9 dicembre forconi: Dazi, la finta guerra tra Usa e Cina per spartirsi l'Europa

domenica 23 settembre 2018

Dazi, la finta guerra tra Usa e Cina per spartirsi l'Europa

Si parla molto di guerra dei dazi. In realtà, Stati Uniti e Cina stanno solo facendo in modo di mettere in difficoltà l'Europa per poi attaccarla


Passano i giorni, aumentano le prove ma ancora nulla: la narrativa ufficiale è più forte del buon senso. Si continua, strenuamente a credere alla pagliacciata della guerra commerciale fra Usa e Cina, quasi fino a oggi i media e la politica non ci avessero fornito sufficienti prove del regime di cortine fumogene di cui stanno abusando da almeno due anni per scopi meramente politici: crisi con la Corea del Nord, Russiagate, Siria, Venezuela. Basta voltarsi e una distrazione di massa salta fuori, come funghi nel sottobosco dopo un temporale. Eppure, sembra quasi che la gente non voglia uscire dal torpore in cui si è adagiata. Mollemente. Addirittura, crede che in Italia ci sia davvero un "Governo del cambiamento"! 
Prendiamo l'ultimo esempio in ordine di tempo, ovvero i nuovi dazi contro la Cina emanati da Donald Trump martedì per 200 miliardi di dollari e contro i quali Pechino ha già annunciato una rappresaglia per un controvalore di 60 miliardi di dollari a partire dal 24 settembre. Nei giorni scorsi vi ho mostrato plasticamente come la nuova offensiva americana sia una farsa, poiché la gran parte dei nuovi prodotti cinesi colpiti (non a caso con una tariffa del 10% e non del 25%, come accaduto nella prima tranche) rappresentano beni di larghissimo consumo per i cittadini americani e difficilmente le grandi catene potranno trovare fornitori alternativi al Dragone, a parità di condizioni: quindi, state certi che saranno dazi di corto respiro, per il semplice fatto che altrimenti quei prodotti saliranno di prezzo e a essere colpito sarà il potere d'acquisto dei cittadini Usa di fascia medio bassa, la ex middle-class già ridotta a lumpenproletariat dalla crisi del 2008. Il tutto, a meno di due mesi dalle elezioni di mid-term che, stando a tutti i sondaggi, vedono i Repubblicani mantenere il controllo del Senato ma perdere quello della Camera dei Rappresentanti. Credeteci pure, se volete. E salutatemi Babbo Natale, già che si siete. 
Perché poi Pechino reagisce per un controvalore di tariffe su prodotti Usa così basso? Bene, questi tre grafici cominciano a mettere in prospettiva la situazione. Come vedete, Pechino è costretta a limitare il controvalore dei suoi dazi sull'import Usa per il semplice fatto che importa molto meno degli Stati Uniti nel commercio bilaterale. In compenso, gli altri due grafici sono esplicativi della logica da gatto che gioca col topo che è in atto: non solo da dati del Tic statunitense pubblicati l'altro giorno, si scopre che a luglio la Cina ha scaricato Treasuries per un controvalore ai massimi da sette mesi, portando la detenzione totale proprio al livello dello scorso gennaio, ma, stranamente, non solo le vendite di luglio hanno coinciso con l'inizio del cosiddetto "armamento" dello yuan, ovvero la svalutazione interna della moneta cinese proprio come risposta ai dazi Usa, ma il terzo grafico ci mostra come l'impennata del rendimento del Treasury conosciuta martedì - tornando sopra la quota psicologica del 3% tondo - è casualmente coincisa con l'annuncio ufficiale dei nuovi dazi. Insomma, importando meno, si inviano segnali in altro modo. Ma, come vedete, nulla che faccia veramente male, né all'uno, nell'altro contendente. Almeno per ora. 
 
