Come in ogni crisi che si rispetti (o che stia per arrivare), ecco giungere proposte finalizzate a tassare la ricchezza degli italiani attraverso l’introduzione (o l’inasprimento) di imposte patrimoniali.
Con la crescita economica che arranca, il bilancio statale in cronica difficoltà è necessario  ottenere gettiti fiscali aggiuntivi. Quindi, cosa di meglio di una bella  imposta patrimoniale? dicono. 
Dei cinque rischi capitali dei quali da anni si parla in questo blog, trovo che l’imposta  patrimoniale sia quello che presenta maggiori maggiori difficoltà  applicative, sia a causa degli aspetti tecnici, sia a causa della  sostenibilità politica di un’imposta del genere, che tuttavia piace e  viene evocata da molte parti politiche.
Di seguito vi propongo un  mio ultimo lavoro che riprende e aggiorna i precedenti contributi. Si  tratta di un articolo pubblicato su Investors’ mese di maggio.
Quando  si parla di imposta patrimoniale, la mente tende a correre al lontano  1992, quando l’allora Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, durante  la notte, operò un prelievo una tantum del 6 per mille sulle giacenze  dei conti correnti.
Benché in forme differenti rispetto al  1992, imposte patrimoniali sono  già presenti nel nostro ordinamento  tributario e si chiamano principalmente IMU e Imposta sostitutiva sulle  attività finanziarie; ma ne esistono anche altre minori. Al netto delle  modalità censurabili con cui venne effettuato il prelievo dai conti,   a  differenza della patrimoniale di Amato del 1992, quelle attuali sono  addirittura più invasive poiché, essendo strutturali, colpiscono  periodicamente le attività possedute in forma di patrimonio immobiliare e  attività finanziarie (conti correnti, fondi comuni, dossier titoli  ecc). Scopo di questo articolo è quello di cercare di capire in che modo  si potrebbe essere colpiti da un’imposta patrimoniale e quali sono le  attività più esposte a questo rischio.
Quindi, cerchiamo di capire  quali difficoltà potrebbero riscontrarsi nell’applicazione di una  simile imposta.  
Preliminarmente, va osservato che il governo potrebbe contare su un ”extragettito”, semplicemente inasprendo il prelievo fiscale sulle imposte patrimoniali già in essere.
Ciò potrebbe esser fatto agevolmente alzando le aliquote del prelievo sia per l’IMU, che per l’imposta sostitutiva sulle attività finanziarie.
Nel caso dell’IMU, inoltre, per ottenere lo stesso risultato, ad aliquote immutate , sarebbe sufficiente una rivalutazione degli estimi delle proprietà immobiliari, tali da attribuire agli immobili un valore superiore, aumentando così la base imponibile da colpire e favorendo quindi un aumento di gettito.
Questa soluzione, per quanto di facile applicazione,  presenterebbe comunque delle controindicazioni delle quali il Governo  dovrebbe tenerne conto, almeno si spera.  Innanzitutto, nel pensare ad  un eventuale inasprimento del prelievo fiscale relativo alle imposte  patrimoniali già presenti, non si potrebbe non tenere in considerazione  gli effetti che questo determinerebbe  alla luce del quadro  congiunturale decisamente debole,  dopo un lungo periodo di recessione,  che ha colpito duramente il reddito delle famiglie italiane (Figura 1).

Figura 1: Il Grafico mostra l’andamento dei redditi reali nei vari paesi considerati, ponendo come base 100 i redditi nell’anno 1995.
Come si osserva i redditi degli italiani sono precipitati ai livelli del 1995 e nessuno dei paesi considerati vanta un prima così negativo. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Eurostat.
Si consideri che, un eventuale  aumento dell’imposizione, per quanto limitato che sia, andrebbe a  colpire il reddito disponibile delle famiglie, e pertanto  produrrebbe   una ulteriore contrazione dei consumi e quindi aggraverebbe anche il  ciclo economico, già per nulla brillante.  
Questo, inoltre, potrebbe comportare una diminuzione più o meno marcata della capacità di rimborso dei mutui al sistema bancario, impattando sugli istituti di credito che, a quel punto, si troverebbero nella condizione di dover esporre ulteriori sofferenze potenzialmente idonee ad abbatterne il patrimonio, aggravando così una situazione già complessa (confronta Investors’ n. 1).
