giovedì 14 settembre 2017
DELRIO: “IL DIETROFRONT SULLO IUS SOLI E’ UN ATTO DI PAURA”
IL PALLONARO DI RIGNANO PENSA AI DUE PUNTI CHE PERDEREBBE IL PD IN CASO DI APPROVAZIONE E ORMAI DISPERATO RIBADISCE: “SONO CON GENTILONI”
Silvio Buzzanca e Umberto Rosso per la Repubblica
Sergio Mattarella a Malta dribbla l' ostacolo ius soli per evitare altre polemiche. Sforzo vano, perché nel frattempo a Roma scoppia uno scontro ai vertici del Pd. A dare fuoco alle polveri è il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio che non ha gradito lo stop allo ius soli al Senato. «È stato certamente un atto di paura grave. Abbiamo bisogno di non farci dominare dalla paura», ha detto Delrio. Posizioni condivise dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che sostiene: «Non la dobbiamo dar vinta a nessuno, lo ius soli va portato a casa».
Le parole di Delrio hanno subito suscitato la reazione dei renziani, in un crescendo che è culminato in un intervento dello stesso Matteo Renzi. «La posizione del Pd sullo ius soli è nota - ha scandito il leader - ed è pienamente in sintonia con il governo». Nel frattempo il presidente del Pd Matteo Orfini invocava proprio il governo a porre la fiducia sul testo, mentre il vice segretario Maurizio Martina assicurava che i dem lavorano per l' ok al testo.
Una tensione stemperata solo in serata in un giro di telefonate fra Renzi, Gentiloni e Delrio. Il segretario ha ribadito che lui lo ius soli lo vuole approvare, ma senza creare fibrillazioni al governo e quindi si rimette alle scelte di Gentiloni, Delrio ha spiegato che non voleva attaccare il partito o il gruppo del Senato, ma solo segnalare il rischio di assecondare troppo il no degli alfaniani.
Il Pd deve comunque fare i conti anche con Mdp che lo ius soli lo vuole approvare. Il deputato Alfredo D' Attorre spiega che «a partire dalle prossime scadenze, sul Def e sulla legge di Stabilità, noi faremo valere le nostre ragioni. A questo punto - conclude - i nostri voti non sono scontati». E in serata Massimo D' Alema definisce lo stop alla legge «è un errore per la sicurezza nazionale».
Mattarella, a Malta dove si trova per un vertice con altri dodici capi di Stato europei sull' emergenza sbarchi, non parla dello dello ius soli, che pure tanto gli sta cuore. Ma l' impressione è che la "stretta" di governo e maggioranza goda della benedizione del Colle.
Tutto il capitolo immigrazione, nuove cittadinanze comprese, gli appare infatti al momento ad alta tensione, per la tenuta della coalizione ma anche a causa del clima d intolleranza che serpeggia nel paese. A questo punto, spiega allora il presidente della Repubblica, è indispensabile «una ragionevole capacità di accoglienza».
Mattarella riprende le parole del Papa, ma dà anche il placet definitivo alla linea Minniti. «L' Italia sollecita la Ue a stabilizzare la Libia, e a rendere dignitosa la vita nei campi profughi», spiega, chiedendo «canali legali di ingresso » per i migranti.
Chiedono i cronisti: allora presidente, piena condivisione con quel che ha detto il Papa? Mattarella si schemische. «Mi sembrerebbe presuntuoso sostenere di aver pronunciato le sue stesse parole. E non si tratta di un semplice apprezzamento perchè è espressione di saggezza affermare che servono accoglienza e integrazione, in una ragionevole capacità per questa accoglienza».
Fonte: qui
LA CONSOB CONSTATA CHE VIVENDI CONTROLLA TIM
UN GRAN REGALO PER BERLUSCONI, UNA BATOSTA PER BOLLORE’. MA PURE SABINO CASSESE E (GIULIO) NAPOLITANO CHE LO AVEVANO CONSIGLIATO
IL BRETONE NEI GUAI, ORA E' OBBLIGATO A CERCARE UN ACCORDO CON MEDIASET. IL CONGELAMENTO DELLA QUOTA OLTRE IL 10% DEL BISCIONE NON BASTA PIU’.
