9 dicembre forconi: 11/21/17

martedì 21 novembre 2017

UNO STUDIO DEL PENTAGONO DICHIARA CHE L'IMPERO AMERICANO E' AL COLLASSO

Nel primo [articolo – aggiunta del traduttore] di una serie, riportiamo nuove prove sbalorditive che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti si sta rendendo conto del declino del primato americano e della rapida dissoluzione dell’ordine internazionale, creato dal potere statunitense dopo la Seconda Guerra Mondiale.


Ma l’idea del Pentagono che emerge riguardo a ciò che verrà dopo, ispira fiducia a fatica. In questa visione scomponiamo sia le intuizioni che i vizi di percezione[che stanno alla base – aggiunta del traduttore]. Nei prossimi articoli porremo le domande: Cosa sta determinando davvero la fine dell’impero americano? E sulla base di quella diagnosi più accurata del problema, qual è la vera soluzione?


Un nuovo studio straordinario del Pentagono ha concluso che l’ordine internazionale, sostenuto dagli Stati Uniti, stabilito dopo la Seconda Guerra Mondiale, si sta “logorando” e può anche “collassare”, portando gli Stati Uniti a perdere la propria posizione di “primato” negli affari del mondo.

La soluzione proposta per proteggere il potere statunitense, in questo nuovo ambiente “post-primato”, è tuttavia sempre la stessa: più sorveglianza, più propaganda (“manipolazione strategica delle percezioni”) e più espansionismo militare.

Il documento conclude che il mondo è entrato essenzialmente in una nuova fase di trasformazione, nella quale il potere statunitense è in declino, l’ordine internazionale è in dissoluzione e l’autorità dei governi in tutto il mondo va in frantumi.
Dopo aver perso lo status di “preminenza”del passato, gli Stati Uniti ora vivono nel mondo pericoloso e imprevedibile del “post-primato”, il cui carattere distintivo è la “resistenza all’autorità”.
Il pericolo non viene solo da grandi potenze rivali come Russia e Cina, entrambe rappresentate come minacce in rapida affermazione per gli interessi americani, ma anche dall’aumento del rischio di eventi in stile “Primavera Araba”. Essi non scoppieranno solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo, minando potenzialmente nei governi in caricala fiducia nell’immediato futuro.

Il rapporto, basato su un processo di ricerca intensivo della durata di un anno che ha previsto la consultazione con le agenzie chiave del Dipartimento della Difesa e dell’Esercito degli Stati Uniti, richiede al governo degli Stati Uniti di investire in maggiore sorveglianza, in migliore propaganda, per mezzo della“manipolazione strategica” dell’opinione pubblica, e in una “più ampia e condiscendente” forza militare statunitense.
Il rapporto è stato pubblicato a giugno dall’ U.S. Army War College’s Strategic Studies Institute per valutare l’approccio del DoDnell’accertamento dei rischi, a tutti i livelli, della pianificazione politica del Pentagono. Lo studio è stato sostenuto e sponsorizzato dall’ U.S. Army’s Strategic Plans and Policy Directorate; dal Joint Staff J5 (Sezione Strategia e Politica); dall’ Office of the DeputySecretary of Defense for Strategy and Force Develop­ment; e dall’ArmyStudy Program Management Office.

Collasso

Il rapporto lamenta il fatto che “Mentre gli Stati Uniti rimangono, a livello globale, un gigante politico, economico e militare, non godono più di una posizione inattaccabile rispetto ai concorrenti dello Stato”.
In breve, lo status quo ordito e favorito dagli strateghi americani dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che da decenni è stato il fattore principale e ‘vitale’ per il DoD, non si sta solo sfaldando, ma può infatti collassare.”
Lo studio descrive la natura essenzialmente imperiale di quest’ordine,sorretto dall’egemonia americana, con gli Stati Uniti e gli alleati che “dettano” parola per parola le condizioni per promuovere i propri interessi:
“L’ordine e le sue parti costituenti, emerse dalla Seconda Guerra Mondiale, sono stati trasformati in un sistema unipolare con il crollo dell’Unione Sovietica e da allora sono stati dominati, in linea di massima, dagli Stati Uniti e dai suoi più importanti alleati, occidentali e asiatici. Il collettivo delle forze dello status quo si sente a proprio agio nel ruolo dominante, dettando i termini delle conseguenze in ambito di sicurezza internazionale, e resiste alla progressiva affermazione di centri rivali di potere e autorità”.
Ma è finito il periodo in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati potevano semplicemente ottenere ciò che vogliono. Rilevando che i funzionari statunitensi “sentono intrinsecamente l’obbligo di preservare la posizione globale degli Stati Uniti in un ordine internazionale favorevole”, il rapporto conclude che questo “ordine mondiale basato su regole che gli Stati Uniti hanno costruito e sostenuto per 7 decenni sta subendo un’enorme pressione”.
Il rapporto fornisce una dettagliata scomposizione del modo in cui il DoD percepisce che questo ordine si sta rapidamente dissolvendo, con il Pentagono che si muove sempre più veloce rispetto agli eventi mondiali. Avvertendo che “gli eventi globali avverranno più velocemente rispetto a quanto il DoD sia attualmente dotato per la loro gestione”, lo studio conclude che gli Stati Uniti “non possono più contare sulla posizione inattaccabile di predominio, supremazia o preminenza che hanno goduto per i 20 anni e più, successivi alla caduta dell’Unione Sovietica”.

