impossibile allineamento dei movimenti/ governi di sinistra per emergere simultaneamente a livello internazionale, ma,  ad un livello più fondamentale, un sistema creato con l’obiettivo specifico di limitare la democrazia non può essere democratizzato. Può essere soltanto rifiutato. 

Per concessione di Comedonchisciotte
Fonte: qui
Data dell'articolo originale: 08/02/2018

Il Pentagono sta pianificando una “lunga guerra” su tre fronti contro Cina e Russia

Mentre, immersi in un mondo di propaganda, siamo spinti ogni giorno a pensare in termini di “pericolo russo” o “pericolo cinese”, nella politica estera militare degli Stati Uniti è in atto un profondo quanto largamente ignorato riorientamento strategico. L’attuazione di una immensa linea di contenimento militare delle superpotenze concorrenti su tre fronti (India-Pacifico, Europa, Medio Oriente) minaccia di portare a una nuova corsa agli armamenti e a una rischiosa riedizione della Guerra Fredda in versione ventunesimo secolo. Ne parla in un documentato articolo pubblicato su “Foreign Policy In Focus” l’esperto di geopolitica e politica energetica Michael Klare.

Di Michael Klare, 4 aprile 2018.

Se pensavate che con la “guerra globale al terrorismo” una singola potenza si fosse spinta decisamente troppo in là, aspettate.

Bisogna vederla come la più importante operazione di pianificazione militare in atto sulla Terra in questo momento.

Ma chi ci sta anche solo prestando attenzione, tra i continui avvicendamenti alla Casa Bianca, gli ultimi tweet, le rivelazioni sugli scandali sessuali e le inchieste di ogni tipo? Eppure è sempre più evidente che, grazie all’attuale pianificazione del Pentagono, sia iniziata la versione della Guerra Fredda del ventunesimo secolo (con pericolosi nuovi rivolgimenti) e praticamente nessuno se ne è neanche reso conto.

Nel 2006, quando il Dipartimento della Difesa definì il suo ruolo futuro nel campo della sicurezza, stabilì solo una missione prioritaria: la “lunga guerra” contro il terrorismo internazionale. “Con i suoi alleati e partner, gli Stati Uniti devono essere pronti a condurre questa guerra in molte località contemporaneamente e per diversi anni a venire”spiegò quell’anno la Quadrennial Defense Review del Pentagono.

Dodici anni dopo, il Pentagono ha ufficialmente annunciato che quella  lunga guerra volge al termine – anche se continuano a  imperversare almeno sette conflitti nati per sedare insurrezioni nel Grande Medio Oriente e in Africa – e una nuova lunga guerra è iniziata: una campagna permanente per contenere la Cina e la Russia in Eurasia.

“Non il terrorismo, ma la grande competizione per il potere si è delineata come sfida centrale per la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti”, ha  dichiarato a gennaio il  tesoriere del Pentagono David Norquist, presentando una richiesta di finanziamento di 686 miliardi di dollari. “È sempre più evidente che Cina e Russia vogliono dare al mondo una forma coerente con i loro modelli autoritari e, in questo processo, sostituire l’ordinamento libero e aperto che ha consentito la sicurezza globale e la prosperità dalla Seconda guerra mondiale.”

Naturalmente, il modo in cui il Presidente Trump è impegnato a preservare questo “ordinamento libero e aperto” rimane discutibile, data la sua determinazione ad abolire i trattati internazionali e innescare una guerra commerciale globale. Allo stesso modo, se Cina e Russia cercano veramente di minare l’ordine mondiale esistente o semplicemente vogliono renderlo meno incentrato sugli Stati Uniti è una domanda che merita attenzione: ma  oggi non ne ottiene.

La ragione è piuttosto semplice. I titoli a caratteri cubitali che avremmo dovuto leggere su qualsiasi giornale (ma non li abbiamo letti) sono questi: l’esercito americano ha deciso per il nostro futuro. Ha impegnato se stesso e la nazione in una lotta geopolitica su tre fronti per controbattere alle mire espansive della Cina e della Russia in Asia, Europa e Medio Oriente.

Per quanto questo cambiamento strategico possa essere importante, non ne sentirete parlare dal presidente, un uomo privo dell’attenzione necessaria a un progetto strategico a lungo raggio e che vede il russo Vladimir Putin e il cinese Xi Jinping come “amici-nemici” piuttosto che avversari temibili. Per cogliere pienamente i cambiamenti epocali che si stanno verificando nella pianificazione militare degli Stati Uniti, è necessario immergersi nel mondo dei documenti del Pentagono: i documenti di bilancio e le “dichiarazioni di posizione” annuali dei comandanti delle aree regionali, che già supervisionano l’implementazione dell’appena nata strategia su tre fronti.

La nuova scacchiera geopolitica

Questa rinnovata enfasi della pianificazione militare degli Stati Uniti su Cina e Russia riflette il modo in cui i più alti ufficiali militari stanno ora riesaminando l’equazione strategica globale, in un processo iniziato molto prima che Donald Trump entrasse alla Casa Bianca. Sebbene dopo l’11 settembre i comandanti di alto grado avessero abbracciato in pieno l’approccio “lunga guerra contro il terrore”, il loro entusiasmo per le interminabili operazioni di antiterrorismo che non portavano da nessuna parte, in aree remote e talvolta strategicamente insignificanti del mondo, negli ultimi anni ha cominciato a calare, mentre guardavano la Cina e la Russia modernizzare le loro forze militari e usarle per intimidire i vicini.

Mentre la lunga guerra contro il terrore alimentava una vasta e ininterrotta  espansione delle Special Operations Forces (SOF) del Pentagono – ora un esercito segreto di 70.000 uomini all’interno del più grande establishment militare – forniva sorprendentemente pochi obiettivi o lavoro vero alle forze “pesanti” dell’esercito: i corpi di carri armati, i battaglioni della Marina, gli squadroni di bombardieri dell’Air Force e via dicendo. Sì, l’Air Force in particolare ha svolto un ruolo di supporto nelle recenti operazioni in Iraq e in Siria, ma i militari regolari sono stati in gran parte emarginati e sostituiti, lì e altrove, dalle forze SOF e dai droni con equipaggiamento leggero.

La pianificazione di una “vera guerra” contro un “avversario di pari forza” (cioè con forze e armamenti simili ai nostri) fino a poco tempo fa aveva una priorità molto più bassa rispetto ai conflitti interminabili del Paese in tutto il Grande Medio Oriente e l’Africa. Questo allarmava e perfino irritava i militari regolari, il cui momento, a quanto pare, ora è finalmente arrivato.

“Oggi stiamo emergendo da un periodo di atrofia strategica, consapevoli che il nostro vantaggio competitivo si è eroso”,  recita la nuova Strategia di difesa nazionale del Pentagono. “Siamo di fronte a un crescente disordine globale, caratterizzato dal declino del vecchio ordine internazionale basato sulle regole” – un declino attribuito per la prima volta ufficialmente non ad al-Qaeda né all’ISIS, ma al comportamento aggressivo di Cina e Russia. Anche Iran e Corea del Nord sono identificate come minacce importanti, ma di natura nettamente secondaria rispetto alla minaccia rappresentata dalle due grandi potenze concorrenti.

