9 dicembre forconi: 04/26/18

giovedì 26 aprile 2018

PROTEZIONISMO E INFLAZIONE; UNA STORIA GIA’ VISTA!


Risultati immagini per debt deflation cartoons
Ieri è uscito il libricino della Federal Reserve e all’improvviso sono tornati in augue i teorici dell’inflazione di mia nonna…
Fed: Beige Book, economia continua a espandersi, crescita salari solo modesta
L’economia statunitense ha continuato a espandersi a un passo tra il “modesto” e il “moderato” tra marzo e l’inizio di aprile. Lo ha reso noto la Federal Reserve nel suo Beige Book, il rapporto pubblicato ogni sei settimane sullo stato di salute dell’economia statunitense e condotto nei 12 distretti in cui opera la banca centrale. Il documento è stato elaborato tenendo conto di informazioni raccolte fino al 9 aprile e sarà utilizzato nella prossima riunione della Fed, in programma i prossimi 1 e 2 maggio. …America 24
Ovviamente oggi l’ignoranza impera, basta che uno dica che aumentano i prezzi dell’acciaio e tutti a gridare all’inflazione…
Fed: Beige Book, atteso rialzo prezzo acciaio, segnali di costi scaricati su consumatori
Sulla base delle informazioni raccolte nei 12 distretti in cui opera, la Federal Reserve ha registrato un “generalizzato” aumento dei prezzi dell’acciaio, “talvolta notevole”, per via dei dazi imposti dall’amministrazione Usa sul metallo importato nella prima economia al mondo. E’ quanto emerge dal Beige Book, il rapporto pubblicato ogni sei settimane sullo stato di salute dell’economia statunitense. (…) Dal rapporto emerge che le aziende Usa “si aspettano un ulteriore aumento dei prezzi nei mesi a venire, specialmente per l’acciaio e i materiali per le costruzioni”. Non solo. La Fed ha osservato segnali “sparsi” di aziende che “con successo stanno passando l’aumento dei prezzi ai consumatori nei settori manifatturiero, IT, dei trasporti e delle costruzioni”.
Con successo? Ma fatemi un piacero, andate a guardarvi i dati degli ultimi quattro mesi delle vendite al dettaglio, ma quale successo, ma finiamola di scrivere fesserie.
Fed: Beige Book, aziende preoccupate da dazi Trump, “stanno uccidendo” lavoro
Saranno anche “in generale ottimisti” sull’outlook americano, ma le aziende americane sembrano temere l’effetto negativo dato dai dazi che l’amministrazione Trump ha introdotto (su pannelli solari, lavatrici, acciaio e alluminio) o che si prepara a fare scattare su una vasta gamma di prodotti Made in China. E’ quanto emerge dal Beige Book della Federal Reserve. Il rapporto, redatto raccogliendo informazioni nei 12 distretti in cui la banca centrale Usa opera, vengono citate due fonti secondo cui le tariffe doganali ventilate contro la Cina “rappresentano un rischio notevole”. In un caso a lamentarsi è stato un produttore di giocattoli la cui produzione dipende per il 75% dalla Cina. In un altro “i dazi punitivi” sull’alluminio cinese hanno già avuto un forte effetto sui prezzi. Questo contatto, riferisce la Fed, ha detto che “questi dazi stanno uccidendo aziende e lavori manifatturieri ben pagati in America”. L’esatto opposto di quanto sostenuto dal presidente americano Donald Trump.
Questo è naturale, sono mesi e mesi che vi scriviamo che l’amministrazione Trump, non ha la più pallida idea di quello che sta combinando, con i dazi e la guerra commerciale, nessuna analisi reale, ma come vi abbiamo raccontato nell’ultimo manoscritto, la storia insegna che il protezionismo non porta necessariamente al rialzo dell’inflazione, figurarsi oggi in mezzo alla più colossale deflazione da debiti della storia.
Ogni cosa a suo tempo sotto il cielo aspettate che crolli l’economia e la finanza si disintegri nuovamente, aspettate che esplodano le bolle immobiliari in circolazione a livello globale di cui parleremo insieme a Machiavelli e poi vedrete dove finirà l’inflazione.
Ripeto lasciate perdere la parola inflazione, guardate quello che è accaduto ieri in Inghilterra dopo che le sirene dei mercati hanno ripreso a cantare la solita nenia, vedrai ora la Bank of England, alzerà i tassi…

Gb, inflazione frena a minimo da un anno, dubbi su stretta tassi a …

LONDRA (Reuters) – Inatteso raffreddamento in Gran Bretagna per l’inflazione, che a marzo ha toccato il minimo da un anno, secondo i numeri resi noti oggi, che potrebbero smontare le scommesse su un nuovo ritocco verso l’alto dei tassi da parte di Banca d’Inghilterra il mese prossimo.
Deflazione da debiti, questa è la parola regina oggi per comprendere la crisi, studiate Fisher, studiate Minsky, lasciate perdere altre fesserie.