IL RUOLO DELLA RETE
Nino Sunseri per Libero Quotidiano
La Consob taglia le gambe a Vivendi. Gli ispettori di Piazza Affari, hanno dichiarato che il gruppo francese, guidato da Vincent Bolloré rappresenta a tutti gli effetti l' azionista di controllo di Telecom. Non solo perché è il primo azionista con il 24% ma soprattutto perché determina le strategie aziendali a cominciare dalla nomina dell' amministratore delegato. I tecnici del presidente Vegas hanno respinto la tesi del gruppo parigino che si difendeva dicendo di esercitare solo una funzione di direzione e di coordinamento.
In serata Vivendi fa sapere che farà «ricorso nelle sedi competenti». «Da un preliminare esame», si legge in una nota dei francesi, «si rileva che il provvedimento si discosta in maniera rilevante dalla consolidata interpretazione in materia di controllo societario, cui Tim si è sempre costantemente e rigorosamente attenuta». Qualunque sia l' esito della controversia, la posizione di Bolloré diventa più debole. Non solo in Telecom ma anche in Mediaset.
Ieri l' Agcom ha accettato il piano presentato all' inizio del mese dai francesi. Il programma prevede che Vivendi tenga i diritti di voto sul 10% del Biscione. Il restante 20% verrà congelato in una scatola da cui potrà uscire solo quando tutta la partita italiana di Vincent Bolloré verrà definita. La Borsa ha reagito male affondando il titolo Mediaset del 5%. La quotazione è tornata sotto 3 euro e la reazione è apparsa abbastanza scomposta. Da settimane, infatti, si conosceva il finale di partita ed era chiaro che Bolloré non avrebbe tentato nessun blitz. I percorsi della Borsa talvolta sono imperscrutabili.
Per Bolloré la strada ora diventa molto difficile. A cominciare dal fatto che dovrà consolidare i 26 miliardi di debiti di Telecom. Un passaggio che Bolloré ha fatto di tutto per evitare. Tuttavia le dimissioni di Flavio Cattaneo ha fatto precipitare la situazione. È stato chiaro a tutti che l' uscita era determinata dallo scontro con Vivendi. Ad aggravare la situazione le decisioni successive.
Per esempio la nomina come capo dell' azienda di Amos Genish prelevato proprio fra i top manager del gruppo francese. Poi la decisione di avviare un' alleanza in campo televisivo fra Canalplus (controllata Vivendi) e la stessa Telecom. I consulenti legali di Bolloré gli avranno certamente detto che poteva farlo senza correre rischi. Evidentemente sbagliavano.
Che cosa accadrà adesso? Il primo interrogativo riguarda la rete Telecom. Soprattutto Sparkle che ospita le trasmissioni di mezzo mondo. Si tratta di una infrastruttura cresciuta sulla vecchia rete Italcable. Una eccellenza italiana fatta di cavi sottomarini, anche transatlantici che servivano a collegare il Paese con le aree dove più forte era l' emigrazione dei nostri connazionali. Oggi ospita i collegamenti telefonici di diversi governi (compresi gli 007).
È giusto lasciar gestire questo tesoro ad una proprietà straniera?
Bisognerà trovare un' altra soluzione.
Ma quale? E poi: che succederà con il resto della rete?
La possibile integrazione con la fibra ottica di Open Fiber sembra tramontata.
Un groviglio da cui non sarà semplice uscire. Tanto più che Bolloré non potrà più contare sullo scudo di Mediobanca visto il diminuito peso politico della banca. Non a caso si parla della possibile uscita dal cda di Tarak Ben Ammar, storico amico del finanziere francese. Ma anche di Silvio Berlusconi. Ed è proprio su questo fronte che forse potrebbe esserci una soluzione, ancorchè al momento molto fantasiosa.
