Crisi, immigrazione, sviluppo delle economie emergenti?
No: i salari in Italia iniziano a peggiorare molto prima, checché ne dica il mainstream.
In Italia si parla spesso di flessibilità come necessità per mantenere competitività internazionale e di deflazione salariale come naturale conseguenza della globalizzazione. Guardando il grafico della quota dei salari sul PIL, si nota però come l’Italia sia al di sotto della media europea e degli altri tre paesi considerati (per la Germania sia è considerato fino al 1990 la Germania Ovest). In particolare se l’autunno caldo e le rivendicazioni sindacