9 dicembre forconi: 12/04/16

domenica 4 dicembre 2016

HENRY KISSINGER - L’EX SEGRETARIO DI STATO VOLA A PECHINO PER RASSICURARE LA CINA

LA CINA GUARDA CON SOSPETTO ALLE APERTURE DI TRUMP VERSO TAIWAN E ALLE MINACCE DI DAZI SULL’EXPORT DI PECHINO 

KISSINGER VUOLE PESARE LA SUA AUTOREVOLEZZA PER EVITARE UNA GUERRA COMMERCIALE TRA USA E CINA


Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera”

KISSINGERKISSINGER
Sarà un caso, ma mentre Donald Trump parlava con la collega taiwanese sfidando la Cina, nella Grande Sala del Popolo di Pechino, seduto accanto a Xi Jinping c' era Henry Kissinger, l' uomo che con la sua diplomazia segreta portò all' incontro del 1972 tra Richard Nixon e Mao Zedong. «Dottor Kissinger, la sua visita è oltremodo tempestiva, siamo ansiosi di ascoltare il suo punto di vista sul futuro delle relazioni sino-americane», gli ha detto Xi.

Ed è interessante ricordare che il primo messaggio ufficiale spedito da Mao alla Casa Bianca, nel 1971, riguardava proprio il modo di ridurre la tensione per Taiwan, l'isola che per Pechino è solo «una provincia» da riassorbire.
JIANG ZEMIN E KISSINGERJIANG ZEMIN E KISSINGER

Henry Kissinger, che tra visite segrete e ufficiali è stato in Cina almeno 80 volte, ha detto di non essere venuto come portavoce di Trump, ma prima di partire lo ha incontrato e questa è la sua impressione spiegata alla Cnn: «Questo presidente eletto è unico nella mia esperienza, perché non ha assolutamente un bagaglio di obblighi verso alcun gruppo particolare, è diventato presidente sulla base della sua strategia, con un programma che ha messo davanti agli americani e che i suoi concorrenti non avevano».
Henry KissingerHENRY KISSINGER

Trump ha minacciato dazi fino al 45% sull'export cinese e di dichiarare Pechino «manipolatrice della valuta». Il consiglio di Kissinger, riguardo alle minacce di guerra commerciale, è di «non cercare di inchiodare Trump a posizioni che ha tenuto in campagna elettorale su cui non insisterà da presidente... se invece insisterà bisognerà tenerne conto». Ora c' è il caso Taiwan e a Pechino sono nervosi.

Storia diplomatica e presente si intrecciano quando si tratta di Kissinger, che a 93 anni è il più profondo conoscitore americano della mentalità politica cinese. La sua prima visita a Pechino, il 9 luglio 1971, fu organizzata come un' azione di intelligence: il superconsigliere della Casa Bianca era partito di notte da un aeroporto militare in Pakistan, dopo aver sparso la voce di essersi sentito poco bene.
KISSINGER E MAOKISSINGER E MAO

Non aveva portato bagaglio, nemmeno una camicia di ricambio per la sua missione cinese e durante il volo, per scaricare la tensione, un collaboratore gli disse: «Henry, non ti sei ancora seduto al tavolo con i cinesi e sei già senza camicia». Raccontano che un assistente gli diede una delle sue, fuori misura, tanto da «farlo sembrare un pinguino». E sul colletto c' era l'etichetta Made in Taiwan. Un altro segno del destino.

Accogliendolo, il carismatico Zhou Enlai, primo ministro di Mao Zedong, gli disse: «Dottor Kissinger, c'è una notizia speciale che la riguarda: sembra che lei sia disperso in Pakistan». Kissinger e Zhou si intesero bene e l'anno dopo Richard Nixon varcò la soglia della Città Proibita, cambiando il corso della storia. Fu il trionfo della «diplomazia triangolare» di Kissinger, che sfruttò la rivalità tra Cina comunista e Unione Sovietica per inserire il cuneo americano.

henry kissinger party alla casa biancaHENRY KISSINGER PARTY ALLA CASA BIANCA
Da allora Kissinger ha incontrato tutti i leader che si sono succeduti a Pechino. È definito «un vecchio amico del popolo cinese» in segno di enorme rispetto. Un grande navigatore della geopolitica al quale chiedere lumi ora che si agita lo spettro della «Trappola di Tucidide».