Non dovrà sorprendere che questo cambiamento richieda non solo una maggiore spesa per materiale militare costoso e ad alta tecnologia, ma anche un ridisegno della mappa strategica globale, che vada a vantaggio delle forze militari regolari. Durante la lunga guerra al terrore, la geografia e i confini apparivano meno importanti, dato che le cellule terroristiche sembravano in grado di operare in qualsiasi luogo in cui l’ordine costituito stesse sgretolandosi. L’esercito americano, convinto di dover essere ugualmente agile, si preparò a schierarsi (più spesso con le forze speciali) in campi di battaglia lontani in tutto il pianeta, lasciando perdere i confini.

Nella nuova mappa geopolitica, invece, l’America si trova ad affrontare avversari ben armati con l’intenzione di proteggere i propri confini, così le forze statunitensi vengono ora schierate in una versione aggiornata della più vecchia e familiare linea su tre fronti.

In Asia, gli Stati Uniti e i loro alleati chiave (Corea del Sud, Giappone, Filippine e Australia) devono opporsi alla Cina, lungo una linea che si estende dalla penisola coreana alle acque del Mar Cinese Meridionale e Orientale e dell’Oceano Indiano. In Europa, gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato si comporteranno allo stesso modo con la Russia, su un fronte che si estende dalla Scandinavia e dalle Repubbliche baltiche verso sud fino alla Romania e poi a est attraverso il Mar Nero fino al Caucaso. Tra questi due teatri di contesa si trova il sempre più turbolento Grande Medio Oriente, con gli Stati Uniti e i suoi due alleati cruciali, Israele e Arabia Saudita, che fronteggiano un punto di appoggio russo in Siria e un Iran sempre più assertivo, nonché in avvicinamento a Cina e Russia .

Dal punto di vista del Pentagono, questa sarà la mappa strategica per il futuro prevedibile. Possiamo aspettarci che la maggior parte dei prossimi investimenti e delle iniziative militari si concentrino sul rafforzamento della forza navale, aerea e terrestre degli Stati Uniti sul lato interno di queste linee, nonché sull’attaccare i punti deboli di Russia e Cina lungo le linee stesse.

Non c’è modo migliore per cogliere le dinamiche di questa prospettiva strategica modificata che immergersi nelle “dichiarazioni di posizione” annuali dei capi dei “comandi combattenti unificatidel Pentagono” , o delle sedi unite di esercito/marina/aeronautica/corpo dei marine, che coprono i territori intorno a Cina e Russia: il Pacific Command (PACOM), con la responsabilità di tutte le forze statunitensi in Asia; il Comando europeo (EUCOM), che copre le forze statunitensi dalla Scandinavia al Caucaso; e il Central Command (CENTCOM), che supervisiona il Medio Oriente e l’Asia centrale, dove sono ancora in corso tante guerre anti-terrorismo combattute dagli Usa.

I comandanti di più alto grado di queste meta-organizzazioni sono i più potenti funzionari statunitensi nelle loro aree di responsabilità ed esercitano molto più potere di qualsiasi ambasciatore americano di stanza nella regione (e spesso anche di capi di Stato locali). Questo rende le loro dichiarazioni – e le liste della spese per armi che invariabilmente le accompagnano – davvero significative per chiunque voglia cogliere la visione del Pentagono sul futuro militare globale americano.

Il fronte indo-pacifico

Il comandante del PACOM è l’ammiraglio Harry Harris Jr., aviatore navale di lunga data. Nella sua annuale dichiarazione sulla posizione, consegnata alla Commissione per i servizi armati del Senato il 15 marzo, Harris ha dipinto un quadro fosco della posizione strategica dell’America nella regione dell’Asia-Pacifico.

Oltre ai pericoli posti da una Corea del Nord dotata di armi nucleari, ha affermato, la Cina sta emergendo come una formidabile minaccia per gli interessi vitali dell’America. “La rapida evoluzione dell’Esercito popolare di liberazione (PLA) in una moderna forza di combattimento ad alta tecnologia continua ad essere al tempo stesso impressionante e preoccupante”, ha affermato. “Le capacità del PLA stanno progredendo più velocemente che in qualsiasi altra nazione al mondo, beneficiando di finanziamenti solidi e in posizione di priorità”.

L’aspetto più minaccioso, a suo avviso, è il progresso cinese nello sviluppo di missili balistici a raggio intermedio (IRBM) e di navi da guerra avanzate. Questi missili, spiega, possono colpire le basi statunitensi in Giappone o sull’isola di Guam, mentre la marina cinese in espansione può sfidare la Marina degli Stati Uniti in mari al largo della costa cinese e un giorno forse la supremazia dell’America nel Pacifico occidentale. “Se questo programma [di costruzione navale] continuerà”, dichiara, “la Cina supererà la Russia diventando la seconda flotta più grande del mondo entro il 2020, se misurata in termini di sottomarini e navi di classe fregata o più grandi”.

Per contrastare questi sviluppi e contenere l’influenza cinese è necessario, ovviamente, spendere ancora più dollari dei contribuenti per sistemi d’arma avanzati, in particolare missili di precisione. L’ammiraglio Harris ha richiesto un enorme aumento degli investimenti in armamenti di questo tipo, per sopraffare le capacità cinesi attuali e future e garantire il predominio militare statunitense sullo spazio aereo e marittimo cinese. “Per scoraggiare potenziali avversari nell’Indo-Pacifico”, ha dichiarato, “dobbiamo costruire una forza più micidiale, investendo nei mezzi critici e sfruttando l’innovazione”.

La sua lista dei desideri sul fronte dei finanziamenti è stata impressionante. Soprattutto, ha parlato con grande entusiasmo degli aerei e dei missili di nuova generazione – i cosiddetti sistemi “anti-accesso/interdizione” nel gergo del Pentagono – in grado di colpire le batterie IRBM cinesi e altri sistemi destinati a mantenere le forze americane a distanza di sicurezza dal territorio cinese.

Ha anche accennato al fatto che non gli dispiacerebbe disporre di nuovi missili con armi nucleari per questo scopo – missili, ha suggerito, che potrebbero essere lanciati da navi e aerei e che in questo modo eviterebbero [le restrizioni poste da, ndt] il Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio, di cui gli Stati Uniti sono un firmatario, che vieta i missili nucleari a medio raggio terrestri. (Per dare un’idea dell’arcano linguaggio sul nucleare del Pentagono, ecco come si è espresso: “Dobbiamo continuare ad ampliare le capacità di attacco in teatri conformi al Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio per contrastare efficacemente le capacità ‘anti-accesso/interdizione’ [A2/AD] e le tattiche di conservazione delle forze dell’avversario”)

Infine, per rafforzare ulteriormente la linea di difesa degli Stati Uniti nella regione, Harris ha chiesto un rafforzamento dei legami militari con vari alleati e partner, tra cui Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia. L’obiettivo del PACOM, ha affermato, è di “mantenere una rete di alleati e partner che la pensano come noi, per coltivare reti di sicurezza di principio, che rafforzano l’ordine internazionale aperto e libero”. Idealmente, ha aggiunto, questa rete comprenderà l’India, estendendo ulteriormente l’accerchiamento della Cina.

Il teatro europeo

La visione di un futuro altrettanto battagliero, anche se popolato da attori diversi in un paesaggio diverso, è stato offerto dal generale dell’esercito Curtis Scaparrotti, comandante dell’EUCOM, in una  deposizione tenuta davanti alla commissione per i servizi armati del Senato l’8 marzo.