Se il fantasma dell’inflazione bussa a Wall Street

E ricomincia la solita nenia, sui rischi inflattivi, sai cara bisogna fare attenzione al petrolio, può fare esplodere i prezzi, sai anche il protezionismo, sta facendo salire i prezzi ovunque, peccato che alla fine dipende tutto dai consumatori se saranno disposti a seguire questi aumenti. La solita nenia, un’altra occasione per continuare ad acquistare i nostri tesorucci.
Lo scorso settembre, la Bank for International Settlements ha stimato che esistevano ben 25.000.000.000.000, 25 trilioni di dollari in debiti e derivati denominati in dollari nel sistema finanziario offshore.
Come scrive SaxoBank, il mondo non può permettersi un altro incidente nel finanziamento in dollari, una vagala che è già stata parzialmente messa in moto dai tagli alle imposte societarie di Trump, che stanno incoraggiando le società statunitensi a rimpatriare centinaia di miliardi di dollari dagli Stati Uniti e contemporaneamente sta prosciugando liquidità dal sistema offshore in dollari.
Fmi: allarme debito, record di 164mila mld $ nel 2016, oltre picco 2009
Il Fondo monetario internazionale ha lanciato l’allarme debito: nel mondo ha raggiunto “massimi storici, essendo arrivato al picco record di 164mila miliardi di dollari nel 2016, equivalente al 225% del Pil mondiale”. Nel suo Fiscal Monitor, il rapporto pubblicato oggi nell’ambito degli Spring Meetings in corso a Washington, l’istituto guidato da Christine Lagarde spiega che “attualmente il mondo è più indebitato del 12% del Pil rispetto al picco precedente raggiunto nel 2009, con la Cina che fa da capofila”.
Pur prevedendo che “il rapporto debito/Pil in generale scenderà nel corso dei prossimi cinque anni in circa due terzi delle nazioni”, Gaspar avverte: ciò succederà solo se i Paesi manterranno fede ai loro impegni. “Non c’è spazio per compiacersi”. E nell’anticipare che quasi tutte le economie avanzate il debito scenderà, l’esperto ha posto l’accento su una eccezione: gli Stati Uniti. Per lui e per il Fondo “è meglio evitare stimoli inutili quando l’attività economica sta già accelerando”. Gaspar ha concluso dicendo che “nessuno può prevedere con precisione l’andamento delle economie dei Paesi. Ma l’esperienza dimostra che i governi di successo sono quelli che si preparano in vista di tempeste all’orizzonte”.
Ma quale discesa del debito, il rapporto debito/Pil non scenderà mai nei prossimi cinque anni, una nuova crisi globale sta per arrivare, un’autentica bomba deflattiva, ci sono troppe bolle economico/finanziarie ed immobiliari in circolazione, nessuno che studi davvero cosa è una deflazione da debito e le sue dinamiche storiche ed empiriche. l’unica ed ultima opzione rimasta in piedi è la ristrutturazione e i default di massa…

DEFLAZIONE DA DEBITI: COSA POTREBBE ACCADERE …

Risultati immagini per debt deflation cartoons
Fonte: qui

La mossa per far pagare la prossima crisi a Trump

L'allarme lanciato dal Fmi sul livello del debito globale pare la prima mossa di un'operazione per far apparire Trump come responsabile della prossima crisi. 

Donald Trump (Lapresse)































Donald Trump (Lapresse)

Ha avuto grande eco anche su giornali autorevoli e nei tg la messa in guardia del Fmi rispetto al livello di indebitamento raggiunto nel mondo, un combinato pubblico/privato ormai insostenibile e che obbligherà a scelte lacrime e sangue per evitare eventi realmente sistemici. Il fatto, poi, che il nostro Paese abbia avuto un richiamo particolarmente duro rispetto all'indebitamento ma anche - e forse soprattutto - alle politiche necessarie per favorire l'economia e combattere le diseguaglianze, dovrebbe farci capire che le consultazioni tenutesi fino a ieri a Palazzo Giustiniani sono state niente più che una farsa, una sciarada degna di un romanzo di Arthur Schnitzler: chi di dovere, nella fattispecie una delle tre componenti della troika, ha già deciso quali saranno le politiche prioritarie, su tutte l'aumento dell'avanzo primario e una bella patrimoniale. Complimenti a chi, magari, il 4 marzo ha anche fatto un bel po' di coda per votare, utilissimo all'atto pratico. 
Ma se il nostro caso di specie è ormai paradigmatico, è la netta bocciatura della politica fiscale ed economica degli Stati Uniti a confermarmi indirettamente che - come pensavo - Donald Trump sia stato messo alla Casa Bianca solo per divenire esecutore materiale di un ennesimo crimine finanziario, ovvero addossare al taglio delle tasse e ora allo scontro commerciale sui dazi, responsabilità che invece sono tutte in capo alle Banche centrali, Fed in testa. Se infatti il Fmi si è svegliato come al solito quando i buoi sono già scappati dal recinto, pensare che scelte che di fatto non sono ancora divenute operative o che lo sono da poche settimane, possano essere responsabili del disastro sistemico che grava sul mercato azionario e obbligazionario è delirante. O supremo atto di malafede, ipotesi che ritengo più probabile. Stando al report del Fmi, il Fiscal Monitor Report sovrainteso dal direttore dell'Istituto di Washington, Vitor Gaspar, gli Usa sono infatti l'unico Paese fra le economie avanzate a non aver pianificato politiche di riduzione del carico debitorio, proprio a causa dell'aumento della spesa pubblica e del deficit contemplati nel budget 2019 dell'amministrazione Trump, come ci mostrano questi grafici. 
E se l'operazione pare chiara, ovvero cominciare la criminalizzazione delle politiche di Trump al fine di trasformarle nel capro espiatorio del botto finanziario in arrivo, mettendo così al riparo la Fed che - anzi - diverrà il salvatore della patria agli occhi dei cittadini in caso facesse ripartire "emergenzialmente" la stamperia del Qe, una conferma a quanto ho scritto nel mio articolo di ieri, rispettivamente alle previsioni irrealistiche sull'economia Usa delineate su Il Foglio dall'ex rettore della Bocconi, Tabellini, ecco che in questo video a confermare la mia tesi ci pensa non proprio un economista qualsiasi ma Doug Duncan, capo economista di Fannie Mae, di fatto una voce governativa. Ma attenzione, perché se l'America e le sue storture macro rappresentano ormai il proverbiale elefante nella stanza che non si riesce più a nascondere, ecco che sarebbe il caso - soprattutto nel nostro caso, visto che stiamo giocando con il futuro governo come se fossimo un Paese con ratio debito/Pil al 15% - di cominciare a dire la verità anche sullo stato di salute dell'economia dell'eurozona, tanto più che formalmente siamo ormai a pochi mesi dalla fine del Qe della Bce. 
Guardate questi due grafici: il primo ci mostra come, nonostante la retorica dell'Eurotower e la grancassa compiacente della stampa, la spinta propulsiva della ripresa nell'eurozona sta rallentando, trainata dalla Germania, formalmente la locomotiva. Il secondo, poi, conferma quanto vi accennavo ieri, ovvero l'aumento delle possibilità di un'entrata rapida in recessione proprio di Berlino. Oggi siamo al 32,4% di possibilità: sapete a quanto stava quella percentuale solo a marzo? Al 6,8! E a confermarlo non è qualche oscuro blog, bensì l'ultimo studio - appena pubblicato - dell'Institute for Macroeconomics and Business Cycle Research (Imk) della Hans Böckler Foundation. Tedeschi. Serissimi. 
 