Il potere degli Stati Uniti è così indebolito, che non può più “generare automaticamente una superiorità militare locale, coerente e sostenuta, da schierare in campo”.
Non è solo il potere statunitense a essere in declino. Lo studio dell’U.S. Army War College conclude che:
Tutti gli Stati e le strutture tradizionali dell’autorità politica sono sotto pressione crescente, da parte di forze endogene ed esogene … La frattura del sistema globale post – Guerra Fredda è accompagnata dallo sfilacciamento interno del tessuto politico, sociale ed economico di quasi tutti gli Stati”.
Ma, come riporta il documento, questo non dovrebbe essere considerato disfattismo, ma piuttosto un “campanello d’allarme”. Se non si fa nulla per adattarsi a quest’ambiente “post-primato”, la complessità e la velocità degli eventi mondiali “si opporranno sempre più alla strategia, alla pianificazione e alla valutazione di rischio delle norme e delle faziosità”.

Difendere lo status quo

Posizione preminente nell’elenco delle forze che hanno buttato giù gli Stati Uniti dalla posizione di “preminenza” globale, afferma il rapporto, è ricoperta dal ruolo delle potenze concorrenti – i principali rivali come Russia e Cina, nonché figure di spicco più modeste come Iran e Corea del Nord.
Il documento è particolarmente schietto nel determinare perché gli Stati Uniti considerano minacce questi Paesi – non tanto a causa di questioni militari concrete o relative alla sicurezza, ma soprattutto perché il loro perseguimento dei legittimi interessi nazionali è in sé valutato dannoso per il predominio americano.
Russia e Cina sono descritte come “forze revisioniste” che beneficiano dell’ordine internazionale dominato dagli Stati Uniti, ma che osano “cercare una nuova distribuzione di potere e autorità, commisurata alla loro progressiva affermazione come rivali legittimi del predominio statunitense”. Russia e Cina, dicono gli analisti, “sono impegnate in un programma, con il quale intendono dimostrare i limiti dell’autorità, della volontà, della portata, dell’influenza e dell’impatto degli Stati Uniti”.

Il presupposto di questa conclusione è che l’ordine internazionale dello “status quo”, sostenuto dagli Stati Uniti, è fondamentalmente “favorevole”agli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ogni impegno a vantaggio dell’ordine global e opera “a favore”di chiunque altro venga per abitudine considerato una minaccia per il potere e gli interessi degli Stati Uniti.

Russia e Cina quindi “cercano di ridefinire la loro posizione nello status quo esistente secondo modalità che, almeno, creino circostanze più favorevoli per il perseguimento dei loro obiettivi principali”. A prima vista, in ciò non sembra esserci niente di particolarmente grave. Quindi gli analisti sottolineano che “una prospettiva più massimalista le vede perseguire vantaggio a spese dirette degli Stati Uniti e dei principali alleati occidentali e asiatici”.
La cosa più evidente è che nel documento viene dato poco spazio alla conferma del modo in cui Russia e Cina costituiscono una minaccia significativa per la sicurezza nazionale americana.
La sfida principale è che esse “mirano alla ridefinizione dello status quo contemporaneo”,facendo uso di tecniche di “zona grigia”, che coinvolgono “mezzi e metodi che vanno ben oltre la provocazione aperta o esplicita e il conflitto”.
Queste “forme più oscure e meno evidenti di aggressione su base statale”, malgrado la mancanza di una vera violenza, sono condannate – ma poi, perdendo ogni senso di superiorità morale, lo studio del Pentagono perora che gli stessi Stati Uniti dovrebbero “rientrare in una zona grigia o ritirarsi”, per garantire la loro influenza.
Il documento espone anche le ragioni reali poiché gli Stati Uniti sono ostili alle “forze rivoluzionarie” come Iran e Corea del Nord: costituiscono ostacoli fondamentali per l’influenza imperiale degli Stati Uniti in quelle zone. Loro sono:
“… né soddisfatte dell’ordine contemporaneo, né il suo prodotto … Come minimo, esse intendono distruggere la portata dell’ordine guidato dagli Stati Uniti, in ciò che percepiscono come loro legittima sfera d’influenza. Sono anche decise a sostituire quest’ordine a livello locale con nuove regole stabilite, dettate da loro”.
Lungi dall’impuntarsi, come il governo degli Stati Uniti fa ufficialmente, sul fatto che Iran e Corea del Nord rappresentano minacce nucleari, il documento insiste invece nel considerarle problematiche per l’espansione dell’ordine “a guida americana”.

Perdere la guerra della propaganda

Nel mezzo della sfida rappresentata da questi poteri concorrenti, lo studio del Pentagono sottolinea la minaccia da parte di forze non statali che minano in modi diversi l’ordine “a guida americana”, soprattutto tramite le informazioni.
L’“iperconnessione e la trasformazione delle informazioni in arma, la disinformazione e la disaffezione”, osserva il gruppo di studio, portano alla diffusione incontrollata delle informazioni. L’esito è che il Pentagono affronta “l’inevitabile eliminazione della segretezza e della sicurezza operativa”.
“L’ampio accesso incontrollato alla tecnologia, che davvero ora è dato per scontato, sta minacciando sempre più i precedenti vantaggi delle intenzioni discrete, segrete o occulte, azioni o attività… Alla fine, i leader senior della difesa dovrebbero supporre che tutta l’attività connessa alla difesa, dai piccoli movimenti tattici alle grandi operazioni militari, avrebbero allora luogo completamente allo scoperto, da questo punto in avanti”.
Questa rivoluzione delle informazioni, a sua volta, porta alla “disintegrazione generalizzata delle strutture tradizionali di autorità … alimentate e/o accelerate dall’iperconnessione e dall’evidente decadimento e potenziale fallimento dello status quo post-Guerra Fredda”.

