Stati Uniti e dollaro stanno attraversando un momento delicato. S&P Global, la più importante delle tre principali agenzie di rating, ha detto che un insuccesso del Congresso nell’alzare il tetto del debito USA sarebbe “più catastrofico” del fallimento della Lehman Brothers nel 2008. La scadenza indicata dal Dipartimento del Tesoro al Congresso è il 29 settembre.
In marzo 2017, il debito pubblico USA ha superato i 19.800 miliardi di dollari, tetto stabilito dal Congresso per controllare l’espansione del debito pubblico. Da marzo a oggi, il Tesoro ha già adottato misure straordinarie per continuare a pagare le spese dello Stato, ma se entro fine mese il Congresso non trovasse l’accordo per innalzare il tetto del debito, scatterebbe il cosiddetto Government Shutdown, la sospensione dei pagamenti delle spese non essenziali, con conseguente impatto negativo sull’economia. Si stima che entro metà ottobre il Tesoro non avrà abbastanza soldi in cassa per pagare gli interessi sul debito, con il rischio di un default degli Stati Uniti. Normalmente, il Congresso approva il tetto del debito senza pensarci troppo, tant’è che negli ultimi 10 anni lo ha alzato 10 volte, ma i problemi sorgono quando all’interno del Congresso o fra Congresso e Presidente non c’è accordo su temi chiave, come la politica fiscale. Allora, le cose cambiano. Il debt ceiling diventa oggetto di negoziazione e i tempi rischiano di allungarsi. Non a caso, con zelo da primo della classe, il Segretario del Tesoro Steven Mnuchin giovedì ha detto che l’amministrazione Trump ha un piano fiscale “molto dettagliato” da presentare entro fine settembre.
L’uragano Harvey sul Texas (Stato che conta per il 9% circa del PIL USA) ha causato danni per svariate decine di miliardi (30-50 o addirittura più di 100 miliardi, in base a diverse stime) e gli Stati Uniti si trovano di fronte a una grossa spesa imprevista, proprio in coincidenza della scadenza dell’approvazione del nuovo tetto del debito. Ciò da un lato complica le cose, ma apre la possibilità che di fronte all’emergenza dell’uragano Harvey il debt ceiling venga approvato più velocemente. Vedremo.
Il simposio di Jackson Hole del 24-25 agosto ha lasciato gli investitori con la bocca asciutta. La tradizionale riunione dei banchieri centrali che tutti gli anni si tiene a fine estate sulle montagne del Wyoming è uno degli appuntamenti più seguiti per intuire la politica monetaria per la seconda parte dell’anno. Nel 2014, Mario Draghi dal palco di Jackson Hole anticipava l’urgenza di una politica monetaria più aggressiva. “Il rischio di far troppo poco (in termini di stimoli monetari) è maggiore del rischio di far troppo”, disse in quell’occasione, giusto pochi mesi prima dell’annuncio del Quantitative Easing europeo nel marzo 2015.
Quest’anno, a Jackson Hole Draghi e Janet Yellen sono stati muti come sfingi sul tema di politica monetaria, ma entrambi hanno volto lo sguardo agli Stati Uniti con inquietudine. Draghi, parlando di “apertura come chiave per un’economia globale dinamica”, ha evidenziato l’importanza del libero commercio. Garbata ma chiara tirata d’orecchie a Donald Trump e al suo protezionismo. Janet Yellet ha celebrato il decimo anniversario dallo scoppio della crisi dei mutui subprime, con un’apologia del Dodd Frank Act, la normativa finanziaria introdotta nel 2010 da Obama per irrobustire il sistema finanziario e limitare i rischi di una nuova crisi. Altra evidente presa di posizione contro Trump che, strizzando l’occhio alla finanza, critica il costo di un’eccessiva regolamentazione e vorrebbe smantellare il Dodd Frank Act. Nel suo discorso a Jackson Hole, Janet Yellen ha pronunciato la parola “rischio” 31 volte.
Incertezza sulla politica di Trump, tra Corea del Nord, volontà di uscita dal NAFTA (il trattato sul libero scambio tra Stati Uniti Messico e Canada) e continue dimissioni o licenziamenti all’interno del suo staff. Uragano Harvey. Nessuna novità di politica monetaria a Jackson Hole, gli investitori hanno venduto dollari. Dapprima una massiccia presa di profitto dopo anni che il dollaro si apprezzava. Meno voglia di comprare il biglietto verde per chi non lo aveva ancora fatto. Infine, frenetiche ricoperture di posizioni di chi era dalla parte sbagliata. Il dollaro ha perso terreno non solo contro euro fino alla soglia di 1.21, ma con cali generalizzati nei confronti delle altre valute.