Alla base di questa allarmante dinamica, tre fattori: calo notevole della produzione industriale, aumentata volatilità del mercato azionario e deterioramento negli indicatori di sentiment, Zew in testa. 
Il colpo di grazia? 
In questo caso non appare strumentale il richiamo alla politica di protezionismo lanciata da Donald Trump, la quale doveva avere sì formalmente come obiettivo la Cina, ma, stante l'impossibilità di Washington di vincere la guerra con chi detiene il suo debito, garantisce liquidità al sistema e materiale primario per la tecnologia più avanzata (terre rare), ecco che a pagare il prezzo più alto è il motore dell'export (e, proprio per questo, del surplus) europeo. Volete una rappresentazione plastica di quanto l'eurozona sia potenzialmente nei guai, alla faccia del Qe e della ripresa sostenuta e sostenibile invocata da Mario Draghi? Pronti, ci pensa proprio un proxy tedesco, nella fattispecie quello rappresentato in questo grafico: lo spread fra il rendimento del bond biennale Usa e quello pari durata tedesco sia oggi a 300 punti base, il record di divaricazione storico. 
 
Ma attenzione, perché l'inganno è dietro l'angolo e mi riferisco all'uso parziale, quando non distorto, che si fa delle notizie che arrivano proprio dalla Germania per dipingere un quadro d'insieme favolistico dello stato di salute dell'economia europea. È infatti dell'altro giorno la notizia in base alla quale, dopo i metalmeccanici, anche i 2,3 milioni di lavoratori del pubblico impiego in Germania hanno ottenuto aumenti salariali del 7,5% complessivo in busta paga, da pagare in tre tappe su 30 mesi. Molto di più dell'inflazione tedesca, ferma all'1,5% a marzo. Un incremento che oltre alla crescita sostenuta dell'economia, riflette anche la bassa disoccupazione tedesca, scesa fino al 5,3%. L'Ig Metall, il potente sindacato dei metalmeccanici, solo a febbraio aveva ottenuto un aumento del 4,3%. 
Il sindacato della funzione pubblica ha definito l'accordo «il migliore risultato raggiunto da molti anni», ma anche il ministro degli interni, Horst Seehofer, si è detto molto soddisfatto, pur ricordando che dopo questi «sensibili aumenti salariali, ora ci aspettiamo miglioramenti nelle strutture corrispondenti». Insomma, come chiede anche la Bce, Berlino si è decisa a spingere sui consumi interni usando la leva salariale? Tanto più che l'intesa, chiusa nella notte tra martedì e mercoledì, prevede riconoscimenti anche per i neo assunti che, essendo tra i meno pagati, riceveranno un aumento del 10% in busta paga nell'arco di 30 mesi, oltre che per gli apprendisti, ai quali sarà riconosciuto un bonus di 100 euro e un giorno di ferie in più. Insomma, Bengodi. Non proprio, perché se si è arrivati a questa conclusione, occorre far notare come certe dinamiche salariali in Germania, in ossequio al surplus e alla riforma Hartz tanto decantata da certi ambienti del giuslavorismo italiano che di lavoro parlano molto, pur avendolo praticato molto poco, erano ferme da un decennio. 
In Germania, la percentuale di cittadini sotto la soglia ufficiale di povertà (917 euro pro-capite, al netto delle tasse pagate) è salita al 15,7% lo scorso anno dal 14,7% del 2005, questo nonostante il dato record dell'occupazione. Lo stesso governo, lo scorso anno ha dovuto ammettere attraverso uno studio del Dipartimento del lavoro e del welfare che il 40% dei lavoratori tedeschi non aveva visto aumenti sui salari reali netti da metà degli anni Novanta: capito come si ottengono i surplus! Tra il 2005 e il 2015, inoltre, il livello di povertà nella fascia di popolazione sopra i 64 anni è salito dall'11% al 15%: vedere anziani che frugano nelle campane del vetro in cerca di bottiglie, per cui in Germania viene pagata una cauzione, non è scena particolarmente rara, soprattutto nelle aree urbane e de-industrializzate della ex-Ddr. Inoltre, la bassa crescita salariale (soprattutto per i lavori a salario minimo) unita all'aumento degli affitti, i tedeschi non comprano casa, sta inoltre cambiando il volto di molte città: a Lipsia, ex-Ddr, l'affitto mensile era fino a poco tempo fa di 4,50 euro per metro quadrato, ora la media è di 7,50 euro. A stipendi invariati o quasi. Tra il 1995 e il 2015, la percentuale di lavoratori al minimo salariale nella ex Germania occidentale è salita dall'11,9% al 19,7%, mentre nell'ex-Ddr quel dato è rimasto drammaticamente invariato al 36,3%: ecco perché chi vede nell'exploit elettorale di Alternative fur Deutschland un allarme fascista non capisce nulla e non sa nulla della realtà tedesca. Non c'entrano né Hitler, né il razzismo, né la nostalgia del Reich (tanto più che, al limite, trattasi della cosiddetta Ostalgia, ovvero la nostalgia della Germania comunista di Honecker): è esasperazione. E, spesso e volentieri, povertà che sconfina nella miseria. E stiamo parlando della locomotiva d'Europa. 
Ed ecco perché degli aumenti salariali, prima ai metalmeccanici e poi al pubblico impiego: per evitare di precipitare ancora di più al prossimo passaggio elettorale, le europee dell'anno prossimo e per blandire l'Spd al fine di chiudere l'accordo per una nuova Grosse Koalition, il nuovo governo ha infatti stanziato parte dell'enorme surplus per spesa sociale, ma, al momento, si tratta di 4 miliardi di euro da dividere fra edilizia popolare, housing sociale, aumento delle pensioni minime e limitazione, attraverso sgravi, dei contratti a tempo determinato e part-time: il tutto, dopo un decennio di mini-jobs a valanga, frutto della Hartz, che hanno garantito casse statali piene. Ma molti stomaci vuoti, soprattutto nella ex Germania Est. Insomma, a ben guardare, l'erba del vicino è magari più verde - soprattutto di quella di molte aree del nostro Mezzogiorno -, ma non risplende proprio di riflessi di smeraldo. Almeno, non per tutti. Ma tranquilli, va tutto bene, la ripresa è sostenuta e sostenibile e il Qe è stato talmente un successo che può terminare. Credeteci pure, se volete. Poi, però, spegnete la Playstation e tornate sul pianeta terra, dove se per caso Mario Draghi dovesse davvero staccare la spina al finanziamento diretto ed extra-bancario degli acquisti di bond corporate, potremmo assistere alla prima ondata di default di massa nella storia dell'eurozona
Non va affatto tutto bene, fidatevi. E la cosa peggiore è che, per quanto bocconiani e giornalisti autorevoli vi dicano il contrario, debito pubblico e deficit sono gli ultimi dei problemi: sulla forca, in attesa del conoscere il proprio destino, c'è il sistema produttivo, le Pmi spina dorsale della nostra economia e punta di diamante del nostro export. Calcolando che, con le sue mosse, Donald Trump potrebbe garantire al dollaro altri mesi di debolezza strategica proprio sul fronte delle esportazioni (di fatto, un off-set dei ricaschi sulle condizioni peggiorative frutto della guerra sui dazi), spiegatemi voi come può la Bce bloccare il programma di acquisti, stante le condizioni macro dell'eurozona. Ma si sa, io sono un catastrofista. Fidatevi degli ottimisti, invece, visto che finora vi hanno trattato bene. E ci hanno visto lungo… 
20 Aprile 2018

