ECCO COSA È SUCCESSO, IN POCO PIÙ DI UN ANNO, AL “NON PARTITO” CHE, PREDICANDO LA DEMOCRAZIA ORIZZONTALE, ERA DIVENTATO IL PRIMO PARTITO ITALIANO.
E SI RITROVA ORA TRASFORMATO IN (POCO PIÙ CHE) UN PARTITO TERRITORIALE DEL SUD
E CON TUTTI I VIZI DEI PARTITI TRADIZIONALI: CORRENTI, LEADER, DIRETTORIO, PERFINO IL PARTITO-AZIENDA CASALEGGIO)
Massimiliano Panarari per ''La Stampa''
Volano gli stracci (specialmente via social network, ça va sans dire) nel Movimento 5 Stelle. Cosa è successo, in poco più di un anno, al «non partito» che, predicando la democrazia orizzontale, era diventato il primo partito italiano? E che da partito della nazione - con ambizioni persino da postmoderna «PD 2.0» - si ritrova ora trasformato in (poco più che) un partito territoriale del Sud?
Quanto è accaduto ce lo racconta in maniera molto chiara la parabola «storica» del M5S. Una traiettoria assai accelerata, poiché il postmodernissimo «non partito» è figlio esemplare di un' epoca in cui le organizzazioni politiche diventano intermittenti e le loro leadership risultano sempre più «a tempo determinato».
E, così, nel corso della sua breve storia ha vissuto in modo rapido e distorto vari dei processi che costellano il ciclo esistenziale dei partiti della modernità, finendo per ribaltare - o «tradire», come direbbe qualcuno dei suoi militanti - diversi assunti iniziali.
Il Movimento pentastellato è nato da comitati locali impegnati in battaglie ambientaliste, spesso a elevato tasso di sindrome Nimby (i meet up), e da gruppi di attivisti noti come gli «Amici di Beppe Grillo»; ma gli uni e gli altri sono stati via via dismessi (o espulsi) negli anni, specie in occasione delle selezioni dei candidati per le tornate elettorali.
Si è poi legittimato sull' onda del sentiment prepolitico dell' onestà, che fa tutt' uno con l' idea di una diversità morale dei suoi elettori rispetto a quelli degli altri partiti, salvo poi mostrarci che «nessuno è perfetto» eticamente (a partire dall' amministrazione di Roma), e che si tratta innanzitutto di una narrazione elettoralmente redditizia.
E, soprattutto, si è ingrossato facendo da «banca (online) del rancore e agitando come cura quasi esclusiva a tutti i problemi esistenti la democrazia diretta e la trasparenza su Internet - o, per meglio dire, quel suo simulacro che è l' ideologia (e retorica) del direttismo democratico. «Uno vale uno»: e non si discute, altrimenti si finisce accomunati alla vituperata élite.
E, allora, rispolverando qualche rudimento sulla Rivoluzione francese, ecco i parlamentari muovere i loro primi passi in qualità di meri portavoce della «volontà generale» del popolo, che si esprimeva a colpi di clic sulla piattaforma privata Rousseau. In termini, però, più di macchina per il plebiscito e la ratifica delle scelte dei vertici che non di paradiso della disintermediazione; come lascia intendere anche il voto sulla fiducia al «capo politico» (e collezionista di cariche) Luigi Di Maio, visto che, ancora una volta, già si è preventivamente pronunciato a suo favore il redivivo Beppe Grillo.
E già, perché col tempo il grillismo che sfoderava la maschera di Anonymous ha vissuto una deriva che, nella Fattoria degli animali, George Orwell aveva racchiuso nello slogan «Tutti sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri». Così, accanto al capo politico, sono sorte schiere di capetti e graduati, con l' inevitabile corollario della lotta per il potere.
Perché la proibizione delle correnti, nel nome della finzione dell' unità della volontà popolare (sempre il giacobinismo «a braccio»), ha finito per soffocare e opacizzare il dibattito tra le correnti (altro che il ben presto archiviato streaming), riducendolo per tanti versi a una guerra per bande.
E, d' altronde, in un Paese purtroppo bloccato e senza mobilità come l' Italia, il M5S ha svolto la funzione di ascensore sociale per tutta una serie di soggetti alla ricerca di un posto al sole. Insomma, il movimento ha continuato a rigettare in tutto e per tutto l' ineluttabile processo di istituzionalizzazione denunciandolo come sinonimo di «partitismo», e, tuttavia, ha contemporaneamente contratto alcuni dei vizi dei partiti tradizionali.
E ne ha pure aggiunti alcuni altri, caratteristici delle odierne democrazie post-rappresentative. Perché a prendere decisioni - come congruente con la sua natura mediale - è lo staff (non eletto) dei comunicatori. E perché nel dna del Movimento c' è anche la dimensione dell' azienda-partito, con la trasmissione dinastica di padre in figlio non soltanto, come legittimo, della Casaleggio Associati, ma anche del ruolo di «azionista di maggioranza» di una forza politica presente in seno alle istituzioni pubbliche. Come pure quella del «partito bipersonale», con la coppia di uomini soli al comando Gianroberto Casaleggio e Grillo.
E Di Maio, uscito vittorioso dalla lotta delle investiture del 2017, ha provato a trasformarlo in un anticarismatico partito personale di fatto, avvalendosi a corrente alternata dell' amico-nemico Alessandro Di Battista, riesumato non a caso, per l' ennesima volta, in queste ore difficili. Quando la soluzione alla grave crisi, alla faccia del rigetto della partitizzazione, sembra essere proprio la resurrezione di un «direttorio».
Che suona un po' come una segreteria di partito (magari con tanto di stipendio per i suoi componenti). Fonte: qui