9 dicembre forconi: Debunking Sergio Marchionne

giovedì 2 agosto 2018

Debunking Sergio Marchionne

Davvero Sergio Marchionne ha rovinato un’eccellenza italiana, sfruttato i contributi statali e delocalizzato tutta la produzione? Qualche dato

Con l’aggravarsi delle condizioni di salute di Sergio Marchionne, e il conseguente cambio al vertice di FCA, in Italia c’è stato un proliferare di considerazioni sulla complessa figura del manager di Chieti, spesso tirando in ballo informazioni imprecise o addirittura false. Cerchiamo di fare chiarezza, smontando le bufale che lo riguardano e che abbiamo raccolto in Rete.

“Ha rovinato un’eccellenza italiana”
Prima dell’arrivo di Sergio Marchionne la Fiat proveniva da un periodo di perdite pesanti. 4,2 miliardi di euro di perdite nel solo 2002, due miliardi di euro nel 2003, 1,5 miliardi di euro nel 2004. Un totale di 7,7 miliardi di euro di perdite in un solo triennio. Fiat era destinata inevitabilmente a fallire. Anzi, come Marchionne spiegò a Gianluigi Gabetti poco dopo il suo insediamento: “La Fiat è tecnicamente fallita. Non stupirti. Noi perdiamo due milioni al giorno, non so se mi spiego. Se fallimento significa non avere i soldi in casa per pagare i debiti, bene, allora noi ci siamo”. L’azienda aveva smesso da tempo di essere una “eccellenza italiana“.

“Ha regalato Fiat alle banche”
Non proprio. Vista la situazione al momento dell’insediamento, sergio Marchionne decide di convertire i debiti alle banche in azioni, scongiurando pretese di saldo e allentando la morsa debitoria sul gruppo. Una mossa chiave per la ripresa del gigante ferito.

“Ha de-localizzato la produzione”
Fin dai suoi primi anni di reggenza in Fiat Sergio Marchionne fa l’esatto opposto.
Anziché cedere a strategie già in atto con altre case automobilistiche, che de-localizzano la produzione nei paesi emergenti, riesce a tenere la barra a dritta. Di fatto, Fiat, e poi Fca, non ha mai de-localizzato la produzione a scapito di quella italiana. Invece ha, com’è normale che sia nella messa a punto di strategie aziendali, modificato i piani di produzione dei suoi modelli. Quelli low cost nelle fabbriche di paesi dove la manodopera costa meno e dove Fiat aveva già i propri impianti, quelli “premium” in Italia, dove il maggior costo della manodopera è giustificato da una maggiore cura costruttiva. Sotto la gestione Marchionne, Fca ha aperto tre stabilimenti all’estero. In Brasile, nel 2005, dove Fca aveva già un altro impianto. In Serbia nel 2008 e in Cina del 2010. Questi ultimi due, tuttavia, sono stati aperti con sovvenzioni del governo serbo (33%) e di Guangzhou Automobile Group (50%). Solo quello brasiliano è controllato (e pagato) al 100% da FCA. C’è differenza tra de-localizzare ed espandersi, e non capirla e uno dei problemi dell’arretratezza del nostro paese.

“Ha regalato Fiat al suo amico Obama”
No, è il contrario. Nel 2008 Chrysler fallì (tecnicamente aderì al così detto Chapter 11), a causa di errate strategie commerciali che riportarono pesanti perdite e per via del blocco dei salari a circa 70 dollari l’ora, contro una media inferiore ai 50 dei diretti concorrenti. La casa americana era nelle mani del Governo a stelle e strisce, che voleva sbarazzarsene a tutti i costi, tanto che la propose a tutti i costruttori, incassando rifiuti su rifiuti. La crisi contingente di quel periodo, nel frattempo, colpì anche Fiat, che vide crollare il valore delle proprie azioni di oltre il 30% ed essere etichettata da Moody’s come “junk” (spazzatura). Sergio Marchionne era dell’idea che Fiat, per superare la nuova crisi, necessitasse di un deciso balzo in avanti a livello produttivo, in modo da arrivare ad almeno 6 milioni di veicoli prodotti l’anno, e vide nell’acquisizione del marchio americano la strategia migliore per farcela in tempi brevi.

Così si fece avanti per accettare l’offerta di Obama, ma non prima che il Governo americano avesse già avviato un deciso piano di riduzione dei costi (30%) e di ristrutturazione, con un’iniezione di fondi per un totale di circa otto miliardi di dollari. Di fatto, Marchionne acquisì un colosso già sulla via del risanamento. Con un’importante conseguenza diretta: Fiat riusciva a entrare nel mercato americano, che l’aveva sempre snobbata, e lo faceva proprio con un marchio americano.

“Ha fatto tutto questo a spese degli operai che hanno reso grande Fiat”
Come già spiegato, Fiat pre-Marchionne versava in gravi difficoltà e, tecnicamente, non era “grande”, per lo meno nel senso economico del termine. Il malessere del costruttore, in realtà, era molto antico. Di fatto, il declino iniziò poco dopo la reggenza di Vittorio Valletta, con il punto più basso raggiunto tra il 1995 e il 2004. Il solo insediamento di Sergio Marchionne, da un giorno all’altro, portò le azioni Fiat, molto sofferenti, da 1,61 a 1,8 euro. Oggi quelle azioni valgono circa 16,4 euro.
In merito al rapporto con gli operai, da sempre oggetto di discussione, Marchionne ha in realtà apportato delle innovazioni sostanziali. Per esempio, sotto la sua guida, Fiat nel 2005 ha adottato, prima in Italia, il World Class Manifacturing, che tra i suoi dieci pilastri tecnici annovera la sicurezza sul posto di lavoro e lo sviluppo delle competenze del personale.
Nel 2015, tra i 180 stabilimenti nel mondo che aderiscono al WCM, Pomigliano si è classificato al primo posto, diventando anche quello più efficiente d’Italia. Ricordiamo che questo stabilimento, nel 2010, diventò oggetto di un referendum tra i suoi operai (95% di adesione) per accettare il piano di Marchionne che mirava proprio a migliorarne l’efficienza, scatenando un duro scontro con la FIOM: vinse il Sì col 63% e i risultati diedero poi ragione al manager. Dal 2015 FCA, proprio sulla base del WCM, paga un premio di produttività a tutti i dipendenti, che nel 2017 ha toccato una media di 1320 euro.