Si tratta della teoria che ritiene quasi inevitabile un conflitto tra la potenza emergente e quella regnante, come successe ai tempi di Sparta e Atene. I cinesi sembrano i più preoccupati dal rischio, tanto da aver invitato Kissinger già la scorsa primavera a un seminario a Pechino dal titolo «Evitare la Trappola di Tucidide» (al quale il Corriere della Sera ha potuto assistere).

xi jinpingXI JINPING
Allora Kissinger aveva sostenuto che «bisogna spostare il dibattito, non centrarlo su quale conflitto si potrà presentare, ma su come e dove collaborare» e aveva rivelato di aver fatto lo stesso ragionamento a Nixon. Kissinger ha appena dato un' intervista all' Atlantic dove aggiunge una visione pessimista: «I conflitti possono scoppiare, da una parte a causa di un graduale aumento della tensione e dall' altra perché gli Stati moderni si sono abituati alla norma che alla fine una soluzione si troverà sempre». Ma basta che una circostanza sfavorevole si verifichi e la guerra scoppia, dice Kissinger riandando alla Prima guerra mondiale.

Trump ha ancora un mese abbondante per mandare segnali chiari e rassicuranti alla Cina.
Poi potrebbe trovarsi a dover fronteggiare una sfida, per Taiwan, nel Mar cinese meridionale o sul fronte commerciale. Basterebbe una dichiarazione minacciosa su Taiwan da parte di Pechino (che tiene un migliaio di missili puntati verso l' isola) e le Borse mondiali affonderebbero. L' imprevedibile Trump ha scelto di rompere un tabù parlando con la leader di Taiwan; forse ha pensato di scoprire il bluff cinese.

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Becchi: ai poteri forti serve un nuovo governo. Il motivo? Terrificante

Tutto cominciò cinque anni fa alla Leopolda quando sul palcoscenico della stazione ferroviaria di Firenze si affacciava quello che all’epoca era considerato poco più di un giovanotto rampante e piuttosto arrogante, uno di quelli con la parlata svelta ma che non si preoccupa troppo di quello che dice. Matteo Renzi esordiva così nella politica italiana, parlando della necessità di una rottamazione della vecchia classe dirigente del Pd, incapace di interpretare al meglio i cambiamenti del futuro e ormai troppo legata ad un passato fatto di effigi e simboli che non appartengono più alla sinistra moderna. Dentro il Pd, non fu accolto bene.

D’Alema, Marini e Bersani non hanno mai visto con favore l’avvento di questo giovane spregiudicato e arrampicatore, ma hanno ingoiato il rospo della sua ascesa perché così era stato deciso dai piani alti dell’Europa e di Washington. Quando Renzi venne scelto come sostituto di Enrico Letta, l’intera stampa italiana e internazionale si schierò tutta come un sol uomo a favore dell’ex sindaco di Firenze. La presenza del rottamatore nei media era bulimica, e invadeva tutti gli spazi delle principali reti nazionali a ogni ora del giorno. Confindustria e De Benedetti ne decantavano le lodi, vedevano nella sua figura l’uomo che avrebbe una volta per tutte infranto quei tabù che tutti i governi precedenti non avevano osato sfidare. È stato così per la riforma dell’articolo 18, un passaggio storico che ha inferto un duro colpo al già provato edificio dello Stato sociale e ha concesso un potere ancora maggiore al grande capitale dell’industria italiana.


Nessuno era riuscito in questo, né i vecchi ex compagni di una volta come D’Alema avrebbero potuto riuscirci. Il motivo è apparentemente intuitivo quanto semplice: per approvare delle riforme del genere occorreva costruire un logos di novità, di immagine giovane e fresca di cui la classe dirigente del Pd era del tutto priva. I media hanno contribuito e alimentato quel logos falso e artificiale per permettere di descrivere le riforme renziane come un enorme passo in avanti per la società italiana, quando esse rappresentano un salto all’indietro di 60 anni, azzerando decenni di conquiste e lotte sindacali.