In tal senso, ad esempio, un aumento della struttura impositiva dell’IMU (realizzata attraverso un aumento delle aliquote o anche attraverso una rivalutazione della base imponibile), rischierebbe di essere troppo severo o addirittura insostenibile per coloro che non dispongono di una capacità di reddito adeguata per poter sopportare un esborso aggiuntivo rispetto a quanto pagato in ragione alle regole attuali.
Tutt’altro ragionamento potrebbe esser osservato in caso di aumento delle aliquote patrimoniali sulla ricchezza finanziaria, ossia quella ricchezza investita in titoli, obbligazioni, azioni, fondi comuni ecc. In questo caso, benché sia già prevista una imposta sostitutiva dello 0,20%, ciò che rende possibile un ulteriore inasprimento dell’imposizione fiscale, risiede proprio nella natura dell’investimento stesso. E cioè, il fatto che questo sia “immobilizzato” e quindi potenzialmente escluso dal soddisfacimento diretto dei bisogni, e quindi dal sostenimento del ciclo economico attraverso la spesa di parte delle risorse investite.

Figura 2: La tabella riporta i dati relativi alle attività reali delle famiglie italiane nell’anno 2013. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca d’Italia.
Veniamo ora alla ricchezza finanziaria, quantificata in 3897 miliardi di euro, tentando di comprendere in che modo potrebbe essere interessata da un’eventuale imposizione patrimoniale.

Figura 3: La tabella riporta i dati relativi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane nell’anno 2014. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca d’Italia
Per il ragionamento sopra esposto, quindi, escludendo le componenti sopra descritte, la ricchezza che rimarrebbe rilevante ai fini di un imposizione patrimoniale, per lo più in forma liquida, sarebbe poco più di 2000 miliardi come è possibile desumere dalla figura n. 4.

Figura 4: La tabella riporta i dati relativi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane nell’anno 2014, a parere dell’autore “facilmente” tassabile con imposte patrimoniali straordinarie. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca d’Italia.
A rigor di logica, da questo stock di ricchezza finanziaria così determinata, dovrebbero essere scomputate le passività che ammontano a circa 912 miliardi di euro, restituendo un imponibile tassabile di circa 1100 miliardi di euro. Riducendo la base imponibile da colpire, il pericolo è proprio quello che l’azione dello Stato, a parità di gettito atteso, possa concentrarsi su patrimoni molto più piccoli e quindi colpire in maniera indiscriminata anche una platea diffusa di piccoli risparmiatori. Infatti, tenuto conto che i depositi bancari e postali si avvicinano, già di loro, alla soglia dei 1000 miliardi, ciò significa che questi sono distribuiti su tutto l’universo dei risparmiatori italiani, piccoli compresi. Giova ricordare che in Italia vige un sistema di garanzia dei depositi di conto corrente fino a 100 mila euro, che dovrebbe quantomeno escludere prelievi straordinari fino a tali somme, riducendo ulteriormente la base imponibile da colpire. Ma su questo, personalmente, nutro qualche dubbio e comunque, dipende dagli obbiettivi di gettito prefissati dallo stato, e soprattutto dallo stato di bisogno.
In altre parole, proprio perché sono risorse investiste in attività finanziarie, in un certo qual modo, sfuggono dalla disponibilità del titolare e quindi anche dalla possibilità di spesa, seppur con le dovute eccezioni del caso. Il risparmiatore, nel sostenimento delle proprie spese, difficilmente intaccherà le risorse investite in strumenti finanziari anche se, in questa crisi, ciò potrebbe essere parzialmente smentito, poiché sempre più frequente sembra essere il ricorso all’utilizzo di risparmi per integrare o sostituire un reddito che si è contratto o è venuto meno per effetto della crisi. Quindi, in teoria, il governo potrebbe intervenire per inasprire l’imposizione sulla ricchezza finanziaria, senza con ciò determinare, in maniera proporzionale, una diretta diminuzione dei consumi.