Cioè Bolloré che si allea con il Cavaliere e poi trova un modo di parcheggiare Telecom in mani amiche. Per esempio Orange. Il progetto del finanziere bretone è quello di costruire un grande gruppo tv europeo per combattere Sky e Netflix. I telefoni sono solo una derivata.
Fonte: qui
L’ITALIANO BLOCCATO SULL’ISOLA DI SAINT MARTIN, DISTRUTTA DA IRMA: ‘LA NOTTE CI SONO BANDE ARMATE CHE SACCHEGGIANO LE CASE. CON I VICINI FACCIAMO LE RONDE PER PROTEGGERCI’
LO SCENARIO DA APOCALISSE-ZOMBI RACCONTATO DA ALESSANDRO, BAR MANAGER: ‘POCHI VOLI PER EVACUARE L’ISOLA, HO PROVATO DUE VOLTE MA SONO STATO RESPINTO’ (VIDEO)
VIDEO - ABITANTI EVACUATI DA SINT MAARTEN (SAINT MARTIN)
Gianni Rosini per www.ilfattoquotidiano.it
“Non ci sono più regole, è una guerra”. Alessandro Lupo, 29 anni e originario di San Miniato, in provincia di Pisa, non riesce a riassumere in altro modo la situazione che sta vivendo sull’isola caraibica di Saint Martin, tra le aree più colpite dalla violenza dell’uragano Irma che ha devastato ogni cosa fino alle coste della Florida.
Il ragazzo, che nelle Antille Francesi si è trasferito a gennaio per motivi di lavoro, vive ogni giorno nella speranza di un rimpatrio rapido e con il timore per la sua incolumità: “La notte è veramente pericoloso – racconta a Ilfattoquotidiano.it – Sentiamo spari in lontananza, ci sono bande armate dappertutto e siamo costretti a fare le ronde per proteggere le nostre case. Non vedo l’ora che qualcuno venga a prendermi”.
Alessandro aveva trovato a Saint Martin lo stile di vita che gli piaceva. Vita meno stressante e un lavoro ben pagato come bar manager in uno dei locali dell’isola. Poi, il 5 settembre, quando la sua ragazza era già tornata in Italia, è arrivato Irma, con i suoi venti a 300 chilometri orari, a spazzare via l’intera isola e a trasformare l’esperienza di Alessandro in un incubo.
“Di quella sera ricordo che sono andato a chiudermi nel bagno con il mio cane – racconta – Ho messo la lavatrice davanti alla porta per bloccarla, ma nel pieno dell’uragano non è stato sufficiente. Ricordo i rumori di oggetti che si frantumavano fuori dalla stanza e la paura a causa dell’acqua che entrava, sembrava la fine del mondo. Ho passato una notte a tenere ferma la porta e, contemporaneamente, raccogliere l’acqua che entrava e buttarla nel lavandino”.
Passato l’uragano, Alessandro ha due priorità: trovare il modo di essere rimpatriato prima che la situazione degeneri e sopravvivere sull’isola fino a quando non riuscirà a imbarcarsi per l’Italia. “Abito in un condominio – dice – e con tutti i vicini di casa ci siamo mobilitati per dare una mano agli abitanti della nostra zona nel tentativo di salvare il salvabile. Fortunatamente ci siamo organizzati in previsione dell’uragano: usiamo dei generatori che ci garantiscono qualche ora di luce al giorno e abbiamo scorte di cibo e acqua a sufficienza per sopravvivere qualche altro giorno”.
La paura, però, viene dopo il tramonto, quando, con l’aiuto del buio, gruppi armati si muovono sull’isola per saccheggiare più case e attività possibili. “Ci siamo organizzati con delle ronde armate per proteggere le nostre case – continua – La notte è veramente pericoloso, sentiamo continuamente spari in lontananza. Adesso temo per la mia incolumità, ci sono bande dappertutto”.
