9 dicembre forconi: 02/12/19

martedì 12 febbraio 2019

LE ESPERIENZE NEGATIVE LASCIANO TRACCIA TANTO NELLA PSICHE QUANTO NEL LIQUIDO SEMINALE E PASSANO ALLA GENERAZIONE SUCCESSIVA TRAMITE DNA

E’ IL RISULTATO DI UNO STUDIO DELL'UNIVERSITÀ DI ZURIGO: “I TRAUMI E I CAMBIAMENTI INDOTTI SONO EREDITARI E I COMPORTAMENTI PSICOLOGICI PERSISTONO FINO ALLA TERZA GENERAZIONE. I CONDIZIONAMENTI AMBIENTALI LASCIANO TRACCE NEL CERVELLO E NEGLI ORGANI”
Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano”

TEST DEL DNA - Ngb GeneticsTEST DEL DNA - NGB GENETICS
Un padre, per i suoi figli, farebbe la qualunque al fine di garantire loro una vita serena e tranquilla, ma ecco che poi arrivano gli spermatozoi a trasmettere alla prole tutto lo stress di cui egli si è reso oggetto nel corso di un'esistenza difficile, dalla quale sperava di riscattarsi, magari, grazie ad un erede che trascorresse una fanciullezza più lieta di quella che è toccata a lui. Per quanto inverosimile possa sembrare, i traumi del padre ricadono sulla discendenza, ma non per una sorta di profetica legge del contrappasso, bensì perché le esperienze negative lasciano traccia del loro accadimento tanto nella psiche quanto nel liquido seminale.

Ad accreditare quest' incredibile dottrina, in principio, fu uno studio eseguito su alcuni topi da laboratorio presso l'Università di Zurigo. I roditori sono stati esposti, nei primi anni di vita, a diversi traumi da stress che hanno determinato un' alterazione di microRna (molecole endogene che hanno un ruolo determinante nello sviluppo del feto nell'utero materno) nel loro cervello, nel sangue e nel liquido spermatico.

DNADNA
Si riscontrò inoltre che i comportamenti tipici del ratto, negli esemplari sottoposti al test, subirono delle evidenti alterazioni dovute agli stimoli ricevuti; essi avevano infatti perso il loro atavico timore degli spazi aperti e la proverbiale intolleranza alla luce, manifestando anche i segni di un'evidente depressione. Caratteristiche che poi, riproducendosi, hanno trasmesso alla discendenza, a comprova di come gli spermatozoi si fossero resi veicolo delle anomalie sviluppate in seguito agli esperimenti.

DAI TRAUMI ALL'AMBIENTE
figli e genitoriFIGLI E GENITORI
È così che la Dott.ssa Isabelle Mansuy, la quale ha capitanato il team di ricerca, commentò quel risultato: «Siamo stati in grado di dimostrare, per la prima volta, che le esperienze traumatiche e i cambiamenti indotti sono ereditari, e che i comportamenti psicologici persistono fino alla terza generazione. I condizionamenti ambientali lasciano tracce nel cervello e negli organi, e attraverso i gameti, queste tracce, vengono trasmesse alla generazione successiva».

E la specie umana, si può ipotizzare che obbedisca anch'essa a queste insospettate leggi di natura? Adesso che gli esperimenti necessari a rispondere al quesito sono stati estesi anche all' uomo, nulla è più lasciato all' incognita: di recente è stato eseguito un approfondito esame su ventotto donatori di una clinica per la fertilità, ai quali è stato chiesto di completare un questionario d' indagine sui loro trascorsi di vita.

LITIGIO TRA GENITORI DAVANTI AI FIGLILITIGIO TRA GENITORI DAVANTI AI FIGLI
Ebbene, dalle analisi sugli spermatozoi di coloro che avevano dichiarato quattro o più fattori di stress considerevole (quali abusi fisici, trascuratezza affettiva e contrasti familiari) sono emerse minori quantità di microRna. Il test in oggetto - ad opera dalla Tufts University del Massachussetts - avrebbe comprovato inconfutabilmente che gli eventi traumatici modificano le cellule sessuali maschili, con conseguenze che rischiano di ripercuotersi trasversalmente sulle generazioni successive a quella del donatore.

Condurre un' esistenza tranquilla, al riparo dalle batoste della sorte e dallo stress più lesivo, non è più un dovere individuale, bensì un investimento al servizio del benessere di una progenie che rischia di farsi carico anche dei nostri difetti. E chissà che questo non rappresenti finalmente uno sprone persuasivo che inviti al riguardo verso se stessi.

Fonte: qui

PERCHÉ I PASTORI SARDI STANNO BUTTANDO PER STRADA ETTOLITRI DI LATTE?