Ma anche una  simile impostazione potrebbe risultare del tutto discriminante per  talune categorie di investimenti o di cespiti, che potrebbero essere  oggetto di imposizione. Si pensi, ad esempio, a due risparmiatori che  dispongono entrambi di un patrimonio di 500.000 euro e che uno di questi  abbia investito i propri risparmi in fondi comuni o titoli, mentre il  secondo acquistando un immobile. Ebbene, nel primo caso, operare un  prelievo a fronte dell’entità del patrimonio, risulterebbe di agevole  portata poiché basterebbe aumentare l’aliquota di imposizione e  la  società di gestione del fondo comune o l’intermediario finanziario  provvederebbe immediatamente ad operare la ritenuta, anche vendendo  titoli per crearsi la liquidità necessaria al pagamento dell’imposta.  Analogo ragionamento potrebbe essere svolto nel caso di azioni o  obbligazioni in custodia su un dossier titoli intrattenuto presso  qualsiasi banca. La quale banca, in questo caso, addebiterebbe l’importo  dell’imposta sul conto corrente agganciato.
E nel caso non  si  dovesse disporre della liquidità necessaria al pagamento dell’imposta,  che si fa? In estrema ratio, si potrebbe comunque vendere dei  piccoli  quantitativi di titoli ed integrare il saldo del conto corrente, in modo  da poter consentire alla banca di operare il prelievo necessario al  pagamento dell’imposta. Una soluzione simile a quella appena descritta,  potrebbe comunque avere delle controindicazioni soprattutto nel caso in  cui dovessero essere introdotte delle patrimoniali straordinarie o una  tantum; ma di questo parleremo a breve.
Come dicevamo, il discorso si complica, e non poco, nel caso di immobili. Il risparmiatore che ha investito le sue disponibilità, magari prosciugandole, nell’acquisto di un immobile avvenuto in tempi più favorevoli, oggi potrebbe trovarsi nella condizione di non poter provvedere al pagamento dell’imposta patrimoniale, magari aumentata rispetto alle aliquote attuali. In questo caso, il contribuente in esame, non potrà certamente vendere una frazione dell’immobile per poter provvedere all’obbligazione tributaria. E ciò per evidenti ragioni. E in questo caso, cosa si potrebbe fare?
A questo interrogativo, al momento, non è stata fornita alcuna risposta a mio avviso praticabile. A meno che non si facciano suonare le trombe della cavalleria e, attraverso l’ente di riscossione (Equitalia), si aggredisca il patrimonio del contribuente. Ma questo, a parer di chi scrive, cozzerebbe con gli elementi cardine di uno stato democratico e di una economia avanzata: ossia la tutela del risparmio e della proprietà privata, peraltro prevista costituzionalmente.
Inoltre, l’immobile  acquistato potrebbe essere assistito da ipoteca a fronte del mutuo  contratto per l’acquisto; quindi una passività. E’ evidente che, dal  punto di vista del contribuente, è del tutto legittimo considerare a  scomputo del valore del cespite da colpire con imposta anche le  passività finanziaria a fronte dell’acquisto, e quindi l’eventuale  mutuo. Aspetto, questo, che avrà comunque una marcata rilevanza in caso  di applicazione di imposte  a carattere straordinario, poiché, queste,  verosimilmente, oltre ad impattare in modo più significativo,  sconterebbero aliquote progressivamente più alte in ragione del  patrimonio posseduto. 
Quindi, nel rispetto di elementari ed intuibili principi di equità, sarebbe discriminante colpire in maniera identica due patrimoni, nel caso in cui uno di questi risulti assistito da un mutuo (quindi una passività), ancorché esprimano identici valori patrimoniali. In buona sostanza, se così fosse, verrebbe confermata l’attuale impostazione dell’IMU che, come noto, colpisce il “valore” degli immobili a prescindere dall’eventuale passività (mutuo) in capo all’immobile stesso, rendendo l’imposta profondamente iniqua.
Senza dimenticare, poi, che un ulteriore inasprimento dell’imposizione tributaria sugli immobili, causerebbe nefaste conseguenze anche sul valore, deprimendolo ulteriormente. Circostanza, questa, che non esaurirebbe i suoi effetti solo in capo al proprietario dell’immobile, che, a quel punto, si vedrebbe diminuire il valore dell’immobile; ma produrrebbe effetti pericolosi anche nel mondo bancario attraverso la diminuzione dei valori posti a garanzia di eventuali mutui, con conseguenze del tutto immaginabili.