Fonte: qui

IL PICCO DI DRAGHI: IL "SOTTILE" MERCANTILISMO ALLA PROVA DELLA BOLLA GLOBALE

Il presidente della Bce, Mario Draghi


La notizia ha praticamente fatto il giro del mondo: Draghi (da Washington) "ammette: la crescita potrebbe essere giunta al suo picco". 
Risulta dunque di estremo interesse capire per quali ragioni, secondo l'illustre banchiere centrale, il "ciclo" potrebbe entrare nella sua fase discendente.
Ebbene, a stare a quanto riporta Zerohedge, oltre a un profluvio di "platitudes" (banalità), a ben vedere, Draghi queste ragioni non le indica: genericamente si richiama a degli "indicatori economici" che preannunzierebbero il raggiungimento del "picco", ma aggiunge poi, - non si sa bene in base a quali valutazioni-, che "lo slancio della crescita è atteso in prosecuzione", e che "il protezionismo (?) potrebbe aver già prodotto i suoi effetti sugli indicatori (altri? gli stessi della crescita?) del global sentiment". 
Conclusione: da un lato, "un ampio grado di stimolo monetario rimane necessario", dall'altro, però, trapela (secondo Bloomberg) che i componenti del Consiglio BCE vedono come ragionevole attendere fino alla riunione di luglio per annunciare la fine del programma di acquisti".

2. Dal che si desume, per necessità logica insita nel ragionamento sintetizzato, che:
a) il fantomatico protezionismo sarebbe la causa principale, se non unica, del paventato rallentamento della crescita, mentre questa, viceversa, si basa su elementi puramente piscologici, o, più esattamente, capricciosi, cioè sul "sentiment" di non meglio individuati decisori globali;
b) il QE stimolerebbe la crescita e rimane necessario: e dunque, è giocoforza desumere che, pur avendo raggiunto il suo picco, la crescita non ha, e non ha mai avuto, uno slancio autonomo dallo stimolo monetario...;
c) tuttavia, improvvisamente, non si sa bene come, intorno a luglio, le condizioni cambieranno nel senso che, pur rallentando la crescita (stando alla prima e principale affermazione di Draghi), si potrà annunciare una data per la fine di uno stimolo così essenziale (nelle affermazioni dello stesso Draghi).

3. La genericità delle dichiarazioni di Draghi non consente neppure di andare oltre queste manifeste contraddizioni logiche per poter scendere a verificarne l'attendibilità (scientifica): non conosciamo gli indicatori cui allude Draghi e il modo esatto in cui li interpreta, ammesso che degli indicatori di "sentiment" siano variabili oggettivamente misurabili e, prima ancora, significative.
Qualcosina, a chiarimento, emerge dal grafico che lo stesso Zerohedge sottopone come contrappunto alle affermazioni di Draghi:

Insomma, un effetto, Draghi, lo ha comunque ottenuto: in prossimità e poi in coincidenza con le sue dichiarazioni, almeno, Draghi è riuscito ad ammorbidire il rialzo dell'euro sul dollaro che, ad aprile, come si vede, si stava mettendo male.
E questo ci riporta a "picco della crescita & protezionismo": Draghi parla del mondo (crescita globale) o delle aspettative globali sulla crescita dell'eurozona? Non si tratta evidentemente della stessa cosa.
Ma la risposta più ragionevole, nello stesso contesto da lui delineato, è la seconda.