LA PROTESTA NASCE DAL CROLLO DEI PREZZI DEL PECORINO, -37% IN TRE ANNI. 
LE INDUSTRIE DI TRASFORMAZIONE PAGANO IL LATTE 60 CENTESIMI AL LITRO, MENO DI QUELLO CHE SPENDE UN ALLEVATORE TRA MANGIME, TRATTORI E VETERINARI PER PRODURLO 



Ettore Livini per “la Repubblica”

proteste dei pastori sardi 8PROTESTE DEI PASTORI SARDI
«Ha presente il pecorino che trova al super? Il latte con cui è prodotto lo mungo io. E sa quanti soldi mi entrano i tasca? Sedici centesimi ogni euro di prezzo. Una miseria! » . Battista Cualbu, come gli altri 14mila pastori sardi, non ne può più. È sopravvissuto alla crisi della lingua blu che nell' isola ha ucciso 103mila pecore, ha dribblato un paio di drammatiche siccità. Ora però è troppo. I prezzi del pecorino sono crollati del 37% in tre anni. Le industrie di trasformazione pagano il latte 60 centesimi al litro.

proteste dei pastori sardi 9PROTESTE DEI PASTORI SARDI
«Meno di quello che spendo io tra mangime, trattori e veterinario per produrlo » spiega il presidente di Coldiretti Sardegna. Che ha lasciato i suoi 850 capi nell' ovile della Nurra di Sassari ed è sceso in piazza contro un sistema che - ipse dixit - «privatizza i profitti e scarica i costi della crisi sull' anello più debole della catena». I pastori come lui, stritolati in una morsa che - calcola il Centro studi agricoli regionale - «rischia di mettere in ginocchio il 90% delle aziende del settore».

proteste dei pastori sardi 7PROTESTE DEI PASTORI SARDI
Tra bilici assaliti dagli allevatori, quintali di latte versato in strada per protesta e minacce di picchetti ai seggi delle prossime regionali, l' ottovolante del pecorino è la fotografia fedele di un' Italia che - in agricoltura è un classico - non sa far squadra. « È un problema di domanda e offerta - sintetizza Salvatore Palitta, presidente del Consorzio nazionale e voce dell' industria - figlia di un eccesso di produzione» .

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Capita ciclicamente da anni, ma nessuno riesce a farci niente. La filiera mette un tetto alla produzione, il prezzo sale e a quel punto «qualcuno - spiega Cualbu - fa subito il furbo»: i caseifici ignorano le quote inondando il mercato di forme extra ( « magari usando latte romeno » , ha buttato là il ministro all' Agricoltura Gian Marco Centinaio) e le quotazioni crollano. «Un giro di giostra dove distribuzione e trasformatori fanno i soldi e il cerino resta in mano a chi lavora in stalla», dice Cualbu.

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È successo nel 2015 quando il valore del pecorino all' ingrosso è schizzato a 9,3 euro al chilo ma solo la metà del rialzo è stata girata ai pastori. È capitato di nuovo nel 2018: l' accordo era produrre 280mila quintali di formaggio ma sul mercato ne sono arrivati 341mila. Il prezzo - 7,7 euro al kg. a gennaio - ha iniziato a calare e i tentativi di smaltire le eccedenze (oggi in magazzino ce ne sono 100mila quintali) l' hanno affossato ai 5,6 euro attuali. Chi paga il conto? In teoria ci sono multe per chi va oltre i limiti produttivi. Ma è poca roba. 16 centesimi al chilo. Briciole per l' industria.

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Che oltretutto - quando le cose vanno male - può rifarsi su chi sta a monte della filiera. La prova? Un litro di latte di pecora vale oggi 56 centesimi, il 23% in meno di luglio. Cifra che da sola basta a spiegare la rabbia esplosa negli ovili sardi ( « per orgoglio prima di morire scalci » , scherza - ma non troppo - Cualbu), vittime del corto circuito di una filiera i cui protagonisti non si parlano - anzi si fanno la guerra - penalizzando uno dei re dei Dop nazionali.
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Capace di macinare ancora, malgrado tutto, 200 milioni di ricavi l' anno ed esportare quasi il 50% della produzione in Usa. Che succederà ora? Ieri sono arrivati il premier Conte e il ministro Centinaio. « Spero non per far passerella», dice Cualbu. Coldiretti spinge per una mediazione che garantisca entrate certe a chi sta in ovile. Ma in attesa di compromessi si rischia il caos perché a inizio marzo salterà il paracadute delle quote.

