"L' ITALIA DELLA MODA COME IL BANGLADESH" IL NEW YORK TIMES ATTACCA I BIG DEL LUSSO
GLI ARNESI DEL MESTIERE DI UNA LAVORATRICE DOMESTICA IN PUGLIA PER LE CASE DI LUSSO
In Italia esistono condizioni di lavoro nero che ricordano quelle di Bangladesh, India, Vietnam o Cina. La pesante denuncia è contenuta nell' inchiesta pubblicata ieri dal «New York Times», secondo cui, in particolare, l' industria del lusso si approfitta della difficile situazione economica in Puglia per sottopagare le sarte, che confezionano da casa i suoi capi più pregiati.
Stesso discorso per le scarpe o altri prodotti di alta gamma, che all' estero costituiscono l' orgoglio del Made in Italy, ma in patria nascondono la vergogna dello sfruttamento.
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Il racconto comincia da Santeramo in Colle, nella provincia di Bari, dove una donna anonima rivela di cucire vestiti per MaxMara che costano tra 800 e 2 mila euro, prendendo un euro a metro quadrato di stoffa: «Per completare un metro mi serve un' ora di lavoro e, quindi, tra quattro e cinque per finire un cappotto. Cerco di farne due al giorno».
Tirate le somme, significa al massimo 10 euro al giorno. Il guadagno più alto nella sua vita sono stati 24 euro, per confezionare un cappotto. Il tutto naturalmente in nero e, quindi, senza assicurazione sanitaria o contribuiti di qualunque genere.
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In Italia non c' è una paga minima stabilita per legge, ma il «Times» calcola che la media appropriata, secondo i sindacati del settore, sarebbe tra cinque e sette euro. Quindi siamo abbondantemente sotto i livelli accettati nei Paesi industrializzati e pericolosamente vicini a quelli delle regioni in via di sviluppo.
Maria Colamita, un donna cinquantatreenne di Ginosa, ha raccontato che un decennio fa prendeva tra 1,5 e 2 euro all' ora, per decorare i vestiti con perle e paillettes: «Avevo due figli, per me era essenziale poter lavorare da casa e accudirli».
I FILI USATI DA UNA LAVORATRICE DOMESTICA IN PUGLIA PER LE CASE DI LUSSO
Il «Times» scrive di aver raccolto le prove su circa 60 donne sfruttate così in Puglia, ma scrive che attualmente ci sono tra 2 mila e 4 mila lavoratori irregolari impiegati da casa.
Questo per servire l' industria del lusso, che, secondo i dati dell' Università Bocconi e Altagamma, rappresenta il 5% del pil nazionale e occupa direttamente o indirettamente mezzo milione di persone. Quindi il giornale cita dati dell' Istat, secondo cui in Italia nel 2015 c' erano 3,7 milioni di lavoratori senza contratto in vari settori.
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Le ragioni di questo fenomeno sono chiare. La pressione della manodopera a basso costo in Asia ed Europa orientale costringe a ridurre le spese. Le grandi case di moda appaltano le commesse a fornitori esterni, che in genere hanno dipendenti regolarizzati, ma poi a loro volta girano il lavoro a chi li aiuta da casa in condizioni da fame.
Queste persone non hanno alternative, a fronte di una disoccupazione ufficiale che in Puglia sfiora il 20%, e quindi accettano qualunque trattamento in nero.
Quando il problema viene denunciato alle grandi case del lusso, la risposta è che non si sentono responsabili, perché hanno appaltato le commesse e pagato regolarmente i fornitori esterni.
EUGENIO ROMANO L'AVVOCATO CHE HA FATTO CAUSA A KEOPE
Quello che poi hanno fatto i fornitori bisogna chiederlo a loro. Il «Times», ad esempio, racconta la vicenda di Carla Ventura, proprietaria della compagnia Keope, che faceva scarpe per conto di Euroshoes, che a sua volta riforniva la Tod' s.
EVA HERZIGOVA LES COPAINS
Keope è fallita perché Euroshoes non la pagava in maniera puntuale e aveva abbassato i prezzi. Ventura aveva fatto causa e l' aveva vinta, ricevendo gli arretrati, ma da allora in poi le ordinazioni si erano prosciugate. Tod' s ha risposto che pagava sempre in tempo Euroshoes, e quindi non ha colpe.
Come accade spesso in Italia, ora sospetteremo un complotto ordito dal «New York Times» per danneggiarci. La reazione giusta invece sarebbe domandarci perché avviene questo fenomeno, come mai non ce ne siamo accorti prima da noi, e cosa dobbiamo fare per sanarlo.