Per lui, la Russia è l’altra Cina. Come ha riportato in una descrizione agghiacciante, “la Russia cerca di modificare l’ordinamento internazionale, spezzare la NATO e minare la leadership USA per proteggere il suo regime, riaffermare il dominio sui paesi confinanti e ottenere una maggiore influenza in tutto il mondo… La Russia ha dimostrato la volontà e capacità di intervenire nei paesi confinanti e di proiettare verso l’esterno il suo potere, specialmente in Medio Oriente”.

Questa, non c’è bisogno di dirlo, non è la prospettiva che mostra di condividere il presidente Trump, che è apparso da tempo riluttante a criticare Vladimir Putin o a dipingere la Russia come un avversario a tutti gli effetti. Per i funzionari militari e dell’intelligence americani, tuttavia, la Russia rappresenta senza dubbio la principale minaccia per gli interessi della sicurezza degli Stati Uniti in Europa. Oggi se ne parla in un modo che dovrebbe riportare alla memoria l’era della Guerra Fredda. “La nostra massima priorità strategica”, ha affermato Scaparrotti, “è di impedire alla Russia di impegnarsi in ulteriori aggressioni e di esercitare un’influenza maligna sui nostri alleati e partner. [A tal fine,] stiamo… aggiornando i nostri piani operativi per fornire opzioni di risposta militare in difesa dei nostri alleati europei contro l’aggressione russa”.

La punta di diamante della spinta anti-russa dell’EUCOM è l’European Deterrence Initiative (EDI), un progetto che il presidente Obama ha avviato nel 2014, in seguito all’annessione russa della Crimea. Originariamente noto come  European Reassurance Initiative, l’EDI ha lo scopo di rafforzare le forze USA e NATO dispiegate negli “Stati in prima linea” – Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia – di fronte alla Russia sul “fronte orientale” della NATO. Secondo la lista dei desideri del Pentagono presentata a febbraio, intorno ai 6,5 miliardi di dollari dovranno essere destinati all’EDI nel 2019. La maggior parte di questi fondi sarà utilizzata per accumulare munizioni negli Stati in prima linea, migliorare l’infrastruttura di base dell’aeronautica, condurre più esercitazioni militari congiunte con le forze alleate e fare avvicendare ulteriori forze appoggiate dagli Stati Uniti nella regione. Inoltre, circa 200 milioni di dollari saranno devoluti a una missione “informazione, addestramento ed equipaggiamento” del Pentagono in Ucraina.

Come il suo omologo nel teatro del Pacifico, anche il generale Scaparrotti ha una esosa lista di desideri riguardante futuri approvvigionamenti di armi, compresi aerei avanzati, missili e altre armi ad alta tecnologia che, sostiene, neutralizzeranno le forze russe che si sono modernizzate. Inoltre, riconoscendo l’abilità della Russia nella guerra informatica, chiede un investimento sostanziale nella tecnologia informatica e, come l’ammiraglio Harris, accenna in modo criptico alla necessità di maggiori investimenti in armi nucleari di un tipo che potrebbe essere “utilizzabile” in un futuro campo di battaglia europeo .

Tra est e ovest: il comando centrale

La supervisione di una sorprendente serie di guerre contro il terrorismo nella vasta e sempre più instabile regione che si estende dal confine occidentale del PACOM a quello orientale dell’ EUCOM è affidata al  Comando centrale degli Stati Uniti.

Per gran parte della sua storia moderna, il CENTCOM si è concentrato sull’antiterrorismo e le guerre in Iraq, Siria e Afghanistan in particolare. Ora, tuttavia, mentre la precedente lunga guerra continua, il Comando sta già iniziando a posizionarsi in vista di una nuova versione della lotta perpetua, rivisitata, della Guerra Fredda, un piano – per far risorgere una parola datata – per  contenere sia la Cina sia la Russia nel Grande Medio Oriente.

In una recente testimonianza davanti al Comitato sui servizi armati del Senato, il comandante del CENTCOM, generale dell’esercito Joseph Votel, si è concentrato sullo stato delle operazioni USA contro l’ISIS in Siria e contro i talebani in Afghanistan, ma ha anche affermato che il contenimento della Cina e della Russia è diventato parte integrante della futura missione strategica del CENTCOM: “La Strategia nazionale di difesa recentemente resa pubblica giustamente identifica il risorgere della grande competizione di potere come nostra principale sfida alla sicurezza nazionale e vediamo gli effetti di quella competizione in tutta la regione”.

Grazie al sostegno dato al regime siriano di Bashar al-Assad e agli sforzi per esercitare la sua influenza su altri attori chiave nella regione, la Russia, ha affermato Votel, sta giocando un ruolo sempre più cospicuo nell’area di responsabilità del CENTCOM. E anche la Cina sta cercando di accrescere il suo peso geopolitico sia economicamente sia attraverso una presenza militare, piccola ma in crescita. Di particolare interesse, ha affermato Votel, è il porto gestito dai cinesi a Gwadar in Pakistan sull’Oceano Indiano e una nuova base cinese a Gibuti sul Mar Rosso, di fronte allo Yemen e all’Arabia Saudita. Tali strutture, ha affermato, contribuiscono alla “posizione militare e alla proiezione della forza” della Cina nell’area di responsabilità del CENTCOM e segnalano una sfida futura per l’esercito americano.

In queste circostanze, ha testimoniato Votel, è necessario per il CENTCOM unirsi al PACOM e all’EUCOM nella resistenza contro l’assertività cinese e russa. “Dobbiamo essere preparati ad affrontare queste minacce, non solo nelle aree in cui si trovano, ma anche nelle aree in cui hanno influenza”. Senza fornire dettagli, ha proseguito affermando: “Abbiamo sviluppato… ottimi piani e processi su come lo faremo.

Che cosa ciò significhi non è del tutto chiaro. Ma nonostante la campagna elettorale di Donald Trump sul ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, dall’Iraq e dalla Siria dopo la sconfitta dell’ISIS e dei talebani, sembra sempre più chiaro che l’esercito americano si sta preparando a schierare le sue forze in quei paesi (e forse altri) dell’area di responsabilità del CENTCOM a tempo indeterminato – combattendo il terrorismo, naturalmente, ma assicurando anche che ci sarà una presenza militare statunitense permanente in aree che potrebbero vedere un’intensificazione della competizione geopolitica tra le maggiori potenze.

Un invito al disastro

In modo relativamente rapido, i comandanti militari americani hanno dato seguito all’affermazione che gli Stati Uniti sono entrati in una nuova lunga guerra, abbozzando i contorni di una linea di contenimento che si estenderebbe dalla penisola coreana intorno all’Asia attraverso il Medio Oriente in parti dell’ex Unione Sovietica nell’Europa orientale e fino ai paesi scandinavi. Secondo il loro piano, le forze militari americane – supportate dagli eserciti di fidati alleati – dovrebbero presidiare ogni segmento di questa linea, uno schema grandioso per bloccare gli ipotetici progressi dell’influenza cinese e russa che, nella sua portata globale, fa tremare l’immaginazione. Gran parte della nostra storia futura potrebbe essere modellata da un simile sforzo sproporzionato.