Disordini civili

Evidenziando la minaccia rappresentata da gruppi come ISIS e al-Qaeda, lo studio mostra anche che “l’instabilità senza capo (ad esempio, la Primavera Araba)” è un importante fattore chiave di “erosione generalizzata o dissoluzione delle strutture tradizionali di autorità”.
Il documento accenna che è probabile che tali disordini civili di popolosi affermino nelle patrie occidentali, inclusi gli Stati Uniti.
“Ad oggi, gli strateghi americani sono stati ossessionati da questa tendenza nel più grande Medio Oriente. Tuttavia, le stesse forze in gioco in loco stanno analogamente erodendo la portata e l’autorità dei governi di tutto il mondo … sarebbe imprudente non riconoscere che muteranno, diventeranno una metastasi e, nel tempo,si manifesteranno in modo diverso”.
La patria statunitense è segnalata come particolarmente vulnerabile al collasso delle “strutture d’autorità tradizionale:
“Gli Stati Uniti e la loro popolazione sono sempre più esposti a danni ragguardevoli e all’erosione della sicurezza da parte di individui e di piccoli gruppi di attori motivati, usando abilmente la convergenza dell’iperconnessione, della paura e dell’aumento della vulnerabilità per seminare disordine e incertezza. Questa forma di resistenza all’autorità intensamente disorientante e scombussolante, giunge tramite violenza fisica, virtuale e psicologica e può creare effetti che appaiono, in buona sostanza, sproporzionati rispetto all’origine e alla dimensione fisica o grado del prossimo rischio o minaccia”.
Tuttavia, si riflette poco sul ruolo del governo degli stessi Stati Uniti nel sobillare una tale diffidenza endemica, per mezzo delle proprie linee di condotta politica.

Fatti sgradevoli

Tra i fattori chiave più pericolosi di questo rischio di disordini civili e di destabilizzazione di massa, il documento asserisce che vi sono diverse categorie di fatto. Oltre all’evidente “fact-free”, definita come informazioni che minano la “verità oggettiva”, le altre categorie comprendono verità reali che, tuttavia, sono danno per la reputazione mondiale dell’America.
Le informazioni “fact-inconvenient” consistono nell’esposizione dei “dettagli che, implicitamente, minano la legittima autorità ed erodono le relazioni tra i governi e governati” – fatti, ad esempio, che rivelano quanto la politica di un governo è corrotta, incompetente e non democratica.
Le informazioni “fact-perilous” si riferiscono sostanzialmente a fughe di notizie inerenti la sicurezza nazionale, da parte di informatori quali Edward Snowden o Chelsea Manning, “che svelano informazioni altamente classificate, sensibili o private che possono essere utilizzate per accelerare una perdita reale di vantaggio tattico, operativo o strategico.”
Le informazioni ”fact-toxic” riguardano verità reali che, il documento recrimina, sono “esposte in assenza di contesto” per avvelenare“la rilevanza del discorso politico”. Tali informazioni sono considerate più persuasive nell’innescare insorgenze di disordini civili, perché ciò:
“… inevitabilmente indebolisce i fondamenti della sicurezza a livello internazionale, regionale, nazionale o personale. Infatti, le esposizioni fact-toxic sono le più suscettibili a innescare insicurezza virale o contagiosa attraverso o all’interno delle frontiere e tra un popolo e l’altro o tra i popoli”.
In breve, il gruppo di studio dell’U.S. Army War College crede che la diffusione di ‘fatti’ che sfidano la legittimità dell’impero americano sia un importante fattore chiave del suo declino: non il comportamento effettivo dell’impero, come mostrato datali fatti.

Sorveglianza di massa e guerra psicologica

Lo studio del Pentagono propone quindi due soluzioni alla minaccia delle informazioni.
La prima consiste nell’utilizzare meglio le capacità di sorveglianza di massa degli Stati Uniti, che sono descritte come “il complesso d’intelligence più grande e sofisticato e integrato al mondo”. Gli Stati Uniti possono “generare una visione più rapida e più affidabile rispetto alla capacità dei concorrenti, se optano in merito”. Insieme alla loro “impertinente presenza militare e alla proiezione del potere”, gli Stati Uniti si trovano in “un’invidiabile posizione di forza”.
È presumibile, tuttavia, che il problema è il fatto che gli Stati Uniti non usino completamente questa forza potenziale:
“Quella forza, però, sarà durevole solamente quanto la volontà degli Stati Uniti di considerarla e di utilizzarla a proprio vantaggio. Nella misura in cui gli Stati Uniti e la propria iniziativa di difesa saranno la guida, altri seguiranno …”
Il documento critica anche le strategie americane di concentrarsi troppo sul tentativo di difendersi contro gli sforzi stranieri di penetrare o perturbare l’intelligence statunitense, a scapito dello“sfruttamento mirato della stessa architettura per la manipolazione strategica delle percezioni e la sua relativa influenza sui risultati della politica e della sicurezza.”
I funzionari del Pentagono pertanto devono semplicemente accettareche:
“… la patria degli Stati Uniti, i singoli cittadini americani, e l’opinione pubblica e le percezioni statunitensi diventeranno sempre più campi di battaglia”.

