9 dicembre forconi: 02/15/20

sabato 15 febbraio 2020

Il bagliore dei raggi gamma che fa luce sulla materia oscura

La ricerca di UniTo, Stanford e INFN che può risolvere uno dei più grandi enigmi dell’universo

Un gruppo di ricercatori, guidato da S. Ammazzalorso, S. Camera, M. Regis e N. Fornengo del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e della Sezione di Torino dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e da D. Gruen del Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology della Stanford University, ha compiuto un passo in avanti nel comprendere l'origine di un debole bagliore di raggi gamma che permea il cosmo.
I ricercatori hanno scoperto che esiste una correlazione tra la luminosità di questa radiazione, estremamente energetica, e le regioni dell’Universo che contengono molta materia oscura viste attraverso il fenomeno cosiddetto di lente gravitazionale. Questa correlazione, predetta teoricamente nel 2013 dallo stesso gruppo di ricerca del Dipartimento di Fisica di UniTo, è stata ora osservata per la prima volta. Il risultato potrà aiutare i ricercatori a comprendere le proprietà degli oggetti astrofisici in grado di emettere questa radiazione e portare nuova luce alla spiegazione del mistero della materia oscura dell’Universo.
Il bagliore, noto come radiazione di fondo di raggi gamma non risolto, proviene da sorgenti così deboli e lontane che i ricercatori non possono identificarle individualmente. Tuttavia, l’ipotesi avanzata nel 2013 e ora confermata con i dati nel frattempo diventati disponibili, è che le regioni di Universo in cui hanno origine questi raggi gamma debbano coincidere con quelle in cui si trova la massa nell'Universo distante, e il modo in cui fluttuazioni nella luminosità della radiazione gamma sono correlate alle fluttuazioni della materia oscura debba contenere la chiave per comprenderne l’origine.
La materia oscura stessa potrebbe emettere un debole bagliore gamma: da qui l’interesse per studiare questa correlazione, in quanto potenzialmente in grado di identificare la natura di questa elusiva componente dell’Universo, della quale al momento si sa solo che esiste ma non da cosa sia composta.
Lo studio, pubblicato su Physical Review Letters, ha utilizzato un anno di dati del Dark Energy Survey (DES), che acquisisce immagini ottiche del cielo ed è in grado di realizzare una mappa della materia oscura sfruttando le minuscole distorsioni delle immagini delle galassie lontane dovute dalla presenza della materia oscura – un effetto noto come lente gravitazionale – e nove anni di dati dal telescopio spaziale Fermi Large Area Telescope, che osserva i raggi gamma cosmici mentre orbita attorno alla Terra e a cui partecipano l’INFN, l’INAF e l’ASI in collaborazione con la NASA.
Il segnale che abbiamo osservato ha in larga parte le caratteristiche attese nel caso in cui la radiazione gamma sia emessa da sorgenti astrofisiche note come blazar – galassie attive con un buco nero supermassiccio al loro centro”. Ha spiegato il Prof. Nicolao Fornengo del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. “Mentre il buco nero inghiottisce la materia che lo circonda, viene emesso un getto di radiazione gamma che, se diretto verso di noi, viene intercettato dal satellite Fermi. La cosa interessante però è che la correlazione misurata non corrisponde completamente alle aspettative teoriche nel caso sia causata solo dai blazars.
Questo lascia spazio alla possibilità che una parte del segnale sia originato proprio dalla materia oscura stessa e ne ha appunto le giuste caratteristiche. Il risultato potrebbe quindi fornire una soluzione al problema della materia oscura, dimostrando che essa è formata da un nuovo tipo di particelle, capaci di produrre radiazione attraverso un processo chiamato annichilazione, fornendo anche indicazioni sulla sua massa e sulle sue interazioni.”
Per approfondire l’impatto di questo studio sulla comprensione della natura materia oscura, i ricercatori sono in procinto di analizzare i nuovi dati che nel frattempo si sono resi disponibili dalle campagne osservative di DES e Fermi.
Lo studio è disponibile in formato open access a questo link: https://arxiv.org/abs/1907.13484.