Le domande per il futuro includono se questa sia una politica strategica solida e veramente sostenibile. Il tentativo di contenere la Cina e la Russia in questo modo provocherà indubbiamente delle contromosse, alcune delle quali sono sicuramente difficili da sostenere, compresi gli attacchi informatici e vari tipi di guerre economiche.

E se pensavate che con la “guerra globale al terrorismo” in enormi aree del mondo una singola potenza si fosse spinta decisamente troppo in là, aspettate. Mantenere forze ampie e ben equipaggiate su tre fronti estesi si rivelerà estremamente costoso e andrà certamente in conflitto con le priorità di spesa interne, provocando discussioni divisive sul mantenimento del progetto.

Tuttavia, la vera domanda – al momento non posta a Washington – è: in primo luogo, perché seguire una politica simile? Non ci sono altri modi per affrontare l’acuirsi di comportamenti provocatori da parte di Cina e Russia? Quello che appare particolarmente preoccupante, in questa strategia dei tre fronti, è la sua immensa capacità di scontri, calcoli sbagliati, escalation e, infine, di vera e propria guerra, e non semplicemente grandiosi piani di guerra.

In più punti lungo questa linea globale – il Mar Baltico, il Mar Nero, la Siria, il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale, per citarne solo alcuni – le forze degli Stati Uniti e della Cina o della Russia sono già in contatto in misura significativa , spesso sgomitando per la posizione in modo potenzialmente ostile. In qualsiasi momento uno di questi contatti potrebbe provocare uno scontro a fuoco, che a sua volta potrebbe portare a un’escalation involontaria e, infine, a un possibile combattimento a tutto campo. E da lì, potrebbe svilupparsi praticamente tutto, incluso l’uso di armi nucleari.

È chiaro che a Washington si dovrebbe riflettere seriamente prima di impegnare gli americani in una strategia che renderà questo sempre più probabile e potrebbe trasformare quella che è ancora solo la pianificazione di una lunga guerra, in una vera lunga guerra, con conseguenze letali.



Michael T. Klare,  collaboratore fisso di TomDispatch , è docente di Studi sulla pace e la sicurezza mondiale all’Hampshire College (Amherst, Massachusetts) e autore, tra i suoi libri più recenti, di The Race for What’s Left. Una versione sotto forma di film documentario del suo libro Blood and Oil è disponibile presso la Media Education Foundation. Seguilo su Twitter su @mklare1.

Part 5 & Conclusion: A Theory of Systemic Fragility in the Global Economy

A Brief Recapitulation of Key Trends & Systemic Fragility
To understand how the nine trends contribute to, or are associated with, systemic fragility it is necessary to define further what is meant by contribution. How do the nine trends differently cause fragility and therefore financial instability? What are the qualitative differences among the trends in the determination of systemic fragility? To begin with, some causal factors are precipitating a crisis. Other causal factors are best understood as enabling, both in the build up to the financial crash and in the immediate post-crash contraction. Still other causes are fundamental and originating in nature. And not only the nine trends but fragility itself becomes a cause of fragility, as the development of systemic fragility results in feedback effects described in more detail shortly.
Of the nine trends, those that qualify as ‘fundamental’ are the explosion of liquidity within the global economy since the 1970s, the accompanying escalation of debt, the relative shift to financial asset investing that follows as real investment slows and financial asset investing and speculation in financial securities rises, and the accelerating disparity between incomes of the several hundred thousand new finance capital elite and those of the hundreds of millions of wage earners.
The important ‘enabling’ trends and factors would include the restructuring of both financial and labor markets globally and the contribution of government policy (fiscal, monetary, and other)—as both restructuring and policy enable, encourage and assist the expansion of debt and stagnation of incomes.
‘Precipitating’ causes of financial instability events (market crashes, banking system crashes, severe credit crunches, major financial institution insolvency and bankruptcy events, wars, natural crises, etc.) are not among the nine trends. What precipitates, or sets in motion, a major financial crisis is typically associated with a major shift in investor-agents’ psychological mindset and expectations. Here the price system, especially the acceleration of financial asset price deflation, plays a close supporting role in that expectations shift by investors.
To briefly recapitulate the nine trends and their relationship to fragility and financial instability: the explosion of liquidity since the 1970s, attributable to central banks creation of ‘money credit’ plus internal changes in the financial structure that has increased ‘inside credit’ liquidity, has led to a corresponding excess growth of debt, especially private sector debt. The availability of debt has led to its general leveraging in the purchase of financial assets. Financial asset investment profitability has diverted money capital from real asset investment alternative opportunities. Excess liquidity has become far greater in any event that might be employed in real asset investment. Fragility is a basic function of rising debt and slowing or declining growth of incomes required to pay for debt, plus a set of group variables that affect payment capabilities as well. Financial restructuring has produced a corresponding new structure comprised of shadow banks, deep shadow banks, and integration of commercial and shadow banks, an expanded global network of highly liquid markets for transacting financial assets, and proliferating forms of financial securities traded in these markets. This new structure and the unprecedented financial incomes it has generated for professional investors has created a new finance capital elite of no more than 200,000 very high net worth individuals. This new structure, the new elite, and the development of systemic fragility are components which must be included in the proper definition of ‘financialization’. Concurrent with the financial restructuring has been a fundamental restructuring of labor markets on the real side of the economy. Labor market restructuring has produced a stagnation and decline of real wages and therefore household consumption fragility from falling incomes and related rising household debt. This occurs simultaneously as financial restructuring has raised debt and financial fragility. These are long term secular trends. However, financial crises and consequent real economy contractions intensify the mutual effects of financial and consumption fragility on each other in the post-crash period and deep contraction period. Government fragility also rises long term secularly due to policies that reduce government income sources even as government subsidizes the private sector and government debt rises. Government debt accelerates with cyclical crises, financial instability and real contractions, as government transfers private debt to its own balance sheets as well. Systemic fragility renders government fiscal-monetary policies less effective as it negates multipliers and reduces elasticities of interest rates on consumption and investment. In crises and post crises periods, the mutual feedback effects between three forms of fragility intensify as well. Financial asset price volatility plays a key role in the growth of systemic fragility, in intensifying the financial and real crises when they erupt, and in reducing the effectiveness of traditional government fiscal-monetary policies from stabilizing the crises.
Measuring the Three Forms of Systemic Fragility
As already noted, the three forms of fragility are financial fragility that affects private sector investment, consumption fragility that impacts households, and government balance sheet fragility that has consequences for government policy effectiveness and government ability to prevent deeper than normal real economic contractions and to generate a sustained recovery from those deeper contractions.
The three forms of fragility may be aggregated to estimate systemic fragility. Since debt levels and liquidity are potentially measurable, each of the three forms of fragility should in theory be capable of producing a fragility index. Systemic fragility in turn should be capable of representation by means of an aggregated index based on the three indices. However, the aggregation of the three forms of fragility cannot be created by a simple addition of each of the three fragility forms. Systemic fragility is more than just the ‘sum of the parts’. The magnitude of systemic fragility is the product of the many, complex interactions and feedback effects that occur between the three forms of fragility. This feedback contribution makes the creation of a systemic fragility index more problematic.
Within each of the three forms of fragility the major determining variables are debt, income available for debt payments, and a group variable of elements that affect payment of debt from available incomes.
The debt and income variables include not only levels or magnitude of debt but the rate of change in levels and magnitudes. How thoroughly debt and income is defined is also important.
For example, forms of basic income with which to pay debt may include cash flow for financial institutions and businesses and wage income for households. While these are the basic definitions as per Minsky’s analysis of fragility, they are not sufficient.
For determining financial fragility, Minsky’s cash flow variable is too narrow a concept. The income variable influencing financial fragility should be defined as cash flow plus other forms of near liquid assets held by businesses that may in a crisis be relatively quickly converted to cash in order to make debt payments. Moreover, the rate of change in this broader income variable, and not just its level, should also be considered.
For households and consumption fragility, the proper income variable should be wage earning households’ real disposable income plus income in the form of transfer payments to these households. Both levels and rates of change of income are important. Since the vast majority (90% or more) of households’ income is from wages and transfer sources, adopting the real disposable income as the wage income variable is acceptable. However, insofar as the wealthiest households (especially the top 1% and the even more especial 0.1%) constitute a share of overall investor households whose income derives in part (rising with income level) from financial investment and capital gains incomes, a distinction might also be made between the two when assessing the development of consumption fragility.
And for government units, it is not just tax revenues that constitute ‘income’ but the ability to quickly sell bonds in markets as well. Another major factor related to government fragility is the ability of the national or federal government to essentially create substitute income quickly and when necessary in the form of printing of money that it can then ‘lend’ to itself when income from tax revenue and bond sales to private investors (and other governments) is insufficient. Since only national governments are legally allowed to ‘create income’ for themselves, it is probably important to distinguish between national government fragility and state-province-local government unit fragility, where in the case of the latter direct income creation is not an option.