Supremazia militare

Rimpiangendo la perdita del primato statunitense, il rapporto del Pentagono considera l’espansione delle forze armate americane come unica opzione.
Tuttavia non basta il consenso bipartisan sul suprematismo militare. Il documento richiede una forza militare così potente che possa salvaguardare la “massima libertà d’azione”, e consentire agli Stati Uniti di “dettare o mantenere una significativa influenza sui risultati nelle controversie internazionali”.
Ci si troverebbe in difficoltà nel trovare, in qualsiasi documento dell’Esercito degli Stati Uniti, una dichiarazione più chiara dell’intenzione imperiale:
“Mentre, come regola, i leader americani di entrambi i partiti politici si sono costantemente impegnati a mantenere la superiorità militare statunitense su tutti i potenziali Stati rivali, la realtà post-primato richiede una forza militare più ampia e condiscendente che possa generare vantaggio e opzioni nella più vasta gamma possibile di esigenze militari. Per la leadership politica degli Stati Uniti, il mantenimento del vantaggio militare preserva la massima libertà d’azione… Infine, consente a chi prende le decisioni a livello statunitense di avere la possibilità di dettare o detenere una significativa influenza sui risultati delle controversie internazionali, all’ombra di una considerevole capacità militare statunitense e della promessa implicita di conseguenze inaccettabili, in caso si faccia uso di tale potenziale”.
Ancora una volta, il potere militare è essenzialmente raffigurato come uno strumento in mano agli Stati Uniti per forzare, minacciare e persuadere altri Paesi a sottomettersi alle richieste degli Stati Uniti.
Il concetto stesso di ʽdifesaʼ è quindi riformato come capacità di utilizzare forze militari travolgenti per raggiungere i suoi scopi – tutto ciò che mina questa capacità finisce per apparire automaticamente una minaccia che merita di essere attaccata.

Impero del capitale

Di conseguenza, un obiettivo fondamentale di questo espansionismo militare è garantire che gli Stati Uniti e i suoi partner internazionali abbiano “accesso senza ostacoli all’aria, al mare, allo spazio, al cyberspazio e allo spettro elettromagnetico per assicurare la loro sicurezza e prosperità”.
Ciò significa anche che gli Stati Uniti devono mantenere la possibilità di accesso fisico a qualsiasi zona vogliano, ogniqualvolta lo vogliono:
“La mancanza o le limitazioni alla capacità degli Stati Uniti di entrare e operare nelle zone chiave del mondo, ad esempio, minano sia la sicurezza degli Stati Uniti, sia quella dei partner”.
Gli Stati Uniti devono quindi cercare di ridurre al minimo ogni “interruzione deliberata, malevola o accidentale all’accesso ai beni comuni, alle zone critiche, alle risorse e ai mercati”.
Senza mai riferirsi direttamente al ʽcapitalismoʼ, il documento elimina ogni ambiguità su come il Pentagono consideri questa la nuova era di “Conflitto Persistente 2.0”:
… alcuni stanno combattendo la globalizzazione e la globalizzazione sta anche contrattaccando attivamente. Tutte queste forze, insieme, stanno lacerando il tessuto della sicurezza e dell’amministrazione stabile alla quale tutti gli Stati aspirano e si affidano per la sopravvivenza”.
Si tratta quindi di una guerra tra la globalizzazione capitalista condotta dagli Stati Uniti e coloro che resistono.
E per vincerla, il documento avanza una combinazione di strategie: consolidare il complesso dell’intelligence degli Stati Uniti e utilizzarlo più spietatamente; intensificare la sorveglianza di massa e la propaganda per manipolare l’opinione pubblica; espandere il potere militare statunitense per garantire l’accesso a “zone strategiche, mercati e risorse”.
Ciononostante, l’obiettivo è nel complesso piuttosto modesto – per evitare che l’ordine a guida Stati Uniti crolli ulteriormente:
…. mentre lo status quo favorevole dominato dagli Stati Uniti è sotto una forte pressione interna ed esterna, il potere americano adattato può contribuire a scongiurare o addirittura ribaltare un palese fallimento nelle zone più critiche”.
La speranza è che gli Stati Uniti siano in grado di modellare “un ordine post-primato, a livello internazionale,ristrutturato e nondimeno ancora favorevole”.

Narcisismo

Come tutte le pubblicazioni dell’U.S. Army War College, il documento afferma che ciò non rappresenta necessariamente la posizione ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti o del DoD. Mentre questa precisazione significa che i suoi risultati non possono essere presi per rappresentare formalmente il governo degli Stati Uniti, il documento riconosce anche che ciò rappresenta “la competenza collettiva” dei numerosi funzionari interpellati.
In questo senso, il documento è una finestra di perspicacia unica all’interno della mente del Pentagono, e su quanto sia veramente limitata, da fare imbarazzo, la sua portata cognitiva.
E ciò, a sua volta, rivela non solo il perché l’approccio del Pentagono è destinato a peggiorare le cose, ma anche come potrebbe figurare un approccio alternativo più produttivo.