Una “colla” quantistica tra oggetti macroscopici

[caption id="attachment_16463" align="aligncenter" width="700"] La condivisione di un singolo fotone costituisce una “colla quantistica” per legare attraverso l’entanglement due distinti impulsi di luce laser (© CNR)[/caption]

All’Istituto nazionale di ottica del Cnr è stato ideato un metodo innovativo per “legare” attraverso l’entanglement oggetti macroscopici distinti, facendo loro condividere un singolo fotone. I risultati dell’esperimento, descritto su "Physical Review Letters", permetteranno di indagare il confine tra fisica classica e quantistica e aprono la strada a nuove tecnologie sempre più sicure, precise ed efficienti

In un articolo apparso sulla rivista "Physical Review Letters", ricercatori dell’Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ino) di Sesto Fiorentino, guidati da Marco Bellini e Alessandro Zavatta, hanno dimostrato un metodo generale per produrre entanglement, la particolare forma di correlazione prevista dalla meccanica quantistica per cui due oggetti distinti possono rimanere indissolubilmente “legati” anche se allontanati a distanze astronomiche. Nonostante la sua natura apparentemente paradossale, a cui anche Einstein si rifiutava di credere, l’entanglement è già stato osservato sperimentalmente tra vari tipi di particelle microscopiche ed è alla base delle nuove possibili applicazioni delle cosiddette tecnologie quantistiche, che spaziano dalle comunicazioni sicure, ai computer ultrapotenti, fino alla possibilità di effettuare misure e rivelare sostanze con sensibilità e precisioni adesso inimmaginabili.

Sebbene le peculiarità dell’entanglement siano già state ampiamente dimostrate a livello microscopico, rimane però ancora da chiarire se e come oggetti macroscopici, composti cioè da un elevato numero di particelle, possano anch’essi manifestare un tale comportamento”, afferma Alessandro Zavatta, del Cnr-Ino. Le strane correlazioni previste dall’entanglement smettono infatti di funzionare non appena gli oggetti da legare crescono di dimensioni. In questo caso, la magia quantistica svanisce e gli oggetti tornano rapidamente a comportarsi come ci si aspetta che facciano nella vita di tutti i giorni, perdendo così tutti i vantaggi del mondo dei quanti.
Nel nostro esperimento, un singolo fotone, la particella elementare della luce, viene aggiunto contemporaneamente a due diversi fasci laser. A differenza degli oggetti comuni e grazie alle proprietà della meccanica quantistica, particelle indivisibili come i fotoni possono infatti delocalizzarsi, trovarsi cioè allo stesso tempo in due posizioni distinte”, dice Nicola Biagi, assegnista Cnr-Ino e primo autore della ricerca. È stato quindi un solo fotone che, delocalizzato con le sofisticate tecniche messe a punto dai ricercatori Cnr, ha costituito il collante per tenere “legati” attraverso l’entanglement due diversi impulsi di luce (si veda figura allegata), ognuno a sua volta formato da molte decine di fotoni, e fino a quel momento completamente indipendenti.
Anche se i due impulsi laser utilizzati in questo primo esperimento sono ancora debolissimi, in principio la tecnica non pone limitazioni sulle dimensioni e sul numero degli oggetti da collegare quantisticamente e potrebbe quindi essere estesa a sistemi sempre più grandi.
La creazione di correlazioni quantistiche tra oggetti macroscopici è un obiettivo affascinante”, conclude Marco Bellini del Cnr-Ino “che, oltre a rispondere a domande di tipo fondamentale su come la meccanica quantistica possa fondersi con la fisica classica, ci fornirà nuovi strumenti per lo scambio di comunicazioni inviolabili e per la realizzazione di misure sempre più sensibili e precise”.
Le Scienze

I geoneutrini confermano che siamo appoggiati su un mantello di uranio e torio

L'esperimento Borexino ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN ha appena pubblicato su "Physical Review D" le ultime misure sui geoneutrini, i neutrini che provengono dalle viscere della Terra. Il risultato mostra che buona parte del calore sprigionato dall’interno della Terra deriva dai processi di decadimento di torio e uranio all’interno nel mantello