4. Ecco infatti che ci sovviene un chiarimento che, dalle parole di Draghi, non poteva, per evidenti ragioni di opportunità (geo)politica, essere detto esplicitamente.
L'eurozona, cui egli soprassiede quale principale se non unica, vera autorità federale "decidente", non è tanto antiprotezionistica, dato anche il fatto che l'economia globale è ben lungi dall'essere afflitta da eccessi protezionistici, quanto mercantilista. E ciò in quanto saldamente guidata, nelle sue politiche economiche e fiscali, dalla Germania e dai suoi compagni di merende minori, ma non meno aggressivi (Olanda in testa).
Su questo, se in Italia esistesse una minima informazione della pubblica opinione, non dovrebbero esserci dubbi; basta rammentare che, come aveva detto Joan Robinson (p.8), la dottrina del free-trade è, in pratica, una forma più sottile di mercantilismo.
E per forza che, se non si chiamano le cose con il loro nome, occorre poi lasciare le dichiarazioni sul vago e lasciar credere, ai popoli e agli elettori dei singoli paesi dell'eurozona, che si sta perseguendo una tollerante e lungimitante battaglia per un (presunto) libero commercio, naturalmente pacifista, che sottintende, ben nascosto (mediaticamente), il suo contrario: cioè l'essere invece conflittuale...e, per di più, sottilmente reclamato da dei "sottili" mercantilisti: cioè un ossimoro.

5. Ma se si assume, così com'è nella realtà, che il punto di vista di Draghi è quello del titolare del maggior centro decisionale politico (sì: politico) di una gigantesca area mercantilista, si capisce pure molto meglio da quali indicatoriin concomitanza con il risorgente problema di rivalutazione dell'euro sul dollaro, Draghi abbia tratto la sua predizione di raggiungimento del picco della crescita.
Se quello subito sotto riportato è il dato storico sulla ferrea tendenza dell'eurozona alla "pacifista" crescita export-led, perlomeno nella fase successiva all'avvento di Draghi...nonché alla famosa lettera da lui co-firmata nel 2011 per stimolare l'Italia all'aggiustamento mercantilista da lui stesso apertamente condiviso, - v. qui, p.1 e relativo video-, nonché ad imbarcarsi nella connessa compressione della domanda interna con conseguente gara inter€uropea alla svalutazione salariale...
Euro Area Current Account to GDP
allora, questo, proprio questo, nel grafico sottostante, è il principale indicatore cui deve aver alluso Draghi, per esternare la sua previsione sul superamento di un picco (della crescita export-led dell'eurozona), dato che, tra l'altro, è proprio un picco superato, alla fine del 2017, ciò che si vede benissimo:

Euro Area Current Account
6. D'altra parte, mercantilismo è fondarsi sull'appropriazione della domanda altrui, di altri Stati, i cui mercati diventano oggetto di conquista. 
Questo la Germania, e i suoi satelliti, l'hanno già fatto all'interno dell'eurozona.
Strutturato in qualche modo, nell'intera eurozona, l'aggiustamento Draghi-style (per capirsi), attualmente, il gioco si è persistentemente tramutato in un atteggiamento mercantilisticamente aggressivo verso il resto del mondo; ma in particolare, verso il mercato "contendibile" più grande del mondo, cioè gli stessi USA.
I quali, certamente, da questo punto di vista, sono già fortemente sotto la prolungata pressione della Cina: solo che, ALMENO PER ADESSO, gli USA stanno reagendo verso quest'ultima,mentre nei confronti dell'eurozona, - agevolmente identificabile come una sorta di impero mercantile germanocentrico-, ci si è limitati a una qualche svalutazione del dollaro dalla insostenibile, almeno secondo logica, posizione di quasi-parità con l'euro, di un paio di anni fa.

7. Ma la domanda USA, e quindi, simmetricamente, le importazioni dall'eurozona, sono a rischio per una serie di autonome ragioni, di cui fondamentalmente abbiamo parlato più volte.
Rinviando, in aggiunta, alla lettura di questo articolo di Zerohedge, intitolato "The Federal Reserve Has Done A Great Job Destroying The Middle Class" (e già il titolo, se si parla di domanda e quindi di consumi in importazioni, dovrebbe essere piuttosto chiaro), ne riproduciamo alcuni grafici che contengono altri eloquenti indicatori che minacciano, molto direttamente, di ripercuotersi sull'aggressivo mercantilismo dell'eurozona.

7.1. Il primo grafico riguarda ciò che è stato anticipato negli USA e che, sotto altre vesti, l'Ue-M e le sue autorità, stanno cercando di realizzare nell'eurozona, come paradigma ideale diserietà, sobrietà e austerità fiscale (tutte a servizio dell'export-drive). Cioè una crescente divaricazione nella capacità di spesa, e quindi anche di consumo (importazioni incluse) tra i pochi abbienti e i tanti impoveriti:
7.2. II secondo grafico ci mostra chi siano i beneficiati delle politiche di bassi interessi della Fed. Ci dice l'articolo: l'esperimento di prolungati interessi a zero della Fed ha distrutto coloro che privilegiavano il risparmio e  premiato gli scriteriati consumatori che hanno portato il debito delle famiglie (non quello pubblico!) a livelli senza precedenti". Notare il fondamentale contributo dell'era Obama all'aumento delle differenze di retribuzione e all'azione redistributiva verso l'alto:

8. Insomma, all'eurozona non si presentano grandi opportunità di mantenere impunemente a dritta la barra del timone mercantilista. E sempre rammentando che, comunque ci si autodenomini per convenienza (geo-politica ma anche di controllo del consenso interno...), "nel pensiero e nella pratica mercantilistici i salari contavano poco o nulla...Non c'era nulla su cui costruire una teoria dei salari; e infatti nessuna teoria del genere figurò in una posizione di rilievo nel pensiero mercantilistico." (Galbraith, Storia dell'economia, pag.50). Il che, badate bene, prefigura pure come andrebbe la politica economico-fiscale in caso di nuova (e imminente?) recessione importata dall'eurozona - e dall'Italia specialmente, ormai- via contrazione repentina della domanda estera.
E, comunque, ci fa comprendere a quali "riforme" ulteriori alluda Draghi nello stesso discorso da Washington (sostanzialmente: precarizzati i giovani e avendoli privati di prospettive reddituali, previdenziali e di benessere, si dovrà pur estendere ai rimanentiprivilegiati delle generazioni precedenti lo stesso trattamento! Riformare è "na livella": più equa miseria per tutti).

