Immagine composita della regione dell’esplosione. In rosa, il gas caldo diffuso rivelato da Xmm-Newton. In blu i dati radio ottenuti del radiotelescopio Gmrt. In bianco dati i nell’infrarosso della survey 2Mass. Il riquadro in basso a destra mostra un ingrandimento basato sui dati in X ottenuti con Chandra (anch’essi rappresentati in rosa), mentre punti luminosi sparsi nel resto dell’immagine riflettono la distribuzione di stelle e galassie in primo piano. Crediti: X-Ray: Nasa/Cxc/Naval Research Lab/Giacintucci, S.; Xmm: Esa/Xmm; Radio: Ncra/Tifr/Gmrtn; Infrared: 2Mass/Umass/Ipac-Caltech/Nasa/Nsf[/caption]
È avvenuta nell’ammasso dell’Ofiuco, a 390 milioni di anni luce dalla Terra. E ha rilasciato cinque volte più energia rispetto al precedente detentore del record, creando una cavità grande 15 volte la nostra galassia. A guidare la scoperta, in uscita su ApJ, è stata un’astrofisica italiana oggi al Naval Research Laboratory statunitense, Simona Giacintucci
È la più grande esplosione che sia mai avvenuta nell’universo dopo il Big Bang – per quanto ne sappiamo. E a scoprirla è stato un team di astronomi guidato da Simona Giacintucci, un’astrofisica italiana – laurea e dottorato a Bologna – oggi a Washington, negli Stati Uniti, in forze al Naval Research Laboratory. L’esplosione ha avuto origine da un buco nero supermassiccio al centro di una galassia a centinaia di milioni di anni luce di distanza, e ha rilasciato cinque volte più energia rispetto al precedente detentore del record.
Il botto da Guinness è stato rilevato nell’ammasso di Ofiuco, un enorme conglomerato cosmico a circa 390 milioni di anni luce da noi, formato da migliaia di galassie, gas caldo e materia oscura tenuti insieme dalla gravità. Al centro dell’ammasso c’è una grande galassia, contenente a sua volta un buco nero supermassiccio: i ricercatori pensano che la fonte dell’eruzione sia proprio questo buco nero, che si nutre attivamente del gas circostante, espellendo occasionalmente grandi quantità di materia ed energia a velocità relativistiche.
La scoperta è avvenuta analizzando i dati in banda X raccolti con i telescopi spaziali Chandra della Nasa e Xmm-Newton dell’Esa, e i dati radio del Murchison Widefield Array (Mwa), in Australia, e del Giant Metrewave Radio Telescope (Gmrt), in India.
Già osservazioni di Chandra del 2016, condotte da Norbert Werner e colleghi, avevano rivelato, per la prima volta, un indizio di questa immensa esplosione: un insolito “bordo curvo” nell’immagine X dell’ammasso. Presero in considerazione la possibilità che potesse trattarsi di una cavità nel gas caldo circostante, scavata dai getti provenienti dal buco nero supermassiccio. Ma alla fine abbandonarono l’ipotesi, anche perché sarebbe stata necessaria una quantità di energia enorme per dare luogo a una cavità così grande.
E invece, a quanto pare, era proprio così: un’esplosione talmente devastante da scavare una cavità nel plasma dell’ammasso – il gas incandescente che circonda il buco nero. Una dinamica simile a quella dell’eruzione del monte Sant’Elena del 1980, che strappò via la cima della montagna, dice Giacintucci. «La differenza è che, nel cratere prodotto da questa eruzione nel gas caldo dell’ammasso, ci si potrebbero far stare 15 galassie grandi come la Via Lattea una accanto all’altra».
Lo studio, in uscita su The Astrophysical Journal, riporta che il bordo curvo della cavità osservata in precedenza da Chandra è in seguito stato rilevato anche da Xmm-Newton, confermando così l’osservazione. Cruciali sono stati inoltre i nuovi dati radio del radiotelescopio Mwa, e quelli di archivio di Gmrt, per dimostrare che il bordo curvo, circondando una regione densa d’emissione radio, fa effettivamente parte della parete di una cavità. Emissione radio, spiegano gli autori, che proviene da elettroni accelerati – probabilmente dal buco nero supermassiccio – quasi alla velocità della luce. Fonte: qui
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo “Discovery of a giant radio fossil in the Ophiuchus galaxy cluster” di S. Giacintucci, M. Markevitch, M. Johnston-Hollitt, D. R. Wik, Q. H. S. Wang e T. E. Clarke
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