Minsky’s approach is also undeveloped in assuming that financial fragility’s internal variables of debt and income operate for financial institutions (banks, shadow banks, etc.) in the same way as for other non-bank businesses. Insufficient distinction is made between the two, given that financial asset deflation impacts banks more severely and rapidly in a crash than it does non-bank business. Financial asset price collapse causes a collapse of bank cash flow + near liquid assets, and thus raises bank real debt much faster than for non-banks whose cash flow is affected negatively by falling real goods prices which decline much slower. This is a critical distinction. Minsky’s failure to account for it reflects his general underdevelopment of the two-price theory factor, as he himself acknowledges. Also undeveloped is the intermediate form of bank-nonbank business institution—i.e. the multinational corporation that today is a hybrid of bank and nonbank, or what we’ve called ‘deep shadow’ bank, where its business model is based on both real asset and significant financial asset investing activity. And then there is the related question of whether, and if so how, shadow banks in general are potentially more fragile than commercial banks and how is that explained by the basic variable duality of debt and income?
On the debt side of the fragility definition, the sources and kinds of debt incurred are probably important as well, not just the total debt levels or rates of change. For example, there are a number of different kinds of business debt (corporate bonds, paper, bank loans, etc.) that are important due to the terms and conditions associated with payments in the different instances. In the case of banks and financial institutions, bank fragility may be higher when there is a greater weight of ‘repurchase agreements or repos’ in their total debt portfolio while the proportion of junk bond debt to total debt impacts non-bank fragility. Similarly, composition of debt is important for consumer households (mortgage, credit card, student loan, payday loans, etc.) And even government debt, especially at the local government level where debt composed of derivatives like interest rate swaps is involved.
Here is where the third key variable defining fragility becomes important—i.e. what might be called the ‘terms and conditions’ of debt servicing (T&C variable) that interacts in important ways with both debt and income to jointly determine fragility.
Minsky’s view is undeveloped with regard to the T&C variable. T&C is a group variable that is composed of various elements that may exist in different combinations and ‘weights’ associated with a particular debt. T&C as a group variable may include elements such as the level of interest charged on the debt; the term structure of the debt (short term v. longer term debt); whether the debt interest payment is fixed or variable and thus subject to volatility in interest amount; penalties, fees and other charges on missed payments; provisions of the debt that define under what conditions default may occur when principal and/or interest is not paid on time; post-default obligations; time limits for defining default (30, 60, 90 days?); powers of the lender of the debt when default is declared; bankruptcy processing, and other provisions that are called ‘covenants’ that define payment options for the borrower; alternatives to payment (e.g. option to pay ‘in kind’), refinancing conditions, and so on.
The T&C variable is thus complex, and its composition and effects may vary considerably between different forms of debt (e.g. investment grade v. high yield ‘junk’ corporate bond debt, corporate commercial paper debt, securitized debt, national government sovereign (T-bond) debt, local government municipal debt, household installment, credit card, or student loans, leverage loans made by private equity shadow banks to businesses, and so on). The difficult to quantify character of the T&C variable makes estimating a fragility index for each of the three constituent forms of fragility especially difficult. But the T&C variable’s important and influence on fragility nonetheless increases greatly when a financial instability event is precipitated and a rapid change in financial asset price deflation occurs.
Thus within the three forms of fragility—financial, consumption, and government—that determine systemic fragility are three critical variables—debt, income, and terms and conditions of debt servicing. The interaction between debt, income and T&C variables determine what might be called a first approximation of the level of each form of (financial, consumption, government) fragility. But this would be a first approximation only, since the levels of fragility—and their aggregate summation as systemic fragility—are the consequence as well of the various feedback effects between the three fragility forms. And those feedback effects are enabled, in turn, by transmission mechanisms or processes that also constitute the equation of systemic fragility.
Fragility Feedback Effects
A major differentiation between the theory of systemic fragility introduced here, compared to other theories based on fragility as a determinant of financial instability, is the acknowledgement of what might be called ‘feedback effects’. The term is shorthand for the recognition that fragility is a dynamic and not a static concept. And that its development does not occur in a linear manner.
By ‘feedback’ and dynamic is meant that there exists a complex web of mutual determinants involved in the development of the aggregate condition called Systemic Fragility. Mutual causations between variables are at work, occurring at various levels.
As several examples have already indicated, there are mutual determinations between the three forms of fragility—financial, consumption, and government balance sheet. The internal variables of debt, income, and T&C also mutually impact each other—in some cases offsetting and reducing fragility and in other cases exacerbating it within each of the fragility forms. And there is a third, still more general level of interaction and determination—between financial asset and real asset investment as a consequence of growing fragility in general.