9. A sua volta, l'America si ritrova nel suo stesso, ben noto, passato dell'equilibrio della sotto-occupazione, che è un viatico per l'alta instabilità finanziaria e per le crisi ricorrenti di insolvenza di massacome prima del 1929. Al contempo, allo stesso modo di allora, negli USA è al governo una compatta classe politica bipartisan che concepisce le "crisi come sano aggiustamento", incurante dei loro crescenti effetti redistributivi (verso l'alto), cioè dei relativi costi economici oltre che politico-sociali.

9.1. Ragguagli su questo imminente disastro, derivante dall'assetto distributivo del mercato del lavoro e sulla conseguente instabilità finanziaria che rischia di travolgere entro nel breve termine gli stessi USA, arrivano giornalmente, quasi in ogni news.
E riguardano il debito contratto da chi vuole sperare in un'opportunità lavorativa migliore, con una situazione di insostenibilità esistenziale, prima ancora finanziaria, in continuo aggravamento: For The First Time Ever, Millennials With Student Debt Have Negative Net Wealth.

9.2. Così come riguardano la bomba pensioni (oggetto di una campagna mediatica in simultanea in tutto il mondo occidentale), lamentata in un sistema che, all'opposto di quello italiano, si basa sul settore privato finanziario-assicurativo ma che, di fronte all'equilibrio della sotto-occupazione e alle crescenti insolvenze derivanti dalle sperequazioni retributive, è in una crisi tutta all'interno del "credibile" universo della finanza  privata. La quale, prima causa gli squilibri generazionali di massa, avendo drenato le risorse attraverso un sistema (deflazionista-salariale) di consumi dove domina il debito privato (su credito erogato a interessi reali positivi), e poi, però, (questa stessa finanza privata), si trova spiazzata quando deve erogare le prestazioni pensionistiche su aspettative di vita crescenti (sventura cui rimediare smettendo...di curare i malati). 
E tutto questo, mentre il giogo deflattivo - volto a raggiungere rendimenti reali positivi in condizioni di politiche fiscali costantemente restrittive, cioè sobriamente deflazioniste -, pone i rendimenti nominali non solo a livelli modesti (senza precedenti) ma persino a rischio didefault degli investimenti finanziari e immobiliari sottostanti: "Visualizing The Pension Time Bomb: $400 Trillion By 2050". 
Insomma, il sistema finanziario privato, negli USA anzitutto, ma contagiando l'€uropa (fate presto!), vuole tutto gestire, e su tutto guadagnare interessi reali positivi; ma quando si tratta di assolvere a ciò che costituisce l'obbligo di "restituzione" contrattualizzato, preferisce dichiarare l'insolvenza, estinguere i contratti divenuti troppo onerosi, (o modificare retroattivamente le leggi troppo...generose) e caricare sugli Stati il peso delle perdite. "Il banco vince sempre".

10. Ma le cose paiono doversi mettere male anche se si mandassero in miseria, come comunque sta già accadendo, le masse precarizzate e impoverite dei lavoratori che aspirerebbero a una pensione
Infatti, prima ancora che si giunga alla fatidica soglia del pensionamento, il sistema finanziario dei consumi a debito innesca, sempre nel simpatico mondo dell'equilibrio della sotto-occupazione e della deflazione salariale di massa, insolvenze a catena a livelli vertiginosi; vere e proprie bolle che, da sole, bastano a prefigurare un mondo in recessione al loro scoppio: 
Quando parliamo delle sofferenze nelle banche italiane, causate dalle dosi di "risanamento e promozione della crescita" secondo la via dell'austerità (mercantilista), non dimentichiamo chequesta è la situazione di esposizione sui sub-prime (trasformati in derivati che circolano allegramente over the counter nei sistemi finanziari globalizzati) delle più importanti banche americane:
  • Wells Fargo: $81 billion, up from $13.4 billion in 2010
  • Citigroup: $30 billion, up from $4.1 billion in 2010
  • Bank of America: $30 billion, up from $2.8 billion in 2010
  • JP Morgan: $28 billion, up from $10.4 billion in 2010
  • Goldman Sachs: $22 billion
  • Morgan Stanley: $16 billion
11. Che dire?
Vi pare che un qualsiasi governo, anche, e specialmente €uro-continuista, che potesse formarsi in Italia, potrà limitarsi a dover interpretare le parole di Draghi facendo finta di nulla, cioè continuando a credere che il "sottile" €-mercantilismo sia pacifista e cooperativo, e possa indefinitamente contare sulla domanda altrui, mentre la crescente probabilità dello scoppio delle bolle accumula tutta la sua potenza esplosiva, e socialmente destabilizzatrice?
Eppure, a leggere i nostri giornaloni e a sentire i talk dove gli espertologi, in compatte e collaudate "compagnie di giro", si lamentano di populismo e protezionismo, parrebbe che il tic-tac sempre più forte di questa bomba globale a orologeria non si senta proprio...

Fonte: qui

That Central Banker Pill Didn’t Cure The Economy And Now We’re Stuck With The Consequences

“the consequences of “take a pill” thinking- run-away debt creation, bad policies, excessive spending, and currency unit devaluations…”
Headache? Muscle ache? Back ache? Take a pill! An over-the-counter pill will diminish the symptoms and pain. The consequences will come later.
High cholesterol? Take a pill. There are other ways to reduce cholesterol but none that produce $ billions for Big Pharma. Consequences to your body and finances will manifest in other ways.
High Blood Pressure? Take a pill. There are other means to lower blood pressure, but none that produce $ billions for Big Pharma. Side effects may require other drugs, which will also have side effects.
Economic sluggishness? Take a pill – an extra-large dose of Quantitative Easing. There are other ways to stimulate the economy, but QE bailed out banks at taxpayer expense, increased banking profits, expanded debt, printed $16 trillion from “thin air” and levitated the stock market.
Economic Side effects: Pension funds are increasingly insolvent, savers don’t earn a decent return from savings, official debt exceeds $21 trillion, a potential derivative disaster looms ahead, and more dangers will manifest in coming years.