Avviato nel giugno 2016 e completato nell’aprile 2017, il progetto di ricerca dell’U.S. Army War College ha implicato una vasta consulenza con i funzionari del Pentagono, compresi i rappresentanti degli staff congiunti e di servizio, l’Ufficio del Segretario alla Difesa (OSD – n.d.T. Office of the Secretary of Defense), l’U.S. Central Command( USCENTCOM), dell’U.S. Pacific Command (USPACOM), l’U.S. North Command (USNORTHCOM), dell’U.S. Special Operations Command (USSOCOM); l’U.S. Forces, Japan (USFJ), la Defense Intelligence Agency (DIA), il Consiglio Nazionale di Intelligence, l’U.S. Strategic Command(USSTRATCOM) e l’U.S. Army Pacific (USPARPAC) e la Pacific Fleet[PACFLT].
Il gruppo di studio ha anche interpellato un piccolo numero di think tank americani di convincimento alquanto neoconservativo: l’American Enterprise Institute, il Center for Strategic and International Studies (CSIS), la RAND Corporation e l’Institute for the Study of War.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che le sue conclusioni siano così prive di lungimiranza.
Ma che altro vi aspettereste da un metodo di ricerca così profondamente narcisistico, che implica poco più che il parlare asè stessi? Non c’è da meravigliarsi che le soluzioni offerte rappresentino una camera di risonanza con il bisogno di ampliare precisamente le stesse linee di condotta politica che hanno contribuito alla destabilizzazione del potere statunitense?
La metodologia di ricerca riesce a ignorare sistematicamente le prove più critiche che racchiudono i fattori chiave che minano il primato degli Stati Uniti: ad esempio, i processi biofisici del clima, dell’energia e del disagio nell’approvvigionamento alimentare dietro la Primavera Araba; la confluenza della violenza militare, degli interessi riguardanti i combustibili fossili e delle alleanze geopolitiche dietro l’ascesa dell’ISIS; o le fondamentali lagnanze che hanno determinato il degrado della fiducia nei confronti dei governi dopo il crollo finanziario del 2008 e il derivante periodo in corso, caratterizzato dal fallimento economico neoliberale.
Un gran numero di dati dimostra che i rischi crescenti per il potere statunitense non hanno avuto causa esterna ad esso, ma dal modo stesso in cui ha operato. La decomposizione dell’ordine internazionale a guida Stati Uniti, da questa prospettiva, sta avvenendo come conseguenza diretta di difetti radicati nella struttura, nei valori e nell’idea che è alla base di quell’ordine.
In questo contesto, le conclusioni dello studio sono in misura minore il risultato dello stato attuale del mondo, rispetto alla modalità in cui il Pentagono considera sé stesso e il mondo.
Infatti, la cosa più indicativa è la totale impossibilità di riconoscere il ruolo del Pentagono stesso nel perseguire sistematicamente un’ampia gamma di linee di condotta politica, durante il corso degli ultimi decenni, che hanno contribuito direttamente propria alla stessa instabilità dalla quale ora si vuole difendere.
Il Pentagono si inquadra come entità al di fuori del tumulto hobbesiano che si proietta in maniera opportuna al mondo – il risultato è un diniego imponente e conveniente di ogni senso di responsabilità di ciò che accade nel mondo.
In questo senso, il documento è una valida illustrazione del fallimento autolimitativo degli approcci tradizionali di valutazione del rischio. Ciò che occorre invece è un approccio orientato ai metodi alla base della valutazione, non solo delle convinzioni interne al Pentagono sui fattori chiave del rischio, impegnandosi con prove scientifiche indipendenti sugli stessi per verificare la misura in cui tale credosottostà a un accertamento rigoroso.
Un tale approccio potrebbe aprire la porta a uno scenario molto diverso da quello indicato da questo documento – che sia basato sulla volontà di guardarsi realmente allo specchio. E a sua volta potrebbe dischiudersi l’opportunità per funzionari del Pentagono, di immaginare linee di condotta politica alternative con una reale possibilità di lavoro effettivo, piuttosto che avvalorare le stesse strategie fallite e stantie del passato.

Non c’è da stupirsi quindi che perfino l’apparente convinzione del Pentagono,relativa all’inesorabile declino del potere degli Stati Uniti, potrebbe ben essere eccessiva.
Secondo il Dottor Sean Starrs del Center for International Studies del MIT, un vero quadro del potere statunitense non può essere determinato esclusivamente da resoconti a livello nazionale. Dobbiamo volgere lo sguardo ai resoconti delle società transnazionali.
Starrs dimostra che le società transnazionali americane sono molto più potenti dei loro concorrenti. I suoi dati suggeriscono che il suprematismo economico americano rimane al suo massimo storico, e ancora incontrastato anche da un colosso economico come la Cina.
Ciò non necessariamente confuta l’emergente riconoscimento del Pentagono che il potere imperiale americano affronti una nuova era di declino e instabilità senza precedenti.
Ma ciò suggerisce proprio che la percezione del Pentagono della preminenza globale degli Stati Uniti, sia molto legata alla sua capacità di proiettare il capitalismo americano a livello mondiale.
Dal momento che i rivali geopolitici si mobilitano contro la portata economica degli Stati Uniti, e quando emergono nuovi movimenti che essi sperano che compromettano “l’accesso senza impedimenti” da parte degli Stati Uniti a risorse e mercati globali, è chiaro che i funzionari del DoD percepiscono concorrenza o compromissione del capitalismo americano, come pericolo chiaro e attuale.
Ma niente di addotto in questo documento contribuirà effettivamente a rallentare il declino del potere statunitense.
Al contrario, quanto indicato nello studio del Pentagono richiede proprio un’intensificazione delle linee di condotta politica imperiale che il professor Johan Galtung, futurologo che ha preannunciato con precisione la scomparsa dell’URSS, prevede che accelererà il “crollo dell’impero americano” entro il 2020.
Mentre ci si muove più in profondità nell’era “post-primato”, la questione più significativa per le persone, i governi, la società civile e l’industria è questa: quando l’impero cade e si dimena senza controllo, cosa verrà dopo?

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Il Dr. Nafeez Ahmed è un giornalista investigativo che è stato premiato per i suoi 16 anni di lavoro ed è creatore di INSURGEINTELLIGENCE, un progetto di giornalismo investigativo per l’interesse pubblico basato su crowdfunding. È editorialista di ‘System Shift’ su Motherboard di VICE.
Il suo lavoro è stato pubblicato su The Guardian, VICE, Independenton Sunday, The Independent, The Scotsman, Sydney MorningHerald, The Age, Foreign Policy, The Atlantic, Quartz, New York Observer, The New Statesman, Prospect, Le Monde diplomatique, Raw Story, New Internationalist, Huffington Post UK, Al-ArabiyaEnglish, AlterNet, Ecologist e Asia Times, e non solo lì.
Nafeez è apparso due volte nell’elenco “Top 1.000” delle persone più influenti di Londra, pubblicato dall’Evening Standard.
Il suo ultimo libro, FailingStates, Collapsing Systems: BioPhysicalTriggers of PoliticalViolence (Springer, 2017) è uno studio scientifico su come il clima, l’energia, il cibo e le crisi economiche stanno determinando il fallimento degli Stati in tutto il mondo.
Quest’articolo è stato modificato il 19 luglio 2017, per cambiare il riferimento in merito all’informatore “Bradley Manning” in “Chelsea Manning”

FONTE: medium.com
LINK: https://medium.com/insurge-intelligence/pentagon-study-declares-american-empire-is-collapsing-746754cdaebf
19.07.2017

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di NICKAL88

Un sistema alla frutta ... ed adesso cosa si inventeranno?