Come abbiamo visto sin qui, un inasprimento della imposizione patrimoniale presenta numerose difficoltà applicative, soprattutto se si dovesse agire nel rispetto dei principi di equità che dovrebbero essere comunque garantiti ed imprescindibili.
Alle imposte patrimoniali presenti nel nostro  ordinamento,  sebbene abbiano carattere strutturale e quindi ripetute  negli anni,  tutto sommato, appartiene la caratteristica della  sostenibilità in termini di possibilità da parte del contribuente di  poter adempiere all’obbligazione tributari; benché in un contesto di  deterioramento delle capacità reddituali e di evidenti difficoltà,  soprattutto in alcuni strati della popolazione. L’applicazione di una  imposta patrimoniale straordinaria, troppo spesso impropriamente evocata  da parte dei nostri politici, verosimilmente,  viene pensata  sulla  base di un feroce inasprimento delle aliquote impositive, tale da  poter  utilizzare il gettito straordinario per abbattere in modo proporzionale  il debito pubblico di  qualche centinaio di miliardi. Senza addentrarci  nei numeri che, a parer di chi scrive, smentiscono (almeno in via di  principio) le aspettative di gettito auspicato dai vari politici che  evocano l’introduzione di una patrimoniale straordinaria, vediamo come  possono complicarsi le cose nel caso che questa imposta venga  effettivamente introdotta. Andiamo con ordine.
E’ evidente che l’eventuale applicazione di una imposta patrimoniale feroce e magari progressiva, dovrebbe quantomeno considerare non solo i patrimoni facilmente colpibili come nel caso delle imposte già in vigore, ma l’intera ricchezza del soggetto o del nucleo famigliare a cui l’imposta è rivolta. E ciò per evidenti ragioni di equità impositiva, secondo cui chi più possiede più paga in termini di imposta. E quindi, cosa comprendere? Cosa potrebbe essere considerato nella definizione di patrimonio?
Sicuramente gli immobili, anche perché offrono un’ ottima base imponibile che, tuttavia, dovrebbe quantomeno essere abbattuta delle passività (mutui) . Certamente anche il patrimonio mobiliare (azioni, titoli, obbligazioni, depositi ecc ecc). Ma, oltre questa ricchezza, peraltro già ampiamente tassata, cos’altro potrebbe essere considerato nella definizione di patrimonio del contribuente?
E qui, potremmo sbizzarrirci con tutto ciò che possa costituire asset suscettibile di valutazione economica, purché visibile ed individuabile dal fisco. Ecco quindi che potremmo considerare il valore della partecipazione ad una società ancorché non quotata, il valore della nostra impresa, o una barca, un’automobile, e quant’altro possa essere individuato e definibile nella sua dimensione patrimoniale.
Sicuramente, l’estensione delle tipologie di assets a cui applicare l’imposta patrimoniale, oltre ad offrire una base imponibile tanto più ampia quanto più estese saranno le specie e i volumi di patrimonio considerati, tenderebbe a favorire il rispetto di elementi di maggior equità. Tuttavia, qui emergerebbero fin da subito le prime difficoltà applicative. Innanzitutto, non sempre ciò che costituisce un valore patrimoniale è ben identificabile ed individuabile da parte del fisco. Si pensi, solo per citare alcuni esempi, a dei quadri di valore, a delle opere d’arte, a vasi antichi, o una collezione di arazzi. Questi, in genere, sono beni che talvolta possono rappresentare dei grandi valori, ma difficilmente intercettabili da parte del fisco, poiché raramente censiti e quindi conosciuti all’anagrafe tributaria nella dimensione patrimoniale (valore) e nella sua collocazione. Ma questi, non sono gli unici valori patrimoniali che potrebbero sfuggire all’interesse del fisco.
Si pensi, ancora, al denaro contante, a monetati aurei, a lingotti in oro o altri metalli preziosi, detenuti anche fuori dal perimetro bancario.
Ecco quindi che,  in questi casi, risulta impossibile che il fisco possa colpire beni di  cui non ne conosce il valore e soprattutto la collocazione. A meno che  lo stato non obblighi il contribuente a produrre una dichiarazione  patrimoniale dalla quale emerga anche le ricchezze non note al fisco.