Le Borse americane, dopo un timido accenno di correzione, hanno registrato nuovi massimi nel mese di agosto, sostenute da aziende che fanno utili e beneficiando del calo del dollaro che favorisce l’export.
I dati positivi sul prodotto interno lordo USA, cresciuto oltre le attese al passo del 3% nel secondo trimestre 2017, hanno frenato la discesa del dollaro che ha recuperato terreno fino a 1.1850 contro euro, nonostante i brutti dati sull’occupazione USA usciti venerdì (4.4% di disoccupazione, peggio del 4.3% atteso, 158.000 nuovi occupati anziché 179.000).
Le Borse europee si sono invece indebolite spaventate dal rafforzamento dell’euro contro le principali valute.

OPERATIVAMENTE E PER CONCLUDERE

Negli scorsi anni il dollaro si è rivalutato scontando che la Fed avrebbe alzato i tassi d’interesse prima degli altri, cosa che è avvenuta. Oggi, la forte incertezza geopolitica negli Stati Uniti rende meno sicura la tempistica dei prossimi rialzi dei tassi da parte delle Fed. Viceversa, in Europa i dati hanno sorpreso in positivo, alimentando voci di premature riduzioni degli stimoli monetari da parte della BCE, cosa che ha rinvigorito l’euro.
L’inflazione europea è salita dell’1.5% in agosto, rispetto all’1.3% in luglio, il miglior dato in quattro mesi. Tuttavia, l’inflazione core, al netto dei prezzi dell’energia, rimane piatta all’1.2%, un vero mal di testa per Draghi che giovedì prossimo, 7 settembre, dovrà decidere il da farsi.   Probabilmente, la BCE temporeggerà ancora. Un euro troppo forte danneggerebbe la ripresa economica.
D’altra parte, Janet Yellen, in vista della scadenza del suo mandato in febbraio 2018, non vuole rischiare nulla, ma dovrebbe alzare i tassi ancora una volta prima della fine dell’anno, non fosse che per frenare la bolla finanziaria in formazione.
In questo contesto, una pausa nella discesa del dollaro è piuttosto probabile.  Salita dell’euro e discesa del dollaro offrono l’opportunità di iniziare riposizionarsi sul dollaro e su alcune valute emergenti come Rublo Russo, Rand Sudafricano, Lira Turca, nell’ottica tattica di un pull-back.
Le Borse europee, nonostante il rally degli ultimi due anni, non hanno ancora recuperato i massimi del 2015.
L’S&P500, principale indice USA ha invece raggiunto nuovi massimi, su del 10.62% da inizio anno, ma al netto della svalutazione del dollaro, si trova sostanzialmente in pari da inizio anno per un investitore estero. Il cambio euro/dollaro è salito del 12.77% da inizio anno. La salita dell’indice SP500 è avvenuta di pari passo con la crescita del debito delle aziende (che hanno approfittato dei bassi tassi d’interesse per finanziarsi) e con previsioni molto ottimistiche degli analisti sugli utili futuri. Geopolitica completamente ignorata, se non in occasione di importanti fatti concreti, come la vittoria di Trump con maggioranza schiacciante nelle presidenziali dello scorso novembre. Si è visto del nervosismo sull’ultimo lancio missilistico coreano che ha sorvolato il Giappone.
Nel contesto sostanzialmente benigno per le Borse, previsioni rosee sugli utili e bassi tassi d’interesse, aumenta la vulnerabilità all’evento imprevisto, proprio perché finora completamente non scontato.
Dopo il Labour Day di lunedì 4 settembre, terranno banco le decisioni delle banche centrali sui tassi.  Il 5 la banca centrale australiana. Il 6 la banca centrale canadese. Il 7 settembre la BCE. Il 14 la Bank of England, il 20 settembre la Fed e il 21 la Bank of Japan.
Il fitto calendario macroeconomico, l’incertezza geopolitica e la bassa volatilità suggeriscono l’acquisto di put deep-out-of-the-money sull’indice S&P500 scadenze fine settembre, ottobre, novembre: piccole perdite in caso vadano a zero, forte protezione in caso di imprevisti, come un’assicurazione. Tanto più se si comprano dollari.
Un default degli Stati Uniti è altamente improbabile e non lo faranno accadere, ma nel 2011 la cattiva gestione del tema del debt ceiling costò agli Stati Uniti l’abbassamento del rating da parte dell’agenzia S&P (da AAA ad AA+) e i mercati la presero male, con un calo di circa il 20% sull’indice azionario USA da marzo ad agosto.
Nel frattempo, speriamo che Kim si comporti bene!
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