CONSEQUENCES OF “TAKE A PILL” THINKING
  • If an individual has broken his leg, massive doses of OxyContin may remove the recognition of pain, but it does nothing to heal the broken leg. Treat causes, not symptoms!
  • If an individual has high blood pressure caused by any of a dozen life-style or diet choices, a pill may reduce blood pressure, but it doesn’t correct the imbalances that created the high blood pressure.
  • The government and Federal Reserve have created too much debt. It can’t be paid with current dollars. Adding more debt is NOT a solution to an excessive debt problem, but that is the preferred choice of governments and central banks.
  • Treating symptoms does not solve problems. Temporary pain may disappear, but at what future cost?
  • Legislation usually treats symptoms. An affected group could be farmers, cotton growers, ranchers, public employee unions, other organizations, or any ethnic or racial group. The result: more bureaucracy, more social programs, increased taxes, and less productivity.
“Nothing lasts longer than a temporary government program.”
MORE EXAMPLES:
The decade of the 1960s introduced new problems to the American public. Many were direct consequences of the excessive spending on President Johnson’s “guns and butter” programs. He escalated the Vietnam War at a massive cost while increasing social programs. (Sound familiar?)
“Take a pill” thinking encouraged government to spend a fortune on war and social programs and face the consequences later. Foreign nations converted dollars to gold per the Bretton Woods treaty. Instead of correcting the imbalances and spending responsibly, President Nixon did his version of “take a pill” and decreed the U.S. would no longer redeem dollars from foreign nations with gold. The consequences included the huge consumer price inflation of the 1970s, interest rates spiking into the teens in 1980, a stagnant stock market from 1965 until the early 1980s, and much social anguish.
Consequences always arise from actions. “Take a pill” thinking pretends actions are disconnected from consequences, but “the piper must be paid.”
  • What are the consequences of central banks creating $20 trillion in digital currency units from “thin air?”
  • What are the consequences of the Swiss Central Bank creating billions of Swiss Francs to buy American stocks?
  • What are the consequences of Japanese government debt exceeding 250% of their GDP?
  • What are the consequences of debt increasing more rapidly than GDP and government revenues?
THOUGHTS ON CONSEQUENCES:
  • If debts cannot be paid, they will not be paid. That will cause massive defaults or huge currency inflation to pretend to pay the debts. Either alternative creates a currency crisis and devalued dollars, euros, yen, and pounds.
  • If debt increases more rapidly than revenues, debt service will eventually dominate spending. What comes then? Confiscation of private assets? Negative interest rates? Higher taxes? Sovereign default? A distracting global war? Read Shelter From The Storm?
  • Because “take a pill” thinking treats symptoms and not causes, the structural problems in the economy, government and foreign policy will not be resolved. The American public will dislike the consequences.
  • The U.S. economy runs on debt and credit. If debts aren’t paid, credit disappears. If credit weakens, as in 2008, confidence and trust vanish and the economy slows or collapses.

A run-away train will crash. Will out-of-control spending and run-away debt create a different result?

  • The ugly consequences of decades of bad policy, excessive spending and “take a pill” thinking will not smash us in the face next week, but they will arrive.
  • Prepare for the consequences of “take a pill” thinking. A currency crisis will cause devalued currencies. Gold and silver will help protect your savings and assets.
  • A debt default will devastate many debt-based assets. Your debt is someone’s asset only if you can pay. If you default, the asset is worth much less. Gold and silver have no counter-party risk.
  • Many governments survive only by borrowing each year. When the music stops, those who prepared and faced unpleasant truths will fare better.
Be wary of the consequences of “take a pill” thinking, run-away debt creation, bad policies, excessive spending, and currency unit devaluations. Do your due diligence, and protect your savings and retirement with real assets such as precious metals.

MIOPIA E PRESBIOPIA

Fiduciosi nel breve o preoccupati nel medio?

Nel mondo del trading algoritmico un minuto è già lungo termine. Per il trader umano il breve termine finisce il venerdì sera e la settimana successiva è avvolta nella nebbia, perché nel fine settimana tutto può succedere. L’investitore medio è uomo senza principi, porta subito a casa un piccolo profitto se questo è veloce e gratificante e trasforma in scelta strategica tutto quello su cui perde.

L’investitore istituzionale, dal canto suo, è mentalmente più strutturato ma sa che la lungimiranza (richiesta dal buon senso e dalle autorità di vigilanza, che lo vorrebbero orientato su orizzonti lunghi) mal si concilia con l’abitudine di alcuni clienti di spostare i loro soldi da un gestore all’altro a seconda dei risultati dell’ultimo trimestre o mese. E quindi guai a essere in anticipo, meglio essere in ritardo. Chi nel 2006 avesse esibito un portafoglio prudente (privo di azioni e pieno di bond sicuri a lungo termine) avrebbe perso almeno la metà dei clienti (che restando investiti in azioni avrebbero poi perso più della metà dei loro soldi due anni dopo).

L’investitore istituzionale passa le sue giornate incollato ai monitor e la notte dorme con un occhio aperto che segue incessantemente i mercati asiatici. La sua agilità sembrerebbe infinita, ma lo è in realtà quando è meno necessaria. Nei momenti decisivi, al picco o al minimo di un ciclo, le sue mani sono legate dal Value at Risk, quel sistema di misurazione del rischio che impone di ridurre il portafoglio quando la volatilità è massima (tipicamente agli estremi del ciclo). Va poi ricordato che, mentre comprare bene ai minimi è relativamente semplice (gli spread tra denaro e lettera sono ampi, ma i venditori si trovano), vendere bene ai massimi è questione di fortuna. Se si è in ritardo di un attimo in un mercato che sta iniziando a crollare e si ha tanto da vendere perché si è grossi si rischia seriamente di non trovare compratori e di fare scendere ulteriormente i prezzi di quello di cui ci si vuole disfare.