Ragionando invece su altre tipologie di patrimoni quali, ad esempio, aziende, quote di partecipazione in società, o più semplicemente una piccola impresa individuale, si porrebbe il problema di attribuire un valore a queste attività, che tenga conto di moltissime variabili e fattori, attraverso i quali, tuttavia, non sempre si riesce a valorizzare in maniera pertinente l’esatto valore di questi patrimoni. E ciò, neanche attraverso apposite perizie effettuate da professionisti. Il rischio, quindi, è proprio quello di subire una valorizzazione amministrativa da parte dello Stato attraverso delle procedure che, in maniera più o meno arbitraria, possano valorizzare determinati attivi. Ecco quindi che l’applicazione di imposte patrimoniali straordinarie incorpora molteplici difficoltà che tendono ad aumentare anche in ragione al gettito che si vorrebbe ottenere.
Alcuni esponenti politici, nel  recente passato, hanno addirittura evocato una tassa patrimoniale di 400  miliardi di euro, destinata alla riduzione del debito pubblico ( Si  confronti, ad esempio, LInkiesta del 24 febbraio 2014  linkiesta.it).  
Per comprendere se è possibile estrarre un gettito così rilevante dalla  ricchezza degli italiani,  è opportuno considerare qualche numero  fornito dalla Banca d’Italia, nel suo ultimo rapporto sulla ricchezza  delle famiglie italiane.
Secondo la Banca d’Italia la ricchezza degli italiani è così costituita:
Attività reali 5.848 miliardi
Attività finanziarie 3.793  miliardi
Passività 912 miliardi.
Le prime due macro classi di attività, dedotte dalle passività, costituiscono la ricchezza netta degli italiani, che quindi viene quantificata in euro 8.477 miliardi di euro.
Il dato, essendo  multiplo di oltre quattro volte lo stock di debito pubblico, fa un po’  impressione e suscita l’interesse di chi vorrebbe che, almeno parte di  questa enorme ricchezza, possa essere utilizzata per abbattere il debito  pubblico confinandolo entro volumi di maggio sostenibilità.
Più in dettaglio, osservando i dati riportati nella figura n. 2 (Le attività reali delle famiglie italiane) si desume che la parte prevalente della ricchezza è costituita da abitazioni, già ampiamente tassata con l’IMU o con altre imposte minori (ma non marginali). Gli oggetti di valore, essendo per lo più costituiti da beni non registrati (preziosi, oggetti di antiquariato, d’arte e da collezione), come abbiamo detto, sfuggono dalla possibilità di poter essere tassati, per il semplice fatto che il fisco non potrà mai tassare ciò di cui non ne conosce la collocazione e quindi la proprietà.
I fabbricati non residenziali e i terreni, sono anch’essi già tassati. Mentre gli impianti e i macchinari, attrezzature e avviamenti (capitale fisso), rientrando prevalentemente nelle disponibilità delle imprese per l’esercizio delle proprie attività, non potrebbero essere tassati, poiché ciò graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile. Quindi, la parte di ricchezza effettivamente tassabile e che desta l’attenzione da parte del fisco è costituita dai 5 miliardi delle abitazioni, peraltro già ampiamente tassata. In sintesi, da questa ricchezza, è pressoché impossibile estrarre rilevanti gettiti tributari rispetto a quelli già ottenuti dalla tassazione in vigore.
In  questa categoria di ricchezza sono ospitate un numero di  attività che,  l’analisi prodotta da Bankitalia, sostanzialmente, scompone come  riportato nella figura n. 3.
Molta materia imponibile da colpire  con un’imposta patrimoniale feroce,  si direbbe! Ma le cose non stanno  esattamente in in questi termini. Vediamo perché.
Prima di tutto occorre scomputare il denaro contante: tassare il contante, fino a quando questo rimane tale, è un esercizio impossibile da praticare.
Non  deve sorprendere, infatti, che sempre più spesso si sente dire che il  mondo politico sarebbe favorevole ad una progressiva abolizione del  denaro contante. Ciò perché, per obbligo normativo, questo verrebbe  depositato in banca e quindi diverrebbe individuabile da parte del  fisco, facendo emergere materia imponibile da colpire.