Da qui la fiducia in bianco al rottamatore da tutti gli ambienti che contano: dalla finanza anglosassone per mezzo del Financial Times, dalla cancelliera Angela Merkel che vedeva in Renzi una garanzia che l’Italia non violasse il teorema dell’austerità e rimanesse ben salda all’euro, fino alle istituzioni europee sicure che il Belpaese nelle mani del governo Renzi non fosse più una minaccia per la stabilità dell’Ue. Ora l’idillio sembra essere finito. La Commissione Europea solamente pochi mesi fa ha descritto Renzi come un personaggio «inaffidabile», l’ingegner De Benedetti si schiera per il No al referendum e il Financial Times condanna la riforma costituzionale definendola come «un ponte verso il nulla».

Dunque il potere attrattivo dell’uomo nuovo sembra esaurito, gli ambienti un tempo di casa lo considerano ora un ospite indesiderato al quale va mostrata l’uscita per fare spazio ad altri invitati più graditi. Se dunque gli sponsor di Renzi gli voltano le spalle, e preferiscono schierarsi apertamente per il No al referendum, appare evidente che l’intenzione è quella di provocare un cambio nella politica italiana. Sebbene le riforme costituzionali siano state pensate principalmente per dare ancora più potere alle istituzioni europee e abrogare il titolo V (ultimo ostacolo per le privatizzazioni delle municipalizzate ancora in mano agli enti locali) i poteri esteri e italiani preferiscono adesso votare No per favorire così una probabile crisi di governo i cui esiti porteranno a tutto tranne che a elezioni anticipate. Negli anni passati il Quirinale ha sempre rimandato l’opzione delle urne, viste come fonte di instabilità dai mercati. e ha preferito sempre cercare una soluzione per mantenere in vita la legislatura. Da Monti in poi, è stato impedito ai cittadini italiani di potersi esprimere nel nome di logiche sovranazionali che chiedevano la prosecuzione delle legislature, così da mantenere inalterato lo status quo e guadagnare terreno sullo smantellamento dello Stato sociale italiano.

Ora però per continuare su quel cammino è necessario un altro cambio perché il tempo di Renzi è finito. E il referendum pare quasi diventato lo strumento migliore per dare il benservito a Renzi. In caso di un’eventuale sconfitta al referendum farà di tutto per restare al suo posto ma non ci riuscirà. È molto più probabile l’entrata in scena di un governo tecnico o di larghe intese: in entrambi i casi sarebbero approvate altre «riforme» che il premier precedente governo non aveva la forza di approvare. Il cammino degli ultimi 5 anni è stato così, si designa un premier dall’esterno e si giustifica la sua ascesa con la situazione interna di emergenza indotta. Una volta che lo scopo è stato raggiunto e occorre passare alla fase successiva, gli si dà il benservito e si passa al nuovo personaggio da sostenere, che può essere anche un vecchio riciclato. Monti, Letta e Renzi sono saliti al potere con questo schema. Chi verrà dopo di loro dovrà portare a termine il lavoro iniziato da questi.

Svendere completamente gli asset più importanti dello Stato e aggredire il risparmio degli italiani.

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“FOOTBALL LEAKS” - L’INCHIESTA DI “EL MUNDO” E “DER SPIEGEL” SCOPERCHIA UN GIRO DI CONTI OFFSHORE PER NASCONDERE CENTINAIA DI MILIONI DI EURO AL FISCO

CERVELLO DELL'OPERAZIONE IL PROCURATORE JORGE MENDES 

COINVOLTI ANCHE MOURINHO, CRISTIANO RONALDO E MOLTI CLUB TRA CUI JUVENTUS, MILAN, INTER, ROMA, NAPOLI E TORINO


Annalisa Grandi per www.corriere.it
mourinho festeggia in pigiamaMOURINHO FESTEGGIA IN PIGIAMA

José Mourinho e il denaro nascosto in Nuova Zelanda utilizzando conti intestati alla moglie. Cristiano Ronaldo e 150 milioni di euro nascosti in paradisi fiscali, tra cui le Isole Vergini britanniche, per non pagare al fisco le tasse sui proventi dei diritti di immagine. È un terremoto, quello che lo spagnolo «El Mundo» e il tedesco «Der Spiegel» definisce «Football Leaks»: milioni di file che rischiano di sconvolgere il calcio internazionale, svelando affari offshore di alcuni dei nomi e dei volti più noti del mondo del pallone.