Chi invece si sta facendo male? E parecchio, calcolando che sta per terminare l'eta dell'oro monetaria, ovvero il Qe? 
Il vero bersaglio della disputa fra i due giganti, come vi dico da sempre, è l'Ue. 
E questi altri tre grafici ce lo mostrano in maniera talmente plastica che sfido chiunque a negare la correlazione: il primo, quello doppio, parla chiaro e fa riferimento a un'altra dinamica in atto in questo periodo, stranamente esplosa in contemporanea con la disputa commerciale. Anzi, esacerbata da quest'ultima. Ovvero, la crisi valutaria/debitoria dei mercati emergenti, strettamente correlata all'aumento dei tassi della Fed che ha reso l'indebitamento estero in biglietti verdi di Paesi come la Turchia, il Brasile e l'Argentina in prospettiva sempre meno sostenibile, anche al netto di enormi scadenze obbligazionarie corporate da qui a fine 2019. Cosa ci mostra il grafico? Ciò che vi dico dal primo giorno: se, come nel 2013, partirà un tantrum in grande stile sui mercati emergenti a causa delle crisi valutarie, il primo contagiato diretto stavolta non sarà l'Asia, ma proprio l'Unione europea e questo a causa del peso che l'export ha percentualmente sul Pil europeo, molto più alto di quello degli Usa. 
 
Ora, guardate gli altri due grafici, i quali ci mostrano il trend degli ordinativi industriali esteri tedeschi (-12% solo nei primi sette mesi di quest'anno) e quello della produzione industriale italiana, il cui ultimo dato negativo - riferito al mese di luglio - è stato pubblicato dall'Istat proprio martedì. Sarà un caso questo combinato congiunto fra guerra commerciale che, a causa della prima tranche di dazi, ha fatto salire il prezzo delle materie prime importate (con l'aggravante delle sanzioni Usa sull'alluminio della russa Rusal che entreranno in vigore a novembre, stranamente in contemporanea anche con il blocco totale sull'export petrolifero iraniano) e crisi dei mercati emergenti che spedisce scossoni sistemici all'export europeo? Io non credo. 
E, attenzione, perché fino a fine anno c'è la Bce in servizio permanente che può intervenire, magari riattivando a forza quattro gli acquisti di bond corporate per rafforzare almeno i cuscinetti di capitale delle aziende i cui comparti saranno più colpiti in autunno, ma c'è poco da fare: l'Europa è il vaso di coccio tra vasi di ferro. Oltretutto, un vaso che presenta già pesanti crepe dovute alle cadute volontarie, ovvero alla guerra intestina fra Stati che sta destabilizzando ulteriormente l'Unione. 
E sapete, tanto per capire quali giochi siano in atto, chi è stato a comprare Treasuries a luglio, mentre la Cina vendeva per ricordare agli Usa che si sta scherzando e quindi di non esagerare? La Turchia, la quale a giugno aveva venduto per mostrare i denti nella disputa sul pastore anglicano ai domiciliari ad Ankara e che, dopo settimane di tracollo della lira e delle riserve estere per cercare di salvarla, sembra essere addivenuta a più miti consigli con Washington. E il Giappone, stranamente dopo che Donald Trump aveva indicato Tokyo come prossimo bersaglio dei dazi per riequilibrare il deficit commerciale bilaterale. E la Francia, stranamente in modalità di riavvicinamento con la Casa Bianca da quando in Libia è tornato il caos. Vi paiono tutte coincidenze, tutte combinazioni? Vale davvero la pena fare la guerra alla Germania per il suo surplus, prestando il fianco a chi ha come principale obiettivo disgregare e distruggere, in modo da potersi spartire le macerie e la conseguente ricostruzione con Pechino (vedasi l'attivismo cinese in Grecia, ad esempio), avendo come asso nella manica la più che probabile vittoria delle sue "quinte colonne", vedi i leader sovranisti alla Salvini o alla Orban, alle Europee di maggio? 
Non è difficile, basta guadare cosa accade sotto il pelo dell'acqua e non soltanto al di sopra. Basta saper leggere un po' fra le righe e unire i puntini, come si fa con la Settimana enigmistica. Qualcuno ha molto da guadagnare da un tracollo politico e conseguentemente economico del primo mercato al mondo, ovvero quello europeo. E quel qualcuno ha un nome e un cognome, ancorché sembri più comodo e di moda millantare convergenze parallele e strane geometrie variabili a livello geopolitico. Stiamo scherzando con il fuoco e purtroppo non si tratta solo di mancanza di prospettiva, perché ciò che noi temiamo vada a colpire Usa e Cina nel proseguo dell'anno, in realtà sta già colpendo le economie europee e, Dio non volesse, se la crisi degli emergenti dovesse precipitare per qualsiasi motivo (e ce ne sono a bizzeffe, come di detonatori a disposizione), il rischio è quello di un'entrata anticipata in recessione dell'economia tedesca. Ciò che l'America vuole. E per un motivo: perché sa che l'intero Sud Europa - in preda a un infantile e generalizzato delirio da schadenfreude,alimentato dai populismi di varia latitudine, dall'Italia al Gruppo di Visegrad fino alla Svezia - non farà fronte comune, ma, anzi, gioirà delle disgrazie di Berlino, non fosse altro per la percezione epidermica di una miope "vendetta" per la Grecia. 
A quel punto, poi, comprarsi alleanze sarà un gioco da ragazzi. E noi ci scanneremo per chi sarà il traditore più lesto nel consegnare gli ex alleati al nuovo padrone, quantomeno per diventare servo per ultimo. Sarà la gara a chi è il miglior kapò del campo. O, almeno, a essere il prediletto. Che brutta fine, povera Europa. E, cosa ancor peggiore, senza nemmeno combattere per l'onore. E la propria sovrana indipendenza, in tempi in cui si abusa di questo termine. Quasi sempre a sproposito. 
Fonte: qui