Il problema è che l’evacuazione dei civili procede a rilento: l’aeroporto Grand-Case, nella parte settentrionale dell’isola, quella dove vive Alessandro, organizza solo pochi voli d’evacuazione al giorno e riuscire a imbarcarsi è un’impresa. “Ho cercato di lasciare il Paese andando in autostop in aeroporto per due volte, ma sono sempre stato respinto – dice – Ho provato ad acquistare un biglietto, ma per il momento è tutto sospeso”.
L’ultimo tentativo, quindi, la famiglia di Alessandro lo ha fatto mettendosi in contatto con la Farnesina: “Ci hanno detto di aspettare e che intanto mi hanno registrato nei loro database tra le persone in attesa d’evacuazione – conclude – Hanno voluto sapere il mio indirizzo e mi hanno detto di rimanere il più possibile chiuso in casa perché manderanno presto qualcuno a prendermi, autorità francesi o olandesi. Credo che questa sia la mia ultima opzione per andarmene da qui”.
Fonte: qui
I CONSORZI DI BONIFICA COSTANO 500 MILIONI ALL’ANNO, MA LA MAGGIOR PARTE SE NE VA IN STIPENDI
DOVREBBERO CONTROLLARE I FIUMI PER IMPEDIRE LE INONDAZIONI
LIVORNO E’ LA CIFRA DELLA LORO EFFICIENZA
Antonio Castro per “Libero quotidiano”
Miliardi di euro da spendere, migliaia di Comuni a rischio e 121 consorzi di bonifica (erano oltre 200 prima dell' autoriforma del settembre 2008), che devono stare dietro a 200mila chilometri di canali e corsi minori. Poi, certo, l' incuria e la gestione del territorio improvvisata e l' abusivismo edilizio. C' è tutto questo dietro al disastro di Livorno. Che non è il primo e, purtroppo, non sarà l' ultimo.
Ad ogni temporale un po' più forte, così come nei mesi un po' più secchi, ci si rende improvvisamente conto che l' Italia non è un Paese gestito bene. Siamo, in Europa, uno degli Stati con il maggior numero di fonti di acqua dolce, però poi buttiamo letteralmente a mare miliardi di metri cubi di precipitazioni e ci ritroviamo in siccità. Ci mancano gli invasi per garantirci le riserve (e proprio i consorzi hanno presentato un piano per realizzarne 2mila con progetti definitivi), così come, al primo temporale "forte", i fiumi esondano, le città si allagano, qualcuno ci rimette la pelle.
È pur vero che abbiamo costruito «dove non si può e non si dovrebbe, almeno per buon senso», sintetizza Massimo Gargano, direttore generale dell' Associazione nazionale Bonifiche (Anbi). E così riparte, puntuale, la polemica sugli enti che devono gestire l' ordinaria amministrazione. Matteo Renzi nel 2014, provò a chiudere i Consorzi, preso dal sacro fuoco della rottamazione.
Le "bombe d' acqua, però, non si eliminano con per decreto. Certo, come dimostrano i richiami della Corte dei Conti, in alcune Regioni come in Sicilia (dove i Consorzi sono commissariariati da 30 anni), sembrano avere più dipendenti che terreni da irrigare e invasi da gestire. Scandali e gestioni allegre a parte, resta il problema della gestione del territorio. L' ordinaria amministrazione spesso è "straordinaria", tanto che si corre ai ripari sull' onda dell' emergenza, non su una puntuale programmazione.
Importanti le risorse stanziate, disponibili e, clamorosamente, lasciate a decantare neanche fossero vini pregiati. Un esempio? Nel piano "ItaliaSicura" il governo ha messo in fila la bellezza di 8.926 opere da realizzare. Per attuare l' intero piano servirebbero, sulla carta, 25,5 miliardi euro. Palazzo Chigi avrebbe già scovato la bellezza di 7,7 miliardi di fondi da utilizzare per le opere entro il 2023. La gran parte sono stanziamenti vecchi e inutilizzati. Alcuni, addirittura, degli anni Novanta.
