NELLA SENTENZA SCRIVONO: “NON AVEVA QUELLA CARICA INTIMIDATRICE, TIPICA DELLE ASSOCIAZIONI MAFIOSE”
PIGNATONE: “MA SE TUTTA ROMA SAPEVA QUALI ERANO I SUOI METODI…”
Michela Allegri per il Messaggero
Non usa giri di parole e va dritto al punto: «Rispettiamo la sentenza di primo grado sul Mondo di mezzo, ma non la condividiamo e stiamo scrivendo l'appello», dice il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, intervenuto ieri a Palermo al ventennale della redazione di Repubblica.
La sentenza in questione è quella del processo Mondo di mezzo, che ha escluso l'esistenza di quell'associazione di stampo mafioso capeggiata da Massimo Carminati e dal ras delle coop Salvatore Buzzi che, per la procura di Roma, per anni avrebbe tenuto sotto scacco la Capitale d'Italia. Il capo dei pm di piazzale Clodio sottolinea che il Mondo di mezzo di Buzzi e Carminati «non dominava un territorio ma un settore di affari e, soprattutto, una serie di rapporti con un pezzo dell'amministrazione comunale. Carminati otteneva il controllo con il metodo mafioso attraverso la violenza».
Dalla parte dell'ex Nar e dei sodali, secondo la ricostruzione della procura, il curriculum criminale del presunto boss e, soprattutto, i legami con la Banda della Magliana.
«Tutti lo sapevano - aggiunge Pignatone - Carminati aveva alle spalle un pedigree noto a Roma. C'erano, secondo noi, le condizioni per il riconoscimento del carattere mafioso». Un carattere che, per gli inquirenti, derivava dalla paura e dal senso di riverenza nei confronti dell'ex Nar.
«Dal 2012, dopo il mio arrivo a Roma, era pacifico per ministri e prefetti che nella Capitale non ci fosse la mafia. Io ho iniziato a fare indagini per scoprire se fosse vero e sono uscite le piccole mafie - compresa quella di Carminati, prosegue Pignatone - L'articolo 416 bis del codice penale non punisce solo le mafie tradizionali. Le piccole organizzazioni criminali, piaccia o non piaccia, hanno piena cittadinanza per essere punite, e sono tali se usano il metodo mafioso».
LA SENTENZA
L'appello verrà presentato contro la sentenza della X sezione penale che, il 20 luglio scorso, ha escluso proprio l'esistenza di quel metodo, facendo cadere l'accusa di associazione mafiosa contestata a 19 imputati.
Per il collegio, infatti, il gruppo capeggiato da Carminati e dal ras delle coop non aveva un reale controllo del territorio e, soprattutto, non aveva quella «carica intimidatrice» intesa come «caratteristica specifica del modello associativo delineato dall'articolo 416 bis, attraverso cui l'associazione si manifesta concretamente», si legge nelle 3.200 pagine di motivazione della sentenza con cui il Tribunale ha condannato l'ex Nar a 20 anni di reclusione e il suo braccio destro imprenditoriale a 19 anni.
Una sentenza che ha previsto pene molto dure anche per gli altri imputati - 250 anni complessivi di carcere - ma che ha rifiutato di riconoscere che quel gruppo fosse un'unica organizzazione mafiosa.
Si tratta, per il collegio, di due associazioni criminali distinte: una dedita ad attività di usura ed estorsione, l'altra in grado di arrivare ai piani alti della pubblica amministrazione a suon di tangenti, pilotare appalti milionari, inserirsi nel business dei centri di accoglienza per immigrati e raggiungere politici di destra e di sinistra.
Per la procura, invece, esiste un'unica organizzazione, che è una vera e propria cupola: «Abbiamo letto la sentenza e riteniamo di non concordare - conclude Pignatone - Stiamo scrivendo l'appello perché riteniamo che la costruzione accusatoria abbia una sua validità. Noi siamo fiduciosi su ulteriori sviluppi».
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