Per questo, soprattutto per chi maneggia tanti soldi o ha investimenti poco liquidi, ha perfettamente senso chiedersi oggi se sia meglio mettere a fuoco la probabile ripresa dei mercati in questo 2018 (con possibile estensione al primo trimestre del 2019) o se sia invece opportuno sintonizzarsi sulle onde lunghe e prepararsi per tempo al prossimo bear market, che potrebbe arrivare più avanti, forse già nel 2019 o nel 2020

Meglio rischiare di essere miopi o rischiare di essere presbiti?
Prima di provare a rispondere dobbiamo però argomentare le due ipotesi, quella positiva per quest’anno e quella negativa per il medio termine.

Cominciamo da questo 2018, cui è toccato vivere in ritardo la correzione fisiologica autunnale che non c’è stata nel 2017 perché bloccata dalle aspettative sulla riforma fiscale americana. Bene, la riforma l’abbiamo avuta ed è stata anche migliore delle attese. Ma il festeggiamento è durato un anno e ha portato a un apprezzamento del 25 per cento della borsa di New York, una bellissima ciliegia su otto anni di rialzo azionario. Il culmine dei festeggiamenti ha coinciso con un’ondata globale di sorprese positive dall’economia reale in una fase di inflazione ancora innocente.
Dopo un 2017 trionfale e privo di volatilità una correzione ci sarebbe stata comunque. Se a questo aggiungiamo la ripresa dell’inflazione, il rialzo dei tassi e una serie di delusioni macro un po’ dappertutto (inevitabili dal momento che si partiva da ipotesi di perfezione) la correzione ha conquistato piena legittimità.

Ma non basta, perché nelle ultime settimane si sono presentate nuove complicazioni. Parliamo dell’aumento del disavanzo pubblico americano, del disincanto sulla tecnologia come motore di crescita perpetua, dei venti di guerra commerciale e dei venti di guerra vera e propria in Medio Oriente. Di fronte a questi notevoli ostacoli i mercati si sono in realtà comportati piuttosto bene e non manca chi dice che la correzione partita a fine gennaio ha ancora bisogno di un’ondata di paura più seria di quelle che abbiamo visto fin qui perché si possa finalmente parlare di mercati ripuliti e pronti a riprendersi. Vedremo se ci sarà davvero bisogno di questa ultima scrollata, ma al momento possiamo già dire che molte delle paure che hanno percorso la correzione si sono rivelate eccessive e premature. L’inflazione è certamente in crescita, ma non alla velocità di gennaio (spinta dall’euforia seguita al taglio delle tasse). I tassi a lungo, dopo la paure iniziali, sono addirittura scesi. La riluttanza del Congresso ad attaccare la tecnologia e la buona performance di Zuckerberg hanno allontanato il timore immediato di misure penalizzanti per il settore. Le misure distensive cinesi sul fronte commerciale hanno fatto pensare a uno scontro su due livelli, il primo, molto aggressivo, per l’opinione pubblica americana e cinese e il secondo, concreto e operativo, nei negoziati dietro le quinte.

Resta la Siria, dove si parte da un casus belli, un attacco chimico pochi giorni prima del ritiro americano, cui si preannuncia una risposta dove non sono chiari gli obiettivi politici (Assad? Russia? Iran?). Probabilmente si tratterà di una risposta forte ma circoscritta, ma non si possono escludere del tutto complicazioni. In ogni caso, per porre davvero fine alla correzione i mercati aspetteranno la conclusione della vicenda.

Avendo scontato la perfezione a gennaio e una serie sorprendentemente numerosa di problemi in questa correzione i mercati saranno pronti per un atteggiamento più equilibrato e per una cauta e lenta ripresa durante l’estate e l’autunno. Le elezioni di novembre in America saranno un passaggio delicato, ma il nuovo Congresso si insedierà a fine gennaio e il 2018, se gli utili confermeranno le attese, si potrà concludere con segno positivo.
Più avanti, tuttavia, una serie di nodi strutturali comincerà a venire al pettine. Anche se l’intenzione delle banche centrali è di tollerare una certa quantità di inflazione i tassi continueranno a salire. Si cercherà tutti quanti di restare dietro la curva e di mantenere i tassi reali vicini a zero, ma la possibilità di un rialzo di troppo diventerà sempre più concreta. La liquidità, dal canto suo, continuerà a calare e per i titoli di debito ci saranno più offerta e meno domanda.
Va poi tenuto d’occhio il consumatore americano, che non può spendere molto di più a meno di non andare a risparmio negativo, mentre l’Europa dovrà continuare a digerire il rialzo dell’euro e la Cina completerà il suo lavoro di pulizia dopo la grande spinta alla spesa nel 2017 e prima di quella ancora più grande che si preannuncia per il 2021, centenario del partito.
Si noti che un bear market non ha sempre bisogno di una recessione o di un incidente finanziario. Possono essere sufficienti, se si viene da altezze elevate, una crescita debole e la prospettiva di utili piatti da scontare con tassi in continua crescita, soprattutto se in un ambiente di liquidità calante.
Godiamoci dunque, augurandoci che ci sia, il recupero che si preannuncia per i prossimi mesi, ma cominciamo a entrare in un ordine di idee per cui si vende su rialzo più di quanto non si compri su ribasso, dando la precedenza, quando vendiamo, ai titoli meno liquidi. A meno, ovviamente, di non decidere di non preoccuparsi per il bear market che verrà (e che non sarà una ripetizione del 2008) e guardare davvero al lungo termine.


Fonte: qui