Domandone per il fine settimana: per quale motivo uno Stato formalmente già alle prese con una grana non da poco come l’affaire dell’indipendenza catalana, dovrebbe cercarsi ulteriori guai? Già, perché da ieri sappiamo che la “mente” degli attentati di Barcellona dello scorso agosto, l’imam Abdelbaki Es Satty, era un collaboratore dei servizi segreti spagnoli. A rivelarlo, il quotidiano “El Pais”, a detta del quale Satty tentò di diventare un informatore quando era detenuto (2010-2014) nella prigione di Castellon, dove scontava una condanna per traffico di droga. I contatti sono proseguiti e la mente dell’attentato li usò successivamente perché sostenne con gli 007 che erano stati gli jihadisti ad obbligarlo a diventare un trafficante di droga per finanziarsi. Manca che John Belushi abbia peraltro in sogno e siamo a posto.

Tant’è, Satty è morto nella strana esplosione del casolare adibito a deposito di bombole di gas – circa un centinaio, roba sobria che non dà nell’occhio – il giorno prima dell’attentato, quindi si può dire il cazzo che si vuole: è cibo per i vermi ora e, in quanto tale, non può replicare. Ora, delle tre, l’una. Non c’è un doppio fine, i cronisti di “El Pais” sono semplicemente stati bravi e hanno trovato la pista giusta: rasoio di Occam e via. Secondo, i servizi spagnoli sono stati iscritti a loro insaputa alla gara mondiale tra intelligence più beote del mondo e ora ci tengono a fare bella figura. Terzo, l’intera faccenda potrebbe essere frutto di una manina extra-spagnola. Ed esempio, potrebbe avere a che fare con una notizia uscita in contemporanea con la bella figura dei servizi iberici: gli Stati Uniti lanciano un’allerta terrorismo sui viaggi di Natale e Capodanno in Europa. “Lo scorso anno sono state compiute stragi con attacchi avvenuti al mercato di Natale a Berlino, in Germania a dicembre, e in una discoteca di Istanbul, in Turchia, a Capodanno”, osservava il Dipartimento di Stato USA, segnalando che i recenti attentati mostrano come sia Al-Qaeda che lo Stato Islamico restino attivi e in grado di colpire.

 Travel Alert Renewal: heightened risk of terrorist attacks throughout Europe, particularly during the holiday season. Exercise caution at holiday festivals and events. 
http://  

Per carità, l’avvertimento è generico e scontato come le avvertenze contro il caldo per anziani e bambini di “Studio aperto” ma tant’è, si sono presi il disturbo di emanarlo. La stronzata dell’Isis che minaccia di decapitare diffusa dalla rediviva Rita Katz nemmeno la prendo in considerazione per evitare di offendere la vostra intelligenza e la derubrica alla categoria Dan Brown e dintorni. Insomma, un po’ di sana paura in vista delle festività, cui non fa certo male il corredo emotivamente confermativo di intelligence europee pateticamente impotenti di fronte alla minaccia, come ci dice il caso spagnolo. Prepariamoci a qualche bombetta.

Ma perché in Europa? Relativamente semplice. Primo, l’America è satura d allarmi. Fra nucleare della Nord Corea, Russiagate e minaccia iraniana sullo sfondo, non serve altro a una nazione di dipendenti da oppiodi, food stamps e media in modalità panico perenne. Anche perché, con il passare dei giorni, emergono dal passato circostanze che ci fanno capire come certe strategie, vedi quella del creare lo spauracchio dell’infiltrazione russa nel processo elettorale USA, partano da lontano. E con solide basi, in grado di toccare più livelli di interesse strategico. Per capire tocca tornare al 1996, quando un attacco dinamitardo distrusse il complesso residenziale delle Khobar Towers nella città saudita di Khobar, attentato nel quale rimasero uccisi 19 militari USA che prestavano servizio nella base aerea di Dharan. Quell’attacco, seppur poco ricordato, creò un vulnus: permise a CIA, Dipartimento di Stato e famiglia reale saudita di dichiarare come l’Iran, immediatamente chiamato in causa per l’accaduto, fosse il principale sponsor del terrorismo internazionale.

E chi giocò, sulla sponda USA, un ruolo fondamentale nella creazione di quella narrativa: Robert Mueller e James Comey, alleati di vecchissima data e ora rispettivamente capo della Commissione speciale sul Russiagate ed ex capo dell’FBI, licenziato da Donald Trump, atto quest’ultimo che si è rivelato prodromico proprio alla creazione dell’organismo d’inchiesta guidato da Mueller. Non due persone a caso, quindi: gli artefici della creazione del pericolo ayatollah, sono di fatto le due pedine utilizzate per dar vita e sostanza allo spauracchio del Cremlino che tutto intercetta e tutto manipola. Insomma, il Deep State e il suo referente politico-industriale-bellico hanno fatto le cose per bene, probabilmente preparando il terreno quando ancora Obama era alla Casa Bianca e tutti davano Hillary Clinton per scontata vincitrice del voto del 2016.