Protetto dal massiccio del Gran Sasso dalla radiazione che arriva dallo spazio, e immerso così in quello che viene chiamato silenzio cosmico, Borexino è l'esperimento più puro al mondo per la misura dei neutrini, non solo quelli provenienti dal Sole ma anche quelli provenienti dalle viscere della Terra, i cosiddetti geoneutrini. Dopo più di dieci anni di acquisizione dati e una loro sofisticata analisi, la collaborazione internazionale che conduce l’esperimento dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN ha pubblicato i nuovi risultati sui geoneutrini sulla rivista "Physical Review D", che per il loro valore li ha selezionati come Editors' Suggestion, annoverandoli tra gli articoli considerati di maggiore rilievo e interesse scientifico.
Per la prima volta il segnale dei neutrini prodotti dai processi di decadimento radioattivo di uranio e torio distribuiti nel mantello terrestre è stato chiaramente osservato, permettendo di escludere al 99% l'ipotesi di assenza di radioattività nelle profondità della Terra”, spiega Gioacchino Ranucci, ricercatore della Sezione INFN di Milano e co-responsabile della collaborazione scientifica Borexino. Il risultato pubblicato dimostra che buona parte del calore sprigionato dalle viscere della Terra deriva dal decadimento radioattivo dell’uranio-238 e del torio-232 presenti nel mantello terrestre, spesso quasi 3.000 km, su cui poggia la sottile crosta che noi calpestiamo. Infatti, i ricercatori di Borexino hanno stimato con un'alta probabilità (circa 85%) che siano i decadimenti radioattivi nelle rocce a produrre più della metà del calore terrestre, con un ruolo preponderante del mantello rispetto alla crosta. Questa evidenza apre nuovi scenari nell'esplorazione geochimica globale del nostro pianeta. Essendo stato fissato un valore minimo di abbondanza di uranio e torio nel mantello terrestre, è possibile affermare che una porzione non trascurabile dell’energia che alimenta vulcani, terremoti e il campo magnetico terrestre sia prodotta dalla radioattività terrestre.
“La pubblicazione non solo raccoglie i nuovi risultati ma presenta anche una metodologia di analisi che potrà essere adottata dagli esperimenti di nuova generazione, che vedranno l’INFN protagonista a livello internazionale”, sottolinea Marco Pallavicini, ricercatore della Sezione INFN di Genova e co-responsabile della collaborazione scientifica Borexino. “La prossima sfida della comunità scientifica è riuscire a misurare i geoneutrini provenienti dal mantello con una significatività statistica maggiore, magari con rivelatori distribuiti in luoghi diversi sul nostro pianeta”.
Lo studio dei geoneutrini
I neutrini sono particelle elusive: per la loro massa piccolissima, quasi nulla, e per il fatto che sono neutri, cioè non sono dotati di carica elettrica, interagiscono pochissimo con la materia e questo rende difficile la loro osservazione. Ogni secondo circa un milione di geoneutrini attraversano un centimetro quadrato della superficie della Terra. Queste particelle sono prodotte dalla radioattività naturale terrestre e rappresentano una delle poche sonde che abbiamo a disposizione per esplorare direttamente le viscere della Terra. L’intenso campo magnetico, l’incessante attività vulcanica e il movimento delle placche litosferiche sono solo alcune delle peculiarità del nostro pianeta, che lo rendono unico tra i pianeti del sistema solare. Molti di questi affascinanti fenomeni che osserviamo in superficie si producono a profondità di diverse migliaia di chilometri e la loro origine rimane tuttora sconosciuta. Non potendo esplorare il mantello e il nucleo terrestre in modo diretto, non ci resta che ricavare informazioni dalle onde sismiche o dai campioni di roccia portati in superficie dai movimenti tettonici.
A metà del secolo scorso George Gamow e il premio Nobel per la fisica Fred Reines valutarono la possibilità di misurare i geoneutrini per studiare i decadimenti radioattivi che avvengono all’interno della Terra, ma subito a entrambi la sfida apparve troppo ardua: era chiaro che la bassissima probabilità di interazione con la materia rendeva difficilissima la rivelazione dei geoneutrini, che rimanevano nascosti nel rumore di fondo prodotto dalla radioattività di origine terrestre e cosmica. Ora, a distanza di quasi settant’anni, nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, quello che sembrava all’epoca impossibile è diventato un risultato scientifico, grazie all’estrema purezza e sensibilità dell’esperimento Borexino.