Due i nomi su tutti, quelli di José Mourinho e Cristiano Ronaldo, ma ad essere coinvolti sarebbero anche club italiani, Juventus, Inter, Milan, Roma, Napoli e Torino. Un’inchiesta frutto del lavoro di indagine da parte dell’Eic, Europea Investigative Collaboration, una rete di 60 giornalisti di tutta Europa.

cristiano ronaldo lacrime di gioiaCRISTIANO RONALDO LACRIME DI GIOIA
Il «cervello» dell’intero sistema sarebbe l’agente Jorge Mendes, il procuratore sportivo più potente al mondo. Portoghese, si occupa dal 2004 tra gli altri proprio di José Mourinho e Cristiano Ronaldo. Con la sua consulenza, i due, secondo i file di «Football Leaks», sarebbero riusciti a nascondere denaro al fisco per milioni di euro.

MOURINHO E I CONTI OFFSHORE
Nel caso di Mourinho, la rete tracciata da Eic porta fino dalle Isole Vergini Britanniche, paradiso fiscale nei Caraibi, fino alla Nuova Zelanda. Nel 2004, anno del suo ingaggio al Chelsea, Mou trasferisce i diritti di immagine alla società Koper Services, con sede proprio nel paradiso fiscale. Qui finiscono praticamente in toto oltre 2 milioni di euro tra il 2004 e il 2009.

JORGE MENDESJORGE MENDES
Nel 2008 la rete dalle isole Vergini Britanniche si sposta in Nuova Zelanda, dove il tecnico costituisce il Kaitaia Trust, una fondazione di cui sono beneficiari la moglie e i figli. Qui finisce a partire da quell’anno il denaro che arriva alla Koper Services. Tra il 2010 e il 2015 l’allenatore riceve altri 8 milioni di euro sempre per i diritti di immagine dal Real Madrid. Su quei soldi, il tecnico risulta abbia pagato solo il 6% di tasse.

CRISTIANO RONALDO E I 150 MILIONI DI EURO
Cristiano Ronaldo è l’altro grande nome che compare nello scandalo «Football Leaks». L’asso del Real Madrid, tre volte Pallone d’Oro, avrebbe nascosto in paradisi fiscali almeno 150 milioni di euro, anche questi derivanti dai diritti d’immagine. Tutto inizia, secondo quanto si legge su «El Mundo», nel 2009, prima del suo arrivo a Madrid. Ronaldo trasferisce i suoi diritti di immagine alla società Tollin Associates, con sede nelle Isole Vergini Britanniche. Qui finiscono in cinque anni quasi 75 milioni di euro.
jorge mendes cristiano ronaldoJORGE MENDES CRISTIANO RONALDO

Nel 2015 altre due società, sempre con sede nel paradiso fiscale, acquisiscono i diritti di immagine del giocatore portoghese, fino al 2020, per altri 75 milioni di euro. L’operazione viene gestita da Mint Capital, società legata a Peter Lim, uomo d’affari di Singapore. Il totale: 150 milioni, per cui il tre volte Pallone d’Oro ha pagato meno del 4% di tasse al fisco spagnolo.

LA REPLICA: «SEMPRE AGITO CON MASSIMA PROFESSIONALITÀ»
Il tecnico e il calciatore portoghese però respingono al mittente le accuse tramite il comunicato della società di Mendes Gestifute che garantisce di aver «sempre agito con il più alto grado di professionalità» e nella massima collaborazione «con le autorità dei Paesi in cui opera».
evasione fiscaleEVASIONE FISCALE

Né Cristiano Ronaldo, né Mourinho, si legge nel comunicato, «sono coinvolti in atti giudiziari che riguardano la Commissione frode fiscale». Nel testo si parla anche di un attacco informatico di cui sarebbero state vittime alcune aziende legate al mondo del calcio nel marzo 2016, «Le società si sono rivolte alla Corte di giustizia spagnola che ha vietato la pubblicazione di informazioni ottenute in seguito a questo attacco hacker».

L’ITALIA
EVASIONE FISCALEEVASIONE FISCALE
Ma nei file di «Football Leaks» ci sarebbero riferimenti anche ad alcuni club di serie A italiani: Juventus, Milan, Inter, Roma, Napoli, Torino. Anche qui si parla di decine di milioni di euro finite in paradisi fiscali. «I pagamenti effettuati alle società controparti sono quelli previsti nei contratti sottoscritti - fa sapere la Roma, contattata dall’«Espresso» - sempre conformi alla normativa sportiva. Gli eventuali successivi trasferimenti di denaro effettuati dalle società controparti ad altre società non ci sono noti. Tra l’altro riteniamo anche che i trasferimenti di denaro dalle società controparti ad altre società non debbano essere neanche di nostro interesse».