Peccato che le Regioni, o le aree metropolitane di competenza, non siano state in grado di gestire la progettazione e la realizzazione delle opere necessarie (almeno le più urgenti). Morale: nelle città più grandi sono stati impiegati solo 114,4 milioni. Bruscolini. Ammette (indirettamente), l' impossibilità a gestire le competenze in materia il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, che giusto ieri ha chiesto al governo i «poteri straordinari per superare complessità burocratiche e contenziosi che sono all' origine dei ritardi. Come quelli che hanno bloccato i cantieri per la cassa di espansione del torrente Ugione e il consolidamento degli argini, opere finanziate con 4 milioni di euro che la Provincia, ente competente, non ha mai potuto avviare».
Anche ieri c' è stato chi ha chiesto la chiusura dei Consorzi, come il vicepresidente del Consiglio regionale della Toscana, Marco Stella (Forza Italia). Gargano ribatte: «Ogni volta parte la solita musica: "Chiudiamo i Consorzi!". Sì, va bene. E poi che facciamo?». Il direttore dell' Anbi elenca i problemi che non si vogliono affrontare: «Urbanizzazione e cementificazione, soprattutto nelle città. E poi il cambio di clima, così come la mancata programmazione degli interventi».
Tutti fattori che «hanno fatto emergere l' incapacità di gestire il territorio».
E così «invece della prevenzione, abbiamo sviluppato la cultura dell' emergenza».
A Livorno la «manutenzione ordinaria» del rio Maggiore» - ha assicurato il presidente del Consorzio 5 Toscana Costa, Giancarlo Vallesi - era stato fatta: «Sfalcio della vegetazione infestante e ripulitura dell' alveo. Ciò che ha fatto tracimare i fossi non è stata la mancata o la scarsa manutenzione, bensì l' enorme quantità di acqua concentratasi su Livorno in poche ore».
L' inchiesta della magistratura probabilmente scoprirà che si era costruito dove non si doveva. E che per farlo erano stati interrati corsi d' acqua.
Contando sul cemento armato e non sul buon senso.
Il clima cambia, ma i nostri amministratori restano sempre gli stessi.
E si aggrappano a «complessità burocratiche». Che uccidono.
Fonte: qui
LIVORNO – IL DATO CHE FA TREMARE LA CITTA’: OLTRE 3 MILA CASE A RISCHIO IN CASO DI ALLUVIONE
LA VILLETTA IN CUI UN’INTERA FAMIGLIA HA PERSO LA VITA AVEVA TUTTE LE AUTORIZZAZIONI, MA I RISCHI FURONO SOTTOSTIMATI. ORA SI INDAGA
Marco Menduni per “la Stampa”
La villetta della strage, quella in cui un' intera famiglia di quattro persone ha perso la vita e si è salvata solo una bambina di tre anni, era stata costruita nel 1930. Tutti i certificati erano in regola. Un permesso per il frazionamento degli appartamenti a piano terra, nel 2010. Persino una nuova abitabilità concessa solo tre anni fa dopo un nuovo controllo alla fine dei lavori. Eppure quel pian terreno che si affaccia su un giardino è più basso della sede stradale di tre metri.
Il pavimento è sottostante il livello massimo del Rio Maggiore, che scorre tombato abbracciando il perimetro della proprietà. Soprattutto i permessi vengono concessi per il livello più basso dell' abitazione quando, già da due anni, lo stesso Comune ha capito quale sia la pericolosità della zona, tanto da realizzare (ma a quell' epoca non erano terminati) degli interventi per la sicurezza idraulica.
Interventi sottostimati, che non sono comunque serviti a nulla la notte del diluvio e della tragedia. Ora la procura vuol vedere chiaro nella documentazione della villetta, vuol capire se, nel momento in cui sono state rilasciate le certificazioni, sono stati calcolati i possibili rischi.
