I teorici delle magie dell’intervento governativo nell’economia guarderanno alla scarsa propensione delle imprese industriali italiane all’investimento come la conferma pratica della loro necessità teorica. Sostengono, costoro, la facilissima equazione secondo la quale poiché il privato equivale al pubblico, almeno per la contabilità nazionale, se i privati non investono, deve farlo lo stato. E via col fiorire di litanie vagamente superstiziose sugli investimenti “ad alto moltiplicatore” che dovrebbero insieme risanare la nostra economia e il nostro bilancio pubblico, visto che “si ripagano da soli” e anzi “generano crescita che abbatte il debito”. Contro questo armamentario di luoghi comuni, che farebbe inorridire anche l’inventore di questi argomenti, c’è poco da fare. Fanno parte dello spirito del tempo e sono la consolazione di chi non capisce (o non vuole capire) che la fiducia è argomento troppo serio perché se ne occupino gli economisti, specie quando sono al governo. Costoro dovrebbero farci tornare la voglia di investire, che significa credere che possiamo impiegare le risorse di cui disponiamo e persino guadagnarci qualcosa. O quantomeno disabituarci all’idea che qualunque cosa accada ci penserà lo stato. Perché non fa solo diminuire la fiducia nel guadagno che deriva dal nostro impegno. Ma anche in noi stessi.
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