Perché altra paura, però? Serve un po’ di pepe per il warfare? No, al momento le cose vanno a gonfie vele da quel punto di vista. Serve però creare una bella cortina fumogena per il vero guaio all’orizzonte, altro che dispute su questa o quella collinetta strategica al confine fra Siria e Iraq o sulle isole artificiali del Mare Meridionale cinese. L’altro giorno vi avevo mostrato questo grafico

a riprova del fatto che siamo a livelli di rischio molto alti di un nuovo crack azionario, il tutto testimoniato dagli schizofrenici movimenti dell’indicatore di fiducia dei consumatori, al netto di uno Standard&Poor’s che – come nei casi di crisi passate – è ora a livelli record. Bene, ieri è uscito dell’altro. Primo, nel suo report dall’eloquente titolo “Nightmare on Bond Street”, Bank of America ha spiattellato al mondo quanto segue, come si trattasse della lista della spesa:

la scorsa settimana i junk-bonds funds e gli ETF USA hanno registrato un outflow record di 4,43 miliardi di dollari, il terzo peggiore di sempre e il maggiore dall’agosto 2014. Ma come, le obbligazioni ad alto rendimento non erano il nuovo, sicurissimo Eldorado in un mondo di tassi a zero e ricerca disperata di un quarto di punto su qualsiasi asset lo offra? Non viviamo in un mondo di grande ripresa economica sincronizzata, come dicono i banchieri centrali? La FED non sta alzando i tassi, tanto vanno bene le cose? E la Bank of England? Come mai, allora, quella fuga degna della scoperta di mancanza di scialuppe sul Titanic relativamente a carta che fino alla settimana scorsa tutti volevano con fame insaziabile? Secondo motivo di panico e, a mio avviso, grafico fondamentale per capire quanto sta accadendo e quanto le Banche centrali hanno reso possibile, è questo:

UBS, anch’essa con la leggerezza con cui si beve un caffè, ci dice chiaro e tondo che il fantasmagorico rally azionario dell’anno in corso – per gonzi e media frutto proprio del grado di salute dell’economia globale in ripresa – altro non è stato se non un enorme short-squeeze! Wall Street ha sfondato un record al giorno basandosi, di fatto, su buybacks resi possibile dal mark-to-salcazzo della FED e dalla ricopertura di posizioni ribassiste! E adesso che cazzo si inventeranno, visto che formalmente il QE globale dovrebbe andare in pensione, a parte nel regno degli unicorni in salsa di soia chiamato Giappone? Qui non siamo nemmeno più allo schema Ponzi, siamo alla truffa strutturale, siamo alle gioco delle tre carte nelle stazioni ferroviarie, siamo alle false autoradio vendute negli autogrill durante gli anni Ottanta.

Peccato che si tratti di un casino globale da qualche centinaio di trilioni di dollari, il tutto al netto di derivati e sistemi bancari ombra, il cui vero potenziale di devastazione nessuno conosce. Serve qualche esplosione controllata, il che spiegherebbe il timing della BCE per imporre l’addendum sulla copertura degli NPL a bilancio? Ovvero, una bella crisi bancaria-creditizia stile 2011-2012 che mandi a fare in culo Weidmann e i cosiddetti falchi del rigore e faccia ripartire la stamperia dell’Eurotower in grande stile in primavera? Serve il combinato banche-terrorismo per evitare che la gente si renda conto della valanga finanziaria che sta arrivandogli addosso un’altra volta.

E con potenza en superiore a quella del 2008, non fosse altro per il grado di leverage pubblico-privato accumulato nel frattempo? Ovviamente, nell’attesa si è venduto e si cerca ancora di vendere parte della merda al parco buoi, prima che la notizia diventi di dominio pubblico e scatti il panico. Prepariamoci, a mio modo di vedere, a un ritorno in grande stile mediatico dell’emergenza terrorismo o del panico da conflitto globale: occorre distrarre la gente, mentre gli si pone con dovuta attenzione la vaselina nei punti giusti. Nel frattempo, ci prenderanno per il culo ancora per un po’ con l’esilio di Saad Hariri, la “Mani Pulite” saudita o le avventure del Salgari dell’indipendentismo, al secolo Carlos Puigdemont. Altro che pop-corn, stavolta…


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IL RITORNO DEL PARTITO DELLE TASSE: L’OMBRA NERA DELLA PATRIMONIALE


Sono tanti i partiti politici spariti dalla scena italiana nel corso degli anni, tanti tranne uno tra i più potenti e longevi: il partito delle tasse. Anche se finora nessuno ha mai avuto il coraggio di proporsi agli elettori italiani con una formazione da incubo di questo genere, esiste in modo trasversale una corrente di pensiero che palpita nelle retrovie della politica nazionale. E chi rappresenta meglio questo partito fantasma se non l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo  Visco, e l’ex premier Mario Monti, ritrovatisi assieme per un dibattito sull’evasione fiscale in Italia durante Bookcity, a Milano.
Nella memoria degli italiani è ancora vivo il ricordo di Visco, uno dei ministri che negli ultimi anni ha saputo succhiare fino all’ultima goccia di sangue dai contribuenti. Difficile dimenticarsi anche di Monti, che da presidente del Consiglio ha massacrato di imposte gli italiani, ad esempio con la reintroduzione della tassa sulla prima casa.
Il partito delle tasse oggi fa ancora più paura che in passato, visto che la totale incertezza politica sul risultato delle prossime elezioni potrebbe consegnare agli amanti delle gabelle un peso politico di tutto rispetto. Mentre Monti è certo di ritrovarsi nel prossimo Senato, grazie all’incarico a vita ricevuto da Giorgio Napolitano, Visco rischia di tornare in Parlamento sotto le insegne di Mdp, dove la sua filosofia fiscale può trovare ampi consensi.
Nel corso dei giorni già Laura Boldrini, candidato jolly per tutte le liste di sinistra, si era detta più che favorevole a una sorta di patrimoniale. E se Renzi, come ricorda Il Giornale, dovrà aver bisogno dei voti di Mdp, gli italiani potrebbero aspettarsi il ritorno dell’Imu e Tasi sulla prima casa, magari con una spruzzata di progressività, giusto per farla passare come una mossa più equa.