Il disastro che può arrivare dallo scontro Usa-Cina

Lo scontro tra Stati Uniti e Cina sul fronte commerciale potrebbe portare a una recessione nel 2019, scatenando quindi il panico sui mercati. 

Donald Trump (Lapresse)



























Quali sviluppi ci saranno dalla presunta guerra commerciale tra Usa Cina? Come vi dicevo nell'articolo di mercoledì, è il disequilibrio nei dati dell'import fra Usa e Cina che potrebbe fare la differenza, con Pechino che infatti ha risposto ai dazi su 200 miliardi di dollari di propri beni imposti dalla Casa Bianca con "soli" 60 miliardi: il Dragone esporta troppo e importa poco, la bilancia della guerra tenderà sempre a essere in disequilibrio. Il vero tallone d'Achille per Donald Trump e i suoi piani di grandeur commerciali e manifatturiera ritrovata. Ecco quindi che, stando all'ultimo report di Hellenic Shipping News, la Cina potrebbe utilizzare armi non convenzionali, se veramente volesse porre pressione su Washington, ad esempio colpire i prodotti ad altissimo consumo e di grande impatto come quelli di maggior diffusione della Apple oppure colpire direttamente con sanzioni gli investimenti statunitensi in Cina. 
Non a caso, non più tardi di giovedì scorso, Jack Ma, leader di Alibaba, ha sparato il suo siluro, rimangiandosi la promessa della creazione di un milione di posti di lavoro proprio negli Stati Uniti. Attenzione, però a leggere bene, questa notizia: Alibaba aveva infatti "promesso" di sviluppare il suo business in America, non firmato un accordo. Siamo, come i mercati e le loro reazioni farsesche e iper-attive ci mostrano da tempo, nel campo della mera percezione e dell'aspettativa basata su cosa, però? Nel caso di specie, in un'immensa pantomima, basti vedere quanto ci ha messo Donald Trump a cambiare idea rispetto al profilo da dare alla Cina nel contesto globale: prima amico con cui cenare amorevolmente nella tenuta in Florida del Presidente (interrompendo in maniera poco rituale il desinare per dare il via libera all'attacco missilistico in Siria, oltretutto) e poi, di punto in bianco, tramutarlo formalmente nel Satana dell'economia, scagliandogli contro sanzioni che sono, almeno nel breve-medio termine, una iattura proprio per siderurgia e manifattura made in Usa, stante i costi di produzione più alti, ad esempio dei metalli non più importati a prezzi stracciati dalla sovra-produzione cinese. 
A detta degli esperti, qualsiasi forma prenderà il prossimo round di questa "guerra", l'impatto si riverbererà immediatamente sull'industria delle spedizioni a livello globale, visto che il timore per uno shock sulla crescita a livello mondiale potrebbe portare a un ri-prezzamento di molti assets, alcuni dei quali strategici. E in grado di auto-alimentare crisi, vedi il rame. O l'alluminio. Ora, guardate questo grafico, perché è quello maggiormente preoccupante. È stato preparato dalla Cpb Netherlands Bureau for Economic Policy Analysis e mostra come i volumi del commercio a tre mesi non siano solo in calo, al pari delle tariffe per i noli, ma addirittura già oggi in territorio negativo, sintomo chiaro di guai economici di ampio spettro. Non fosse altro perché quella discesa sotto lo zero si è sostanziata molto prima dell'intervallo normale di completamento di un ciclo economico, sintomo che qualcosa si è rotto nel meccanismo di trasmissione e dell'offerta del commercio globale. Già oggi, in chiaro atteggiamento di anticipo. 
 