Within each form of fragility, the three variables involved—debt, income, and T&C—interact in various ways. For example, slowing or declining income with which to pay debt may result in higher debt, as a nonbank business resorts to borrowing more in order to service the debt. Or, its T&C may worsen as it rolls over the debt at a higher interest rate and/or shorter payback term, or with a loss of previously favorable ‘covenants’. Rising debt in turn reduces available income for investment, as more of future income must be assigned to paying the higher debt. When debt term expires, lower income flow and higher debt levels may result in debt refinancing on worse terms than previously, which reduce the ability to make future payments. There are various combinations of mutual interactions between debt, income, and T&C over time.
A similar scenario applies to consumption fragility. Declining consumer real disposable income and/or reduction in transfer payments may force households to take on more debt to maintain living standards. Debt levels rise, and in turn higher total interest and principal must be paid on the debt. That means less future real disposable income after the higher payments are made. The higher a consumer’s debt load and debt payments as a percent of disposable income, the worse the credit terms that consumer receives when borrowing. Higher indebtedness and lower income results in having to pay a higher interest rate for a home mortgage or auto loan. The quality of that indebtedness also affects payment terms. Excess credit card debt, for example, may force a household to resort to payday loans, obtainable only at excessive interest rates.
And within government units, especially local government, a fall-off in tax revenue affects a credit rating so that the municipality, school district, or other government agency is forced to pay higher interest rates on bond issues it offers. Higher interest payments due to more debt and higher rates means a reduction in future income. Income and debt mutually exacerbate each other, and government fragility rises.
Even national level governments may face similar difficulties. A good example is Greece.
In the Greek case, like many Euro periphery governments after 1999 and after the creation of the Euro currency, Greece borrowed heavily from northern European banks. Its sovereign debt levels rose steadily from 2000 to 2008. When the great recession in 2008-09 depressed Greece’s real economy, its tax revenue income declined. Its ability to finance past debt therefore was not possible. Northern European governments, and cross-government institutions, thereafter restructured and refinanced (rolled over and added to) Greek debt in 2010. That added further to the total debt levels to be paid. T&C were made more unattractive as well. As part of restructuring, Greece was forced to divert its tax income to pay for the higher debt. So its debt rose and its income available for the higher debt payments simultaneously declined. Debt and income decline were exacerbating each other and fragility growing for all three reasons, including deteriorating T&Cs. Government income diverted for debt payments, as a consequence of austerity policies, had the further effect of reducing Greek GDP, which further lowered tax income, and made Greece even more fragile. A second European recession in 2011-12 repeated the process, and debt was restructured a second time in 2012 with the same general effects. A third debt restructuring in 2015 is in progress. It too will raise debt levels, total debt payments due, and reduce Greece’s income from tax sources still further as Greek GDP collapses once again.

The possible feedback effects between the three key variables within each of the forms of fragility are numerous. The intensity of these interactions serves to raise the level of fragility within each form. Moreover, that intensity rises during and immediately after a financial instability event, which accelerates the development of fragility within each form.
Increasingly fragility within each form leads in turn to greater feedback effects between the three forms of fragility as well.
Several examples have been shown previously of how financial fragility may interact and intensify household consumption fragility—and vice-versa. When a financially precipitated recession occurs, interactions between forms of fragility intensify and the processes become generalized. A ‘race to the bottom’ then ensues, leading to generalized price reduction (goods deflation), labor cost cutting and more household consumption fragility.

In the case of the financial fragility of banks and financial institutions, this feeds back on both nonbank businesses and households, raising the fragility of both. This typically occurs as collapsing financial asset prices for banks results in a freezing up of bank lending, both to nonbank businesses and consumer households. With new loans frozen banks’ new income generation does not occur. They cannot sell financial securities, since no one wants to buy securities when financial asset prices are collapsing. Bank fragility then translates into nonbank fragility, as nonbank businesses, unable to obtain day to day business operating loans from banks, must resort to the cost cutting with the effects previously noted. In this way a nonbank business, that is not necessarily fragile to begin with, may be quickly forced into a fragility condition by the banking system and have to cut costs and/or take on more debt from other sources at less attractive rates and terms. The freezing up of bank lending has a similar effect on households. Bank layoffs mean declining income and rising fragility for employees associated with the banks. Nonbank cost cutting due to lack of bank loans produces the same effect for households. Bank financial asset price collapse may mean loss or reduction of pension retirement income to households. It also typically results in a decline in interest income earned by households. Mortgage refinancing as a means of increasing household income also dries up as banks freeze lending. There are various conduits by which bank fragility translates directly or indirectly (via nonbank fragility) to household income stagnation, decline, and therefore rising consumption fragility. Bank lending freeze up may also force households, like nonbank businesses, to seek credit elsewhere on worse T&C arrangements, also contributing to household consumption fragility.
Bank fragility also feeds back, directly and indirectly, on government balance sheet fragility. The freezing up of bank lending results in a decline in real investment and household consumption that slows economic growth and thus government tax revenue. Government also ends up spending more in recession situations (discretionary and non-discretionary spending typically rise). The combination of more spending and less tax income means rising budget deficits which must be ‘financed’ by raising more government debt. Thus government fragility rises due to both declining income and rising debt.
Government also transfers debt from the private sector—especially from banks and strategic nonbank businesses it bails out—following financial crashes and deep recessions. Government may buy the bad assets on bank balance sheets and transfer it to its own—either its central bank or to what is called a nationalized ‘bad bank’ which holds the various toxic assets until the government can resell them. Massive government direct loans, subsidies, and loan guarantees to strategic nonbank businesses may also occur. Banks’ ability to sell bad mortgage debt to government agencies also amounts to an offloading and transfer of debt, and fragility to an extent, to government. By enacting deep bank and business tax cuts, government indirectly also transfers private sector debt and fragility to itself. Banks and business income is raised as a consequence of less taxes to pay, while government income declines and thus its own fragility is raised.
Government units may also absorb debt from households in a similar fashion, in effect subsidizing mortgage refinancing for homeowners facing foreclosure or experiencing ‘negative equity’ value in the homes. However, this occurs far less than the much more numerous and generous debt transfer programs provided to banks, financial institutions and investors. More typical is government subsidizing household income, in effect reducing its own income, transferring debt and fragility to its own balance sheet. Secularly over the long term, but especially in post-financial crash crises, government may fund an increase in its transfer payments to households bolstering household income at the expense of its own deficits and debt. The rise in household consumption fragility is to an extent thus offset, while government’s own fragility from more spending, deficits and debt is in turn raised.
Thus far the examples of ‘feedback’ direction have been from financial fragility, and especially bank fragility, to household consumption fragility and even government balance sheet fragility. But consumption fragility may also ‘feedback’ on both financial and government fragility.
As household income stagnates or declines due to many of the labor market structural changes noted, there is less consumption and therefore less household demand for nonbank business goods and services. That may result in less business revenue and therefore less business income. This feedback effect may be reduced to the extent that households, despite declining income, do not reduce their consumption but instead take on more consumer debt to maintain consumption levels. However, there is a limit to how much extra debt households are able, or may want, to take on to maintain consumption. Household debt accumulation has upper limits.
Consumer debt reduces future disposable income, as more interest on the debt must be paid. Stagnating-declining household incomes (and fragility) feed back to both further nonbank financial fragility as well as more future household consumption fragility.
Consumption fragility also feeds government balance sheet fragility. Reductions in household income and/or rising debt have the consequence of less consumer spending. Less household spending means less sales tax revenue; that especially impacts local governments highly dependent on this particular form of tax revenue income. In the US economy, deep recession conditions are associated with significant loss of household incomes due to layoffs, wage cuts, etc., which may translate into mortgage failures, foreclosures, and falling local property values. That results in less property tax revenue income for local governments, raising their fragility. Dependent on local government and property tax revenues, Public Education services are then cut unless national governments spend more in order to maintain such services. In this manner, rising consumption fragility indirectly forces an increase in local government fragility via tax revenue income decline as well as national government fragility via more spending, deficits, debt and national government balance sheet fragility. Less household consumption impacts income tax—as well as local sales and property tax—revenues similarly. Less consumption means less business production and less hiring, both of which reduce taxable income that would otherwise accrue to governments. And there is a secondary, derivative effect on government fragility. Not only may government debt levels rise, as government has to borrow more in order to offset tax income loss, but the terms on which the additional debt is borrowed may raise debt costs as well. State and local governments running large budget deficits pay higher rates of interest for the municipal bond debt they sell in order to finance their high deficits due to tax income decline.