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UNA LAVORATRICE DOMESTICA IN PUGLIA PER LE CASE DI LUSSO
Una sequela di smentite e di «no comment». Ecco le risposte del mondo della moda milanese, italiano e non solo, perché l' inchiesta del New York Times sfiora anche il colosso francese Lvmh, che in Italia controlla Fendi, oltre che Bulgari e Loro Piana.
Ieri sera alla festa di Emporio Armani, nell' hangar di Linate, modelle e «influencer» non si sono certo fermati a parlare dell' eventuale lavoro sottocosto dei subappaltatori. E la polemica viene trattata alla stregua di un attacco strumentale, quasi come un tentativo di guastare la festa della moda.
«Perché non fanno un' inchiesta su Donald Trump, che ancora dobbiamo capire di che pasta sia fatto?», scherza Santo Versace. «Nessuno è sano, ma ognuno fa del suo meglio, accanirsi solo con la moda è sbagliato», risponde Miuccia Prada alla sua sfilata, che aggiunge: «Tutte le aziende hanno codici e ispettori, ma il mondo reale è più complicato, c' è sempre qualcuno che si fa corrompere. La moda è comunque impegnata in un processo graduale di cambiamento» .
MILANO FASHION WEEK
«Nessuna vera indagine» Da Lvmh, sfiorata per Fendi, fanno sapere che non si sentono contestati direttamente, mentre Max Mara, storico marchio di Reggio Emilia controllato dalla famiglia Maramotti, e altra azienda nominata dal New York Times , appoggia la posizione del presidente della Camera della moda, Carlo Capasa: «Hanno attaccato questi marchi in maniera indegna, prepareremo una nota congiunta insieme con gli avvocati.
Se hanno trovato un reato, c' è obbligo di denuncia, perché non l' hanno fatta?
I nostri contratti sono tutti a tutela dei lavoratori. Quello del New York Times è un attacco strumentale che nasce senza aver fatto una vera indagine».
MILANO FASHION WEEK
Capasa, originario di Otranto e sposato con l' attrice torinese Stefania Rocca, si sente toccato anche per l' accusa alla Puglia di essere come il Bangladesh: «Citano fonti sconosciute e dicono anche che in Italia non abbiamo una legge sul salario minimo e questo è grave: le nostre sono aziende serie e, se i subcontrattisti hanno fatto delle stupidaggini, vanno perseguito, ma condividiamo tutti la stessa normativa per la tutela dei lavoratori. Se poi volevano demonizzare il lavoro domestico trovo che sia sbagliato: ha un senso purché sia ben pagato».
LIVIA GIUGGIOLI E COIN FIRTH
La posizione della Camera della moda, insomma, è che il made in Italy non avrebbe bisogno di sfruttare nessuno, semplicemente perché funziona: «Siamo bravi - conclude Capasa - e questo dà fastidio».
E per incentivare l' etica del settore c' è chi come Livia Giuggioli, moglie dell' attore Colin Firth, ha organizzato domenica alla Scala una serata, perché la moda non sia solo usa e getta, ma sostenibile e riciclabile. A calcare il suo Green carpet ci saranno tra gli altri Cate Blanchett, Cindy Crawford e Julianne Moore.
Diversi dal low cost
MILANO FASHION WEEK
Ha lavorato tutte le ultime notti Luisa Beccaria, che ha sfilato ieri: «Sto smontando tutto», scherza, e poi rivela: «Il problema di contenere i costi esiste, il mercato impone fasce di prezzo che non si possono sforare. Una mano sulla coscienza se la dovrebbe mettere anche il consumatore finale.
Una volta il mass market era abbinato a un gusto pessimo e chi doveva vestirsi in un certo modo spendeva di più. Ora anche i marchi bassi ti fanno vivere un' esperienza, usano i grandi fotografi e hanno bei negozi. Il mercato ti esclude se non lavori in un certo modo. Molti sono andati in Bulgaria o in Cina».
LUISA BECCARIA
E aggiunge: «Già il fatto che si usino dei lavoratori nel Sud Italia mi pare una buona notizia. Noi produciamo con diversi fabbricanti, dalla Lombardia al Veneto e alla Toscana e qualche ricamo in India.
Ci specializziamo nel trattamento della materia prima per distinguerci dai colossi low cost o dai gruppi del lusso, che costano tanto più per le campagne pubblicitarie e per gli affitti dei negozi in tutto il mondo che per la qualità.
Per fortuna i clienti stanno diventando sempre più attenti al sodo».