Marco Bentivogli, segretario generale FIM CISL, ha rilasciato un lungo commento  a Il Sole 24 Ore che rivela un Marchionne in realtà molto collaborativo, pur fermo nelle sue idee manageriali.
Marchionne ha preso in mano una Fiat da 5,9 miliardi di euro e l’ha trasformata in una Fca da 62 miliardi di euro. Forse è il caso di riconsiderare cosa si intende per “rendere grande FIAT”.
fiat
“Ha sfruttato gli operai”
Questa è stata presa da una conversazione Facebook che aveva come oggetto la riforma del contratto ai dipendenti di Pomigliano d’Arco. Il futuro dello stabilimento, che all’epoca versava in pessime condizioni ed era esempio negativo di inefficienza, assenteismo e false invalidità, deve passare per una rivoluzione. La strategia di Marchionne si basa essenzialmente su tre punti portanti: riduzione delle pause da 40 a 30 minuti, spostamento della pausa mensa a fine turno e, soprattutto, scatto salariale non più automatico ma legato ai risultati ottenuti dallo stabilimento.

In cambio investe 800 milioni di euro nell’impianto e sposta la produzione della Panda dalla Polonia a Pomigliano d’Arco.  La mossa ha sicuramente richiesto sacrifici non indifferenti da parte dei dipendenti dello stabilimento, ma i risultati hanno premiato sia loro che Fca.

“Ha sfruttato i contributi dello Stato”
Secondo uno studio della CGIA di Mestre, del 2012, Fiat ha ricevuto dallo Stato 7,6 miliardi di euro, ma di questi ne ha reinvestiti 6,2. La maggior parte dei fondi, tuttavia, sono stati ricevuti negli anni ’80, mentre l’ultimo di grossa entità risale alla ristrutturazione dello stabilimento Iveco di Foggia (2000-2003), cioè prima dell’insediamento di Sergio Marchionne.

“Ha fatto chiudere quasi tutti gli stabilimenti in Italia”
In realtà ne ha fatti chiudere solo alcuni e si trattava di stabilimenti già in stato di grave crisi. Gli stabilimenti Fiat, poi Fca, sul suolo italiano sono (a esclusione di quelli compartecipati e in joint-venture):

Mirafiori (1939)
Grugliasco (1959)
Arese (1963)
Rivalta di Torino (1967)
Pomigliano d’Arco (1968)
Termini Imerese (1970)
Cassino (1972)
Melfi (1993)

A oggi, di questi, gli stabilimenti chiusi risultano essere quelli di Rivalta (2004), Arese (2005) e Termini Imerese (2011).
Quello di Termini Imerese versava già in pessime condizioni, tanto che la cassa integrazione iniziò nel 1993, e nel 2002 (prima dell’era Marchionne) furono licenziati 223 dipendenti.
L’impianto di Arese, costruito in origine dall’Alfa Romeo, conobbe il suo periodo di massimo splendore nel 1982, con ben 19mila dipendenti, ma dall’anno successivo all’acquisizione da parte di Fiat (1986) iniziò un progressivo declino. Il colpo di grazia arrivò nel 1989, quando Regione Lombardia e un giudice amministrativo imposero una riduzione dell’attività del reparto verniciatura da 800 a 400 veicoli al giorno. Dimezzando la produzione.
Lo stabilimento di Rivalta, in crisi fin dalla fine degli anni ’90, dagli inizi del 2018 è stato parzialmente riaperto da Fca nell’ottica di un progetto di riqualifica triennale. Nessuno degli impianti compartecipati o frutto di joint-venture è stato chiuso.

“Ha mandato via dall’Italia Fiat”
Chiarita la questione sulla presunta de-localizzazione, rimane il nodo, tanto caro ai complottisti, relativo alle sedi fiscali del gruppo. Nel 2014, dopo aver completato l’acquisizione di Chrysler iniziata cinque anni prima, Fiat diventa Fca, spostando la sede fiscale ad Amsterdam e il domicilio fiscale a Londra. Posto che Fca è un’azienda votata al profitto, e dunque è libera di adottare le strategie manageriali che meglio crede per garantirsi ricavi e futuro, qualcuno obietta su dove paghi le tasse. FCA continua a pagare l’IRAP su stabilimenti e attività presenti sul territorio nazionale. Ma va sottolineato, ancora una volta, che è una strategia legale, utilizzata da quasi la totalità dei moderni colossi industriali (Google, Amazon e Apple inclusi, per dire). Certo, è venuto a mancare il legame tra il colosso automobilistico e l’Italia, in particolare la città di Torino, ma in un libero mercato, nel pieno della globalizzazione, un manager viene assunto e pagato per sfruttare ogni opportunità. Ed è quello che a Sergio Marchionne, conti alla mano come possiamo vedere, è riuscito molto bene.

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