C' è un dato che ora fa tremare Livorno. L' amministrazione aveva già iniziato a realizzare uno screening sulla sicurezza degli edifici e i dati sono allarmanti: più di 3000 case sono a rischio in caso di alluvione. La consapevolezza che le opere realizzate sul Rio Ardenza, quelle vasche di contenimento che avrebbero dovuto garantire la sicurezza, non sono riuscite nemmeno a rallentare il torrente, che ha abbattuto i muri e in due minuti invaso gli appartamenti, fa paura.
Come intervenire su un territorio devastato dagli interventi realizzati dagli Anni Settanta fino al Duemila?
Intorno alla villetta della morte, aver fatto sparire il Rio Maggiore infilandolo in un tunnel di cemento ha fatto nascere un nuovo quartiere intero vicino allo stadio d' epoca fascista intitolato ad Armando Picchi. Quartiere che ha visto auto spazzate via e portate a 30 metri di distanza, fango a un metro di altezza negli androni; poi l' acqua che non è riuscita a entrare nella galleria sotterranea e ha distrutto i muri di contenimento per poi dilagare.
Un caso di intervento pubblico d' emergenza fu realizzato a Genova, prima dell' alluvione del 2011, quando a tre palazzi in via Fereggiano fu revocata ogni concessione e furono abbattuti.
In un quarto palazzo, spiega l' ex governatore Claudio Burlando, «decidemmo di ricollocare gli inquilini, comprare il pian terreno e tenerlo vuoto». Quando il rio Fereggiano esondò, il 4 novembre 2011, quei vani si riempirono di fango fino al soffitto e almeno chi abitava lì salvò la vita.
Non è evidentemente una via replicabile su vasta scala. Ma dalle carte del Comune di Livorno le situazioni a rischio emergono ovunque. Sulla strada che porta al Santuario di Montenero, una delle zone più devastate dell' alluvione, è nato addirittura in maniera abusiva un paesello abusivo di dieci ville, scoperto da un blitz dei carabinieri nel 2012.
L' hanno chiamata la collina d' oro, per quanto avevano reso quegli edifici ai costruttori.
Oggi è tutta una collina di fango.
Fonte: qui
EU: INTERNET, UN PARADISO FISCALE ...
ABBIAMO BISOGNO DI UNA TASSAZIONE ‘SPECIALE’ PER GOOGLE, APPLE, AMAZON E FACEBOOK? PURTROPPO SÌ, ED È UNO DEI PIÙ GRANDI FALLIMENTI DELL’UNIONE EUROPEA
CERTI PAESI HANNO PERMESSO DI ELUDERE CENTINAIA DI MILIARDI IN TASSE ALLA FACCIA DEI CONTRIBUENTI ITALIANI, FRANCESI, TEDESCHI ECC…
Massimo Sideri per il Corriere della Sera
L' unica domanda che conta è questa: perché abbiamo bisogno di una tassazione «speciale» per le società come Google? Non bastano le 100 o 1.000 che già esistono? Diciamolo una volta per tutte: la risposta è no, non bastano. Lo dicono i numeri. Le leggi sono abituate a movimenti secolari e al passo saggio della tartaruga, ma Internet è stato veloce come un ghepardo.
Ha occupato lo spazio giocando sull' asimmetria informativa di nuove regole del gioco, fatte più dagli algoritmi che dalle istituzioni. La «web tax» è giusta, solo che - questo va riconosciuto - è una delle tasse più infelici della storia se la analizziamo con l' occhio del dizionario: suona più ridicola della tassa sull' ombra (esiste) e della tassa sulle paludi (che è esistita: regio balzello del 1904). Solo pochi anni fa gli utenti, che poi sono i cittadini, mostravano un' indulgenza ideologica e poco informata verso chi ha migliorato la nostra vita quotidiana con la tecnologia.