Esistono inoltre altre categorie di attività che, sebbene parzialmente note al fisco, tassarle con un’imposizione patrimoniale, risulterebbe abbastanza difficile e soprattutto rischierebbe di fare più danni che altro. E’ il caso, ad esempio, dei crediti commerciali. Tassare un credito vantato da un’azienda, benché tecnicamente possibile -obbligando ogni impresa a rendere noti al fisco i rispettivi crediti commerciali attraverso apposita comunicazione- appare poco ortodosso, oltreché distruttivo. E poi, è evidente che al credito di un’azienda, corrisponda un debito di un’altra azienda. Siccome sarebbe ragionevole attendersi che il credito possa essere scomputato dal debito, alla fine, la base imponibile sarebbe comunque limitata e un’eventuale imposizione patrimoniale, anche in questo caso, graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile.
Discorso del tutto simile può essere osservato per le riserve assicurative. Anche queste potrebbero essere tassate, ma non senza difficoltà, contraddizioni, e non senza arrecare più danni che guadagni. L’applicazione di una imposta patrimoniale feroce, verosimilmente, andrebbe a colpire anche i fondi pensione e i fondi assicurativi, verso i quali un numero non del tutto indifferente di risparmiatori hanno riposto le speranze per ottenere l’integrazione pensionistica, al fine di integrare (o sostituire) la pensione erogata dai vari enti previdenziali.
Sotto questo punto di  vista, le scelte del governo volte all’applicazione di una imposta  patrimoniale straordinaria, contrasterebbero con le politiche di welfare  e con le varie riforme pensionistiche varate negli ultimi 10/15 anni, o  forse più. Al riguardo, vale la pena ricordare che tali politiche hanno  impresso uno stimolo allo sviluppo di forme pensionistiche alternative,  capaci di integrare i flussi  finanziari del risparmiatore in età  pensionabile, al fine di arginare la progressiva diminuzione delle  prestazioni garantite dai veri enti pensionistici. Non un problema da  poco, direi
Anche la ricchezza riconducibile alle partecipazioni  in società di capitali non quotate (circa 562 miliardi di euro) o alle  partecipazioni in società di persone o quasi società (circa 211 miliardi  di euro) è di difficile imposizione poiché, essendo questa  una  ricchezza riconducibile essenzialmente a partecipazioni in piccole  società che non hanno una valutazione di mercato giornaliera (come  invece avviene per le società quotate), oltre ad essere del tutto  astratta, occorrerebbe definire un criterio attendibile di valutazione  della partecipazione. Benché sia possibile effettuarlo per via  amministrativa, il rischio è proprio quello di subire una valorizzazione  arbitraria da parte dello Stato attraverso delle procedure  che possano  valorizzare determinati asset non in maniera pertinente. In sostanza, è  un po’ come oggi avviene con  gli studi di settore per la  quantificazione dei  redditi di impresa. 
E   anche in questo  caso l’esperienza ci  conferma quanto possano risultare arbitrarie e non  pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel caso di imposte  patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che queste  comporterebbero anche un’ulteriore abbattimento della competitività  della imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione  di redditività patita  con l’imposta applicata, attraverso un aumento di  prezzi che le renderebbero ancor meno competitive,   aggravando una  situazione già critica.
Figura 4: La tabella riporta i dati  relativi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane nell’anno  2014, a parere dell’autore “facilmente” tassabile con imposte  patrimoniali straordinarie. Elaborazione di Paolo Cardenà su dati Banca  d’Italia.
Gli investimenti finanziari (ossia in titoli di stato, fondi comuni, azioni ecc) per loro natura, si prestano ad essere colpiti con maggiore attitudine rispetto ad altre tipologie di asset. Ma anche in questo caso, l’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria fortemente invasiva in termini di prelievo fiscale, rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad esempio, ad un pacchetto di azioni detenute da un risparmiatore, supponiamo per 100.000 euro, e che vengano colpite da un imposta straordinaria di qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore non dovesse disporre di liquidità sufficiente per provvedere al pagamento dell’imposta, egli sarebbe costretto a liquidare parte del proprio investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere al pagamento dell’imposizione tributaria. Questo, se effettuato su scala rilevante, determinerebbe pericolose distorsioni di mercato.