Financial fragility feeds into consumption fragility, and vice-versa. Financial and consumption fragility feed government balance sheet fragility in various ways. But the feedback direction may also occur from government balance sheet fragility to financial and household consumption fragility. This is where fiscal austerity policies play a particularly significant role. Austerity is about offloading actual, and/or potential, government debt onto households. Government balance sheet fragility is reduced at the expense of rising consumption fragility. Austerity means a deep reduction in government spending. That means more retained government income. But spending in the form of household transfer payments means less household disposable income. Less government spending means lower deficits and less debt to finance as well. Austerity also means government selling off public assets, which raises temporarily government income levels. But it forces households to turn to private, higher priced, alternatives to the once government provided services and programs. What were once perhaps free public services and goods must now be paid for by households, reducing their disposable income and raising household fragility. Austerity also means raising taxes and reducing government pensions and retirement payments, or national healthcare services or payments. All that raises government income or reduces government costs, while lowering household disposable income and raising household costs. In austerity, most of the tax increases are local government fee increases, sales taxes, and other ‘regressive’ taxation impacting median and below households the most. Occasionally, the tax hikes also affect investors and businesses. And the pension, retirement, and health care cuts are significantly directed at middle income households.
What the foregoing reflects is that there are numerous ways and ‘paths’ by which fragility in each of the three forms in turn ‘feeds back’ upon one or more of the other forms. Sometimes the feedback is direct—i.e. from government to households, or banks to nonbank businesses and households, or households to government or nonbank businesses. Sometimes it is transmitted via income declines, sometimes debt, or other times both simultaneously more or less. The feedbacks may also occur indirectly: i.e. rising financial fragility leading to consumption fragility and thereafter to government fragility as the latter responds. Or financial to government to households. Or many of the other possible combinations involving two or more.
But the major point is that feedback effects do occur. Fragility does not develop within each of the three forms independently of the other. It ‘accelerates’ overall as the intensity of the feedback effects grows during periods of financial instability events and subsequent deep and rapid decline in the real economy. There are not only ‘accelerator’ effects, but also what might be called ‘elasticities of response’ between the different forms of fragility feedbacks. Perhaps a minor change in financial fragility generates a significant feedback effect on consumption fragility—i.e. a big further rise in consumption fragility. But a rise in consumption fragility produces less of a significant change on financial fragility.
Transmission Mechanisms of Systemic Fragility
A final, but very important, topic to consider is the importance of ‘Transmission Mechanisms’ (TXMs) or processes with regard to fragility. This is an area that has been left particularly undeveloped in other analyses that attempt to explain the relationship between fragility, financial instability, and economic cycles.
Transmission mechanisms operate at several levels in the process of determination of systemic fragility. Feedback effects—i.e. mutual determinations—occur between the three internal variables—debt, income, T&Cs. At a higher level, between the three forms of fragility—financial, consumption, government balance sheet. And at the most general level between financial asset investment and real asset investment. All the mutual determinations require some kind of transmission mechanism between them.
At least three key transmission mechanisms appear essential to Systemic Fragility. They are: 1) the price system, 2) government policy, and 3) investor agents’ psychological expectations.
Price Systems as TXM
The neoclassical view is that there is only one price system and all prices behave the same—that is, all prices respond in the same way to supply and demand forces. Whether financial asset prices, goods & services prices (output prices), input prices (wages as price for labor, real capital goods, land), or money prices (interest rates) are involved, the response to supply and demand is similar. Supply interacting with demand adjusts prices to return the economy back to equilibrium. In other words, one price system thus fits all and the price system is the key to economic system stabilization.
This neoclassical view does not conform to reality, however. In the case of financial assets, demand plays a much greater role; the role of supply is almost negligible. With financial asset price inflation, demand induces still more demand, driving prices ever higher so long as prices continue to rise. Supply does not moderate asset price inflation. And financial asset prices ‘adjust’ rapidly and abruptly downward (i.e. deflate) only when investors conclude that further price appreciation is not possible and price stagnation or decline is imminent. It is thus a psychological perception or expectation of imminent price shifting that precipitates the reversal and price deflation, not supply side forces. The shift to deflation is unrelated to extra supply or rising costs, as in goods prices, since ‘cost of goods’ for producing financial securities is virtually negligible.
Financial asset price deflation is a mechanism within a form of fragility that intensifies and exacerbates the effect of one fragility variable upon another—i.e. debt on income, income on debt, T&C on debt, and so on. Take the example of growing financial fragility among banks. Financial asset deflation reduces bank income available to make bank debt payments to another bank from which it may have borrowed. When asset deflation begins, investors do not buy new assets from the bank. Bank revenue falls. Income from the sale of bank equity declines as well. This general income decline occurs, moreover, at a time when banks actually need to increase their income in order to cover the asset losses from falling asset prices as well as make payment on their own debt. Less income plus falling asset values plus rising real debt translate into an increase in bank financial fragility.
How then does this greater bank fragility transmit to another form of fragility, i.e. from financial to consumption and/or government fragility? Here again the price system serves as transmission mechanism, as financial asset deflation spills over into goods deflation and even to wage deflation thereafter. Here’s one scenario of bank to nonbank to household fragility transmission enabled by price systems:
Banks are capitalist businesses like any other, but they are also different in that they are the capitalist institutions that provide credit to the rest of the system. They function based on a ‘fractional reserve’ basis. When bank asset prices deflate and bank losses grow, banks stop lending to ensure they retain sufficient reserves. They hoard available income (cash assets) as much as possible in an asset deflation situation in order to offset losses. When financial asset deflation is moderate, banks respond with what’s called a moderate ‘credit crunch’ (lending interest rates escalate); when asset deflation is more serious, a ‘liquidity crunch’ occurs (bank lending dries up temporarily as banks impose administrative obstacles to prevent lending as well as raise lending rates); when banks default on a debt payment due it’s an even more serious scenario, a ‘solvency crisis’. An insolvent bank is a candidate for bankruptcy and court distribution of its remaining assets at auction.
The degree of bank financial asset collapse thus corresponds roughly to the degree of bank lending contraction. And as bank lending contracts, so too does the real economy. Nonbank businesses cannot obtain operating loans to keep their businesses going. Banks just won’t lend. Nonbanks are then forced to raise more revenue income by lowering their product prices and/or by reducing their labor prices (wages) to cut costs, or both. In this scenario, what starts as financial asset deflation for banks ‘transmits’ to the rest of the economy as nonbank businesses institute goods and/or wage deflation. That goods and wage deflation reduces income for nonbanks and for households, in turn raising their fragility. The transmission is from asset prices to goods prices to wage prices. But the process starts with financial assets.
An alternative to nonbanks lowering their goods and/or labor prices is to cut production and/or layoff workers. The production cuts and layoffs result in less government tax revenue and thus raises government fragility. The layoffs amount to an aggregate wage reduction, with the same effect on consumption fragility.
Transmission by price system can also occur in the opposite causal direction. Forces behind declining goods or labor prices unrelated to financial asset deflation can transmit nonbank or household fragility to banks and financial asset deflation. However, that reverse direction of causation does not typically precipitate financial asset deflation as often or as dramatically as the latter precipitates goods and wage deflation. That’s because financial asset prices are, by their nature, far more volatile for reasons stated. So what is more often observed is financial asset deflation transmitting financial fragility to nonbanks and consumption fragility to households.
Just as there are multiple ‘feedback’ effects between forms of fragility, so too are there multiple ways price systems can transmit income decline and debt rise, and thus fragility, between the three different forms of fragility. The steeper the asset price deflation that occurs after a financial crisis erupts, the more intense the transmission from one form of fragility to another. Also, the more fragile the other forms are when the crisis and asset deflation begins, the stronger the transmission from one fragility form to another. For fragility grows secularly and steadily over the long term, and then accelerates when a financial crisis erupts and the real economy contracts sharply in response to the crisis.
Government policy changes also function as transmission mechanisms, causing fragility to intensify among variables within a form of fragility as well as between forms of fragility. Here one might argue that government ‘prices’ serve as a transmission mechanism.
In the wake of a major financial instability event like a stock market crash or banking insolvency crisis, for example, the government central bank takes monetary action to pump massive liquidity into the banks to offset their financial asset collapse and losses. To do this the central bank drives down its lending rate to banks and bank-to-bank lending rates to zero, as has happened throughout the advanced economies since 2008 and continues now for the seventh year. Lowering the ‘price’ of money (i.e. interest rates) by government action lowers costs for banks and raises bank incomes by means of cost cutting. Banks can also rollover and refinance their previous debt by borrowing new debt at virtually no cost. That income support and debt interest (T&C) reduction together reduces banks’ fragility. However, it also reduces income for households and raises therefore consumption fragility. Interest income previously earned by households from higher interest savings rates disappears. Households’ fixed income is reduced and consumption fragility thus rises due to the lower income. In effect, central bank zero interest monetary policy results in a de facto transfer of income from households to the banking sector. Households subsidize the banks. From a fragility analysis standpoint, it means fragility is transmitted from banks to households.