Per Bloomberg, «il calo colpisce particolarmente perché le materie prime, uno dei sotto-settori più ampi e volatili dei beni commerciati globalmente, aveva finora performato bene, visto che gli indici Cpb sia per le commodities da carburante che per le altre avevano raggiunto i livelli massimi dal 2014 in maggio». E c'è di più, perché sempre Bloomberg sottolinea come «la debolezza nel comparto non arrivi e non promani dai materiali, ma dai beni lavorati in produzione, sintomo che la catena globale di fornitura non è più in grado di operare normalmente». 
Insomma, se non è grippata, sta per farlo. 
E questo sì, a causa di quanto scatenato da Washington e amplificato da Pechino. E non solo con ricadute dirette sull'eurozona tramite la cinghia di trasmissione dei mercati emergenti ma a livello globale, ovunque: dal Brasile alle fabbriche del Mid-West, dai porti cinesi alle miniere australiane. E, paradossalmente, la conferma arriva proprio dagli Usa che hanno scatenato questa disputa. Anzi, direttamente dalla Fed attraverso il suo Beige Book di luglio, nel quale si diceva a chiare lettere - ancorché media ed esperti si siano ben guardati dal sottolinearlo - che «le manifatture statunitensi potrebbero subire un rallentamento a causa di prezzi più alti e interruzioni nella catena di fornitura attribuibili alle nuova politiche commerciali, oltre a prezzi più alti nell'input e margini che si assottigliano».
Insomma, ci sono sempre più forti e chiari segnali che la guerra commerciale, lungi dal fare direttamente del male ai due "combattenti" nel breve, se dovesse proseguire e acuirsi nel quarto trimestre di quest'anno e oltre, potrebbe davvero imporre notevoli conseguenze sul mercato internazionale delle spedizioni, di fatto un proxy anticipatorio di un shock ribassista della crescita economica a livello globale. Tradotto, recessione. Un qualcosa che, se soltanto divenisse un'ipotesi percepita come pressoché certa, ancorché posizionabile a livello di prospettive nella seconda metà del 2019, vedrebbe i mercati entrare in modalità immediata di re-price rispetto praticamente a tutti gli assets, a partire da quelli maggiormente legati alla produzione e giù a catena fino alla controparte della finanza (futures, Etf e persino Cds dei Paesi maggiormente coinvolti). A quel punto, se non gestita, la situazione risponderebbe a un unico nome e un'unica condizione: panico
Per placare il quale, onde evitare gli errori e i ritardi del 2008-2009, le Banche centrali rientrerebbero in azione. Anche solo parzialmente. Anche solo a tempo e con ammontare non monstre ma in maniera coordinata: ciò che serve, almeno in parte, per sgonfiare le bolle più grosse senza che esplodano. Ma per farlo, per ottenere questo intervento salvifico, occorre appunto la distruzione schumpeteriana, ancorché controllata come la demolizione di un palazzo: fragorosa e impressionante, certo. Ma senza vittime, quantomeno. 

La partita reale in corso è questa, la posta altissima. Paradossalmente, più alta che nel 2008. E nel 2011. Donald Trump è il dinamitardo e sarà il capro espiatorio, come vi dico dal giorno seguente alla sua fragorosa e sconvolgente elezione alla Casa Bianca. Tutto il resto, è un foglio bianco da scrivere. Ma prima, per fare quella carta, occorre cellulosa. Quindi, molti alberi verranno abbattuti nella foresta dell'economia e della finanza globale. È il prezzo da pagare. Tutto sta a capire chi dovrà pagare la percentuale di conto più alta: a occhio e croce, in Europa in pochi hanno capito a cosa stiamo andando incontro. E questo rende il tutto tremendamente pericoloso. 
Fonte: qui

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