METTI UN SINDACO CHE NON SI RASSEGNA, NON PIAGNUCOLA, NON SI MUOVE PER SCHIERAMENTI POLITICI E PREGIUDIZI, NON ACCETTA MOLTI “NO” COME UNA RISPOSTA, E ALLA FINE SALVA IL SUO PAESE DAL FALLIMENTO E DA UN DEBITO DA 21 MILIONI DI EURO.

LA STORIA DI GIOVANNI GUGLIOTTI E QUELLA PALAZZINA CROLLATA A CASTELLANETA, IN PROVINCIA DI TARANTO

Maria Giovanna Maglie per Dagospia

giovanni gugliottiGIOVANNI GUGLIOTTI
Metti un sindaco che non si rassegna, non piagnucola, non si muove per schieramenti politici e pregiudizi, non accetta molti “no” come una risposta, e alla fine salva il suo paese dal fallimento e anche dall'odio che sempre accompagna certe dispute annose, in questo caso più di 21 milioni di euro di risarcimento, dovuti da troppo tempo alle famiglie di 34 vittime del crollo di una palazzina di Castellaneta in provincia di Taranto, ma che il Comune di Castellaneta non era in grado di pagare.

Si chiama Giovanni Gugliotti, e quando la palazzina e’ crollata in viale Verdi, aveva 9 anni, però le responsabilità che un iter giudiziario lunghissimo ha consegnato al Comune, se l'è beccate lui, e lui le ha risolte felicemente, non solo mettendo fine alla brutta storia, ma costringendo il governo, o convincendolo, a fare una legge che aiuterà altri paesi che abbiano storie brutte analoghe.

castellanetaCASTELLANETA
Una specie di eroe, come direbbero gli americani che di usare questo termine non hanno paura, dev'essere per questo che non lo trovo in nessuna delle allnews, o dei talk show che ci strillano in faccia fino a tarda notte esibendo sempre le stesse facce che fingono di litigare fra di loro, intanto che tutti si stupiscono se non tirano su’ più uno spettatore.
Ve la racconto io, potrebbe essere una serie nuova: amministratori che ce la fanno a fare cose buone.

La storia è questa. Trentadue anni fa, a Castellaneta il palazzo al civico 7 di viale Verdi crolla, muoiono 34 persone, comincia un infinito iter giudiziario. Nel 1991, la magistratura penale riconosce la responsabilità degli amministratori locali dell’epoca.e alla fine la stessa sentenza e’ ogni volta confermata. Così nel 2017, il Comune è chiamato a far fronte a un risarcimento di oltre 21 milioni di euro in favore dei familiari delle vittime.

castellanetaCASTELLANETA
 Dopo la sentenza, i creditori hanno subito pignorato le casse comunali spingendo di fatto l'ente verso il baratro, già non si pagano più gli stipendi dei dipendenti comunali. Giovanni Gugliotti, sindaco di Forza Italia, decide di non darsi alla fuga e nemmeno di darsi al piagnisteo, pratica nazionale; affronta Invece un percorso tutto in salita e che tutti gli sconsigliano di intraprendere, quello dell'art. 243 bis TUEL, ovvero la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, comunemente nota come "predissesto".

"Il nostro obiettivo era duplice - spiega il sindaco Gugliotti - evitare il dissesto finanziario dell'ente e allo stesso tempo riconoscere giustizia a tutti coloro che ne avevano diritto”’
 Con la procedura del "predissesto", ferma gli interessi sul debito, blocca i pignoramenti, così Castellaneta non va fallita. Poi si mette a trattare a morte con il gruppo “Nuova Concordia”, società in liquidazione, proprietaria di diverse strutture tra le quali un centro benessere con albergo e resort all'avanguardia e di super lusso, il Nova Yardinia, che al Comune deve un sacco di soldi; fa una transazione e recupera 8 milioni, chiudendo quel contenzioso e non perdendo l’ investimento turistico.

Ai familiari delle vittime del crollo chiede di rinunciare all'interesse e riduce così i debiti a 12,5 milioni di euro, prova di buona volontà e buon senso,bisogna dire, da parte di tutti, visto che i soldi li aspettano da 30 anni.
castellanetaCASTELLANETA

Infine Gugliotti si rivolge al governo e alla Regione Puglia. Michele Emiliano non si fa pregare, istituisce un fondo di solidarietà, per sostenere Castellaneta con due milioni di euro. Il Governo, dopo una lobby pressante di Gugliotta, istituisce una legge ad hoc, a favore dei Comuni che, avendo subito calamità di ogni tipo, sono in crisi finanziaria. Ne beneficia Castellaneta ma anche molti altri, ad esempio il Comune di San Giuliano di Puglia, dove durante il terremoto del 2002, morirono 27 bambini e un'insegnante nel crollo della scuola “Francesco Jovine”. Arrivano 4,5 milioni di euro.

Oggi Giovanni Gugliotti e Castellaneta guardano al futuro senza angoscia: i crediti sono stati recuperati, governo e Regione hanno risposto positivamente a una proposta e a una strategia di mediazione e non di contrapposizione frontale,i familiari delle vittime del crollo hanno già avuto il giusto risarcimento, le aziende creditrici del Comune hanno quanto spetta loro. Dice Gugliotti: “noi tutti cittadini di Castellaneta abbiamo saldato i conti con il passato e guardiamo al futuro con la giusta serenità". Bravo, no?