Si pensi,  ad esempio, alla caduta dei prezzi che si potrebbero determinare su un  titolo: il risparmiatore ne risulterebbe doppiamente penalizzato poiché,  oltre a subire una diminuzione del patrimonio per effetto  dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento  del proprio  portafoglio titoli per effetto delle vendite sui titoli.  Questo appare   tanto più vero nel nostro mercato finanziario, il quale, essendo di  modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla possibilità di  variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui. Inoltre,  ciò rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri (quindi esenti  da imposta), che in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti  azionari  a buon mercato per effetto della depressione dei prezzi  causata da una patrimoniale feroce. Evidentemente. le conseguenze  nefaste non si esaurirebbero con le casistiche appena descritte, ma  andrebbe ben oltre.
Discorso analogo potrebbe essere effettuato  per le obbligazioni societarie (soprattutto bancarie) e i titoli di  stato. Ma, in quest’ultimo caso, occorre effettuare qualche ulteriore  ragionamento in virtù del fatto che, il titolo di stato, essendo un  debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio attraverso  l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe essere  tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante  dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di  Stato nel portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo  caso, laddove  non si dispongano di risorse necessarie per poter  corrispondere l’imposizione tributaria, lo  Stato potrebbe effettuare  una compensazione tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il  proprio debito (titolo di stato), diminuendone o azzerandone gli   interessi previsti o, nei casi più “estremi”, decurtandone il capitale  alla scadenza del titolo. In buona sostanza, un default mascherato da  una patrimoniale.
Concludendo, le classi di attività che si prestano ad essere colpite con maggior attitudine, anche con imposizioni feroci, sono proprio quelle liquide (ad esempio depositi bancari, di conto corrente, o postali), poiché aggredire tali patrimoni costituisce, per lo stato, garanzia della celerità e del buon esito della pretesa tributaria. In tal senso, anche quelle attività in cui lo stato risulta essere debitore (titoli di stato) si prestano con particolare attitudine a soddisfare le proprie esigenze, in quanto, lo stato, potrebbe agevolmente compensare la sua posizione debitoria con il credito emerso per effetto dell’imposizione fiscale.
Analogo discorso può essere osservato per le obbligazioni bancarie, le quali, come noto anche per via della recente introduzione della normativa sui salvataggi bancari, potrebbero essere sottoposte all’azzeramento (o alla riduzione) al fine di obbligare il risparmiatore a contribuire al salvataggio di qualche banca che potrebbe trovarsi in stato di difficoltà.
A mero  titolo informativo, giova segnalare la proposta di iniziativa popolare  avanzata dalla Cisl. La proposta avanzata dal sindacato prevede  l’introduzione di un’imposta patrimoniale  ordinaria sulla ricchezza  netta che cresca al crescere della ricchezza mobiliare e immobiliare  complessiva, con l’esenzione totale sugli imponibili delle famiglie fino  a 500.000 euro di ricchezza, con l’esclusione da tale computo della  prima casa. L’imposta andrebbe a colpire l’ammontare complessivo dei  valori mobiliari ed immobiliari con aliquote crescenti su diversi  scaglioni di valore, dai 500 mila euro in su (si veda Il Sole 24 Ore del  2 settembre 2015, ilsole24ore ).
Pensare che con un’imposizione patrimoniale straordinaria possa ottenersi un gettito di 400/500 miliardi di euro come quanto auspicato da “autorevoli” commentatori, appare del tutto irrealistico, oltreché destabilizzante per uno stato di diritto, ove la proprietà privata e la tutela del risparmio è anche garantita costituzionalmente. Ma ciò non toglie che questo patrimonio possa essere comunque esposto al rischio di qualche forma di imposizione patrimoniale o, peggio, confisca.
L’imposta patrimoniale, oltre ad essere una tassa iniqua ed ingiusta per definizione (poiché andrebbe a colpire anche i patrimoni realizzati con flussi di reddito già ampiamente tassati), comporterebbe il concretizzarsi di un evento deprecabile che comprometterebbe in maniera sostanziale anche la già precaria fiducia dei risparmiatori nei confronti dello Stato. Tuttavia, i risparmiatori dovrebbero comunque adottare quelle strategie più idonee (anche in relazione al proprio status e alla composizione del proprio patrimonio) a limitare l’impatto di un’eventuale inasprimento delle imposte esistenti o dall’introduzione di qualche forma di imposizione patrimoniale straordinaria.
Scritto il 7 settembre 2016 alle 12:04 da 
Fonte: qui
 
 
 
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