The lower interest rates also reduce central banks-government fragility by lowering the government’s debt financing costs. So both banks and governments like a zero interest policy. That’s one key reason why it has continued for so long and is favored over fiscal policy throughout the advanced economies still, after seven years. Greater reason, no doubt, is that keeping rates low for a long duration simply provides low-no cost liquidity with which to invest in accelerating financial asset prices or to use to leverage to finance expanding offshore real investments by multinational corporations. The purely economic reasons also provide geopolitical advantages as well. Low rates in order to stimulate the real economy are more a justification, and certainly a secondary objective.
The shift in government monetary and interest rate policy is a fragility transmission mechanism enabling feedback from one form (bank financial) to another form (household consumption). Or, it might be argued that the price for money is the transmission mechanism.

Another government price mechanism by which fragility is transmitted from one fragility form to another is government taxation—i.e. taxes as the ‘price’ for government services. By reducing taxes on banks or nonbank businesses, the government in effect frees up more income for business (reducing its fragility) while lowering its own tax revenue income and raising its own fragility. Lower tax revenue and income may have a ‘knock-on’ effect requiring the government to take on more debt to offset the business tax cut and government revenue income loss. So government debt rises, income declines, and its fragility rises as that of business falls. This amounts to a transfer of fragility from the business-bank side (i.e. financial fragility) to government balance sheet fragility.
Government might do the same for households. However, such parallel fragility transfer is often only token in magnitude and effect. More often since 2008, governments have responded with austerity, shifting its greater debt and lower income (fragility) due to bank and nonbank bailouts to households. In other words, austerity tax policy amounts to a transfer of debt/income and fragility from banks and nonbanks to households and consumers, through the medium of the government.
Other types of government policy may also serve as transmission mechanisms bringing about a shift of fragility from one of the three forms to the other by lowering debt/raising income in one form and lowering income/raising debt in another. For example, free trade policies raise business revenue income at the expense of households’ wage income. That means a shift of fragility from business to households, all things equal.
Government policies that aim at privatizing pensions and retirement systems, or privatizing and de-collectivizing (Obamacare in the US) health insurance systems, result in major cost savings for business that reduces their fragility, but also results in lower deferred wage incomes and benefits compensation for wage earning households.
The trend throughout the advanced economies in recent years is to implement what is called ‘labor market reforms,’ policy that aims at reducing unions, collective bargaining, and employment rights to help business cut costs and raise income. It also results in lower wage income. Fragility is offloaded from business and on-loaded to wage earning households.
A third transmission mechanism that increases fragility within a particular form, as well as between the three forms, is Investor-Agents Expectations.
Expectations among the global finance capital elite as to where financial asset prices are going in given markets are critical to the direct transmission of fragility between financial and consumption, and indirectly to government fragility as well. Consensus expectations among the elite as to whether financial asset prices in a given market are about to peak typically set in motion the selling of assets in that market. The selling then accelerates as second tier investors follow suit. Asset price deflation may thereafter turn into a rout, as ‘retail’ investors then provide further momentum and financial asset deflation accelerates. Members of the finance capital elite thus precipitate a reversal of asset price inflation.
This may occur by collusion between major shadow bank institutions or even commercial banking institutions. For example, in recent years evidence of such collusion has repeatedly appeared—as in the case of fixing of Libor interest rates and derivatives trading on London exchanges. Or it may occur as the result of more tacit signals by major buying or selling by well known traders of the big institutions, shadow or commercial. A pattern appears to repeat, where money capital and credit flows from shadow banks and big investors into a particular market, where the asset prices rise appreciably, then assets are sold in growing volume, financial profits are taken, and the global money parade moves on to another financial securities market.
One day it’s Asian stock and equity markets, then its corporate junk bonds, then Exchange Traded Funds, then oil commodity futures price changes, then it’s Japanese or Euro currency speculation as QE programs are about to be introduced. The sea of liquid capital awash in the global economy sloshes around from one highly liquid financial market to another, driving up asset prices as a tsunami of investor demand rushes in, taking profits as the price surge is about to ebb, leaving a field of economic destruction of the real economy in its wake. Financial asset bubbles build and then collapse, accelerating financial fragility. When the pullout occurs, financial losses negatively impact the availability of money capital and credit for nonbank businesses, raising fragility among nonbank enterprises and the households dependent on them for wage income. Investor-agents’ expectations alternately drive financial asset prices to bubble ranges, and then cause them to collapse as money is moved out again and sent elsewhere, almost instantaneously and electronically to other liquid markets which now have more asset price appreciation potential.
What results is stock markets appreciating to levels that have nothing to do with fundamental earnings of the companies in them, an unrelenting chasing of yield by investors in ever riskier markets, and a growing volatility of currency exchange rates—to name but a few of the more recent negative effects. What moves the markets in terms of major shifts and swings are not the common investor, but the major ‘institutional’ (read: shadow bank) investors who buy and sell in large blocks of securities.
Decisions of the big investors, the finance capital elite, are at the center of these major shifts in direction (up or down) involving financial securities prices. And their decisions are heavily influenced by their expectations as to where a given financial market’s price level is reaching a top or approaching a nadir. Investors outside this elite may trade once a shift in direction has occurred (thus making few profits or taking major losses for ‘getting in late’ and ‘getting out late’). But it is this global elite that drives the major shifts in asset prices, which is where the real money is made.
Their expectations and decisions have implications for financial fragility and its transmission to nonbanks, households and even government balance sheets.
Fonte: qui