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«Spero il governo le rinnovi - dice Palitta - e metta a bando i fondi per gli indigenti con cui comprare le eccedenze di formaggio e distribuirlo » . Il Consorzio - forse con un po' di coda di paglia - sta mettendo a punto interventi straordinari: « Abbiamo preparato con le banche un sistema di pegno rotativo per stabilizzare la situazione finanziaria degli allevamenti - spiega il presidente - e siamo pronti a ritirare 20mila quintali di scorte per fare un pecorino "riserva" più raffinato».
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Toppe, più che soluzioni definitive. « Tanti miei amici hanno chiuso l' attività, molti rischiano di perdere terreno, bestie e lavoro perché non hanno i soldi per comprare il mangime - conclude Cualbu - e dietro di loro c' è un indotto importante». Migliaia di persone per cui senza interventi rapidi della politica l' avventura sull' ottovolante del pecorino rischia di essere arrivata a fine corsa.

Fonte: qui

Il bordello delle baby prostitute


“LE IENE” FICCANO IL NASO IN UN BED AND BREAKFAST DI BARI DOVE SI ORGANIZZAVANO INCONTRI TRA PROSTITUTE MINORENNI E PROFESSIONISTI 50-60ENNI 

AVVOCATI, INGEGNERI DISPOSTI A PAGARE ANCHE 150 EURO A PRESTAZIONE, DAI QUALI IL TITOLARE TRATTENEVA 25 EURO PER L’AFFITTO DELLA STANZA 

Veronica Ruggeri scopre un giro di prostituzione di ragazze minorenni e si scontra con il "tenutario": forze dell'ordine, vogliamo intervenire?


Una ragazza, che ha partecipato, racconta a Veronica Ruggeri di un giro di baby prostitute, molto spesso decisamente minorenni. Non è l’unica segnalazione.
A questo punto una nostra complice, che si dichiara 15enne, prova a entrare nel giro. Un giro di professionisti maturi.
Tutto in alloggi separati di un bed and breakfast, con foto da inviare ai clienti. Il gestore però vuole “testarla”. Le tariffe? Decide la ragazza. Tipo: 150 euro (25 andranno al tenutario).
Il “gestore” gli chiede se “fa tutto”, se bacia, se lo fa anche senza preservativo. A questo punto interviene la Iena e lui fa subito retromarcia negando qualsiasi sfruttamento della prostituzione.
Forze dell’ordine, vogliamo intervenire?
Fonte: qui

Salvini sull’oro di Bankitalia: “Per me resta lì, ma è degli italiani”

L’oro è della Patria e la Patria all’occorrenza può farne quello che vuole. Matteo Salvini non esclude il retroscena pubblicato dalla Stampa, secondo il quale la maggioranza di governo avrebbe puntato alle riserve auree conservate nei caveau della Banca centrale (ma anche in diversi depositi all’estero in Europa e negli Usa). L’idea dei gialloverdi sarebbe di usare parte di lingotti e monete (circa 90 miliardi il valore complessivo) come tesoretto d’emergenza per evitare una manovra correttiva e l’attivazione dell’aumento dell’Iva, inserita come clausola di salvaguardia per volere dell’Unione europea se non si dovessero raggiungere gli ambiziosi obiettivi di bilancio. Salvini non si inoltra troppo nella questione ma conferma l’intenzione di far passare per legge l’oro sotto il controllo dello Stato (cioè del governo): «Può essere un’idea interessante. So che c’è una proposta di legge che dovrà ribadire quello che per me è scontato: l’oro della Banca d’Italia è degli italiani, non è in prestito. Dopodiché per quanto mi riguarda ci saranno altri metodi. Siccome è custodito in alcuni paesi del mondo, uno lo può far custodire dove vuole. Ma è di proprietà degli italiani e di nessun altro».
Una dichiarazione che rispecchia fedelmente il cuore della proposta firmata e depositata tre mesi fa alla Camera dal deputato della Lega e presidente della commissione Bilancio, l’economista no-euro Claudio Borghi. Una legge costituita da un solo articolo per chiarire che «la Banca d’Italia gestisce e detiene, ad esclusivo titolo di deposito, le riserve auree, rimanendo impregiudicato il diritto di proprietà dello Stato italiano su dette riserve, comprese quelle detenute all’estero». Una tema, quello della proprietà dell’oro, che più volte ha investito i vertici di Palazzo Koch e che ora sembra incrociarsi al braccio di ferro sulla riconferma di Luigi Federico Signorini alla vicedirezione generale della Banca centrale. I timori che agitano il Tesoro e la stessa Via Nazionale sono proprio questi: che dietro l’assalto partito dal M5S contro il direttorio ci sia l’intenzione di mettere le mani sulle riserve per venderle, come proposto anche in un articolo pubblicato da Beppe Grillo sul suo blog a settembre.
Oggi scade il mandato di Signorini. Il premier Giuseppe Conte, a cui spetta la delibera sulla nomina, salvo sorprese prenderà tempo per non impegnarsi in una decisione che potrebbe scavare una frattura nel governo. Con il leader dei 5 Stelle che preme su Conte chiedendo discontinuità e il ministro dell’Economia Giovanni Tria che, sostenuto dal Quirinale, difende l’indipendenza della Banca d’Italia. Mentre la Lega assalti e moderazione. Prima il ministro dell’Agricoltura si schiera con Tria a favore di una Banca indipendente, poi Salvini, lo stesso che aveva parlato di azzeramento dei vertici di Via Nazionale, evita di «personalizzare» il bersaglio come invece fanno i grillini e lascia a Conte la responsabilità di una decisione: «C’è il premier e il ministro dell’Economia quindi mi affido alla loro competenza. Se c’è qualcuno che deve vigilare e non l’ha fatto visto i disastri che sono venuti fuori è evidente che qualcosa va cambiato, non dico qualcuno ma necessariamente qualcosa».
Fonte: qui