Fonte: qui

Manovra in deficit e rischio accise È rimasto un buco da 22 miliardi

Legge di Bilancio e contratti di lavoro gravano sui conti 2018

Come al solito nessuna politica sociale ed economica e nessun investimento pubblico su qualcosa che dia una possibilità di sviluppo del paese in futuro.

Solo mance elettorali.

Roma - Nel post referendum sarà difficile fare quadrare i conti, comunque vada il voto e chiunque sarà l'inquilino di Palazzo Chigi.
E non è colpa delle turbolenze dei mercati, in caso di vittoria del No, né di un aumento degli interessi sul debito.
Le difficoltà vengono dalla legge di Bilancio, ma anche dal contratto degli statali siglato pochi giorni fa in pompa magna. Due eventi che hanno lasciato un «buffo» sui conti del 2018 che ora è intorno ai 22 miliardi, ma che potrebbe salire ulteriormente.
Il grosso sono della bolletta che arriverà nel dicembre 2017 sono le clausole di salvaguardia.

La «finanziaria», in deficit e generosa oltre il dovuto proprio a causa del referendum, ha portato il conto delle clausole di salvaguardia a 19,8 miliardi.

Il governo dovrà trovare una somma che già corrisponde a una manovra per evitare l'aumento dell'Iva al 25% e un incremento delle accise.


Poi il contratto degli statali, rinnovato mercoledì per il triennio 2016-2018.

Per il pubblico impiego nella manovra ci sono 2,6 miliardi complessivi sul 2018, tra nuove assunzioni e rinnovo del contratto. Solo il secondo anno di aumenti per i dipendenti pubblici, a secco da sette anni, costerà 1,9 miliardi.
Poi c'è il costo dell'operazione che servirà a garantire il bonus da 80 euro anche a chi, con gli aumenti di quest'anno, avrebbe perso il diritto a riceverlo. Cifra difficile da prevedere.

Per il 2017 si va da 150 milioni del governo ai 400 milioni previsti dai sindacati.

Spese inevitabili che si riproporranno anche nel 2018. Ma c'è di più. Promettendo aumenti mini medi di 85 euro, il governo ha di fatto sforato le previsioni di spesa.

Tutto dipende da come andranno le trattative per i contratti delle singole categorie di dipendenti pubblici (quella siglata nei giorni scorsi era un'intesa politica). Difficile che il welfare e benefit promessi dal governo, siano a costo zero. Impossibile che non ci siano da coprire, proprio a partire dal 2018, i premi di produzione, che tornano soldi distribuiti a pioggia.
«Il governo ha promesso che troverà i soldi di volta in volta», confida una fonte sindacale.

In sostanza i soldi stanziati nella legge di Bilancio non sono sufficienti e si dà per scontato che tra le spese incomprimibili delle prossime manovre, oltre alle operazioni da artificieri per disinnescare le clausole di salvaguardia, tornerà alla grande il salario dei pubblici nella sua versione di moda negli anni Settanta.

Una variabile indipendente del bilancio pubblico.

Gli stipendi devono crescere anche se i conti vanno male, se la macchina dello stato non è efficiente.


Il tutto, in cambio di niente, visto che è stata smontata la legge Brunetta.
A meno che non ci sia un improbabile conversione dell'Europa alle politiche finanziate in deficit o una crescita così solida da fare dimenticare ai mercati la dimensione del nostro debito pubblico, la prossima legge di Bilancio sarà una triste operazione contabile.

Con pochissimi spazi per scelte di politica economica ed enormi sforzi per finanziare il conto lasciato nelle sessioni di bilancio precedenti.

Quelle di Monti e Letta nel caso delle clausole di salvaguardia, la legge firmata dal premier Matteo Renzi e il ministro Pier Carlo Padoan, per quanto riguarda il ritorno della contrattazione pubblica vecchio stile.

Senza limiti di spesa e senza merito.

Fonte: qui