D' altra parte tassare la Rete suona un po' come tassare il sinonimo di libertà e di opposizione ai regimi dittatoriali.
Erdogan in Turchia oscura la Rete e noi la tassiamo? La variante italiana, la Google Tax, suona poi come un attacco «ad aziendam», un balzello su forse l' unico colosso al mondo che non ha mai chiesto un euro all' utente-cittadino. Tutto ciò ha alimentato la «disinformazia», una forma di governo scivolosa basata su informazioni spesso non comprese, talvolta volutamente false come le fake news.
Le tasse sono materiale politico e la politica dipende dalla percezione popolare: ed è questo l' autogol. Si gioca anche su questioni semantiche la difficoltà incontrata da sempre su una tassa del web che più utile sarebbe chiamare «tassa sulle società del web che fatturano miliardi ma eludono il Fisco di mezzo mondo grazie a trucchetti come il "doppio irlandese" o il "panino olandese"». Esattamente come la tassa sulla palude non era un balzello per chi aveva la sfortuna di possedere un terreno paludoso, ma un fondo per le bonifiche a vantaggio dell' intera collettività.
Il nocciolo della questione è qui: da che mondo è mondo le società hanno usato super consulenti fiscali per «ottimizzare» i soldi da dare agli Stati.
Ottimizzare, si noti bene, è il sinonimo politicamente corretto di eludere, cioè usare gli azzeccagarbugli di manzoniana memoria per riuscire a pagare il meno possibile. Il gioco funziona perché, soprattutto con le proprietà intellettuali, si possono pagare milioni ai superconsulenti per risparmiare miliardi. La cifra non è casuale. La commissaria alla concorrenza europea, Margrethe Vestager, ha calcolato in 13 miliardi le imposte non pagate all' Irlanda dalla Apple (i 2,3 miliardi di multa a Google sono invece per concorrenza scorretta grazie all' utilizzo non neutrale dell' algoritmo).
L' ingegneria fiscale del Double Irish, per esempio, funziona così: nei vari Paesi le multinazionali dicono di non avere «stabili organizzazioni» pur avendo edifici spesso di proprietà e migliaia di dipendenti guidati da un country manager. I redditi così prodotti finiscono in una società A con sede in Irlanda, nell' isola di Cook dove molte aziende hanno migliaia di dipendenti.
Questi guadagni dovrebbero dunque essere tassati al 12,5 per cento, come prevede il regime fiscale irlandese nato in concorrenza agli altri Paesi europei per attirare gli investimenti in un' area che ha sofferto particolarmente in passato.
A questo punto però scatta il pagamento alla società B, sempre in Irlanda ma con sede in qualche Paradiso fiscale, per la «proprietà intellettuale». Il risultato è che nemmeno quel 12,5 per cento viene alla fine pagato se non per una ridotta porzione degli utili miliardari. L' elusione si è spinta troppo oltre lasciando spazio all' avidità: le multinazionali hanno cercato di azzerare in alcuni casi le imposte sugli utili. Il tema è dunque europeo. Impossibile pensare di muoversi singolarmente.
In Italia se ne discute da almeno cinque anni. L' ex premier Matteo Renzi sul tema aveva mostrato pancia politica: prima era andato nel 2015 da Lilli Gruber per dire: «Dopo aver aspettato per due anni una legge europea dal 1 gennaio 2017 immaginiamo una digital tax». Subito dopo, con un tweet prima di un Consiglio dei ministri, aveva fatto marcia indietro. La web tax ci vuole, era stato il nuovo messaggio, ma a livello europeo.
Ora, dunque, l' Europa si muove e l' Italia si accoda (il ministro dell' Economia Pier Carlo Padoan non ha mai fatto mistero di preferire un' azione congiunta). Demonizzare l' economia digitale sarebbe un errore grossolano. Ma tornare a un sano patto sociale è necessario: le tasse sono uguali per tutti.
Fonte: qui
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