CI POSSIAMO FIDARE DI HUAWEI?

MENTRE MOLTI PAESI OCCIDENTALI, GUIDATI DAGLI USA, SI PONGONO IL PROBLEMA DELLO SPIONAGGIO CINESE, L’ITALIA SI AFFIDA A HUAWEI PER LA RETE 5G 
GABANELLI METTE IN FILA DUBBI E RISCHI: “PER OTTENERE I NOSTRI DATI AL GOVERNO DI PECHINO BASTA CHIEDERE…

GABANELLI - POSSIAMO FIDARCI DI HUAWEI? 


Milena Gabanelli e Andrea Marinelli per "DataRoom - Corriere della Sera”

gabanelli huawei 5g 3GABANELLI HUAWEI 5G 3
Cagliari diventerà la prima smart city italiana grazie alle reti integrate, ma soprattutto grazie alla tecnologia Huawei. Parliamo del colosso cinese che dopo aver investito 20 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, oggi è diventato leader mondiale nell' infrastruttura 5G, e la sta costruendo in tutti i Paesi. Vuol dire rete ad altissima velocità per la comunicazione mobile, connessione a droni, sensori, auto a guida autonoma, oltre che per la digitalizzazione di tutte le infrastrutture pubbliche: monitoraggio di ospedali, controllo del traffico, gestione dei rifiuti, riscaldamento e sicurezza.

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La Cina, in questo campo, ha di fatto superato gli Stati Uniti. Secondo gli americani, però, l' hardware prodotto dai colossi asiatici delle comunicazioni Huawei e Zte potrebbe essere soggetto a manipolazioni del governo. Di accertato c' è il fatto che le aziende cinesi, anche quelle private, devono avere un rappresentante del partito comunista al proprio interno e sono obbligate a rispondere al governo di Pechino. Il primo dicembre scorso, la direttrice finanziaria di Huawei Meng Wanzhou, figlia del fondatore Ren Zhengfei, è stata arrestata in Canada: gli Stati Uniti ne hanno chiesto l' estradizione e, a fine gennaio, hanno incriminato l' azienda per violazione delle sanzioni americane contro l' Iran e furto di segreti tecnologici.

huaweiHUAWEI
In sostanza, gli americani accusano l' azienda di Shenzhen di spionaggio. Zhengfei nega e prove concrete al momento non ci sono. Quello che è chiaro è che la guerra per la gestione dell' infrastruttura strategica del futuro è partita. Trump sta scatenando una campagna contro Huawei e, mentre negli Stati Uniti da sempre è vietato l' uso della tecnologia cinese per le infrastrutture strategiche, altri Paesi ne stanno mettendo in dubbio la sicurezza.

gabanelli huawei 5g 1GABANELLI HUAWEI 5G 
Australia e Nuova Zelanda hanno bloccato l' accesso alla tecnologia 5G cinese; il Regno Unito ha trovato falle nel sistema, ha chiesto garanzie tecniche anti-spionaggio e anti-blocco che però tardano ad arrivare e ormai sono ai ferri corti; il Giappone ha sospeso ogni acquisto da Huawei per le sue aziende pubbliche; la Germania ha chiesto all' azienda cinese garanzie per permetterle di partecipare all' asta 5G di marzo, mentre Angela Merkel ha espresso il timore che la società possa passare dati sensibili al governo cinese. Nel frattempo, a novembre l' Unione europea ha votato una legge che prevede uno screening degli investimenti diretti stranieri che possano mettere in pericolo la sicurezza, e il 7 gennaio l' università inglese di Oxford ha sospeso l' accettazione di fondi per la ricerca e donazioni filantropiche dal gruppo cinese.

zte huaweiZTE HUAWEI
L' Italia, nonostante gli avvertimenti ricevuti dal Copasir negli ultimi dieci anni, ha invece messo le sue reti in mano all' azienda cinese, che offriva prodotti a costi estremamente bassi. «Già nel 2009 le agenzie di cybersicurezza mondiali avevano bandito Huawei dagli appalti per le infrastrutture critiche, mentre in Italia stava stringendo accordi con Telecom per sostituire Cisco», spiega al Corriere della Sera Giuseppe Esposito, ex vicepresidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. «Mentre il prodotto di Cisco si sapeva com' era fatto, con la quantità di produzione messa in piedi da Hauwei nessuno ha mai potuto controllare l' effettiva sicurezza». Persino la Panic Room di Palazzo Chigi, la stanza di massima sicurezza della presidenza del Consiglio, «passa attraverso due grandi nodi: il primo con i router di Tim, e quindi è fatto da Huawei», afferma Esposito.

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In Italia Huawei è attiva dal 2004, detiene un terzo del mercato degli smartphone e fattura 1,5 miliardi di euro. Il gruppo considera il nostro un Paese strategico in cui investire: 162 milioni di euro solo nel 2016. Oggi sta sviluppando la rete 5G a Milano e nell' area Bari-Matera, dove l' investimento è di 60 milioni; sta lavorando con 38 partner industriali e istituzionali per realizzare 41 progetti che vanno dalla sanità alla sicurezza, dalla sorveglianza all' energia, dai trasporti alle smart city; vanta accordi con Terna, Enel, Fastweb, Ferrovie dello Stato, Telecom e fornisce tecnologia a tutti i 16 mila uffici postali italiani.
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Finanzia anche due grandi centri di ricerca: uno a Segrate, specializzato sulle microonde alla base della tecnologia 5G, l' altro, inaugurato nel 2016, a Pula, in Sardegna dove ha investito 20 milioni per lo sviluppo delle smart city. Nel centro è operativo il primo super computer europeo per la gestione e il controllo di tutti i servizi del Comune di Cagliari: l' obiettivo è quello di trasformare la Sardegna nella prima «smart region». Fonti di intelligence riferiscono che la Sardegna è anche un osservatorio prezioso, ospitando basi militari ed essendo il luogo in cui si esercitano tutti i reparti Nato europei.
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L' Italia quindi lascia porte aperte al colosso cinese, mentre molti Paesi occidentali si stanno ponendo un problema: possiamo permetterci di lasciare tutti i nostri dati in gestione a un Paese non democratico? Per ottenerli, infatti, al governo di Pechino non serve passare dai vertici di un' azienda come Huawei, ma basta chiedere a un ingegnere tre livelli sotto la catena di comando di aprire una porta nel sistema.
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È esattamente quello che hanno sempre fatto gli americani, ed è per questo che hanno lanciato l' allarme. La differenza è che «spiano» all' interno di un' alleanza. «I cinesi sono la massima espressione della visione di lungo periodo, mentre l' Italia è la rappresentazione della politica del domani e deve capire quali sono gli asset chiave che il Paese deve gestire in nome di una convenienza di lunghissimo periodo», ci spiega il professor Giuliano Noci, ordinario di strategia e marketing al Politecnico di Milano e prorettore del Polo territoriale cinese.

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Huawei e Zte, oltretutto, investono molto in Italia anche perché il nostro Paese è debole sulla normativa 5G e, offrendo in cambio posti di lavoro, possono incidere sulla stesura delle regolamentazioni. «Se vogliamo che la Cina sia per noi una fonte di opportunità, dobbiamo muoverci urgentemente in due ambiti», afferma il professor Giovanni Andornino, specializzato in politica interna ed estera della Cina presso l' Università di Torino.
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«A livello nazionale serve reclutare giovani funzionari e manager esperti di Cina da inserire in tutti gli snodi-chiave dello Stato; a livello europeo, invece, l' Italia non potrà mai negoziare da pari con i cinesi. Bruxelles, invece, ha le leve per smuovere Pechino ed è proprio lì che l' Italia deve fare anzitutto la sua politica cinese».

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Che significa dettare qualche condizione, anziché subirle convinti magari di aver fatto un buon affare. Mettendo in conto che una eventuale esclusione del competitor cinese dalle gare consegna il mercato a Nokia ed Ericsson, che alzeranno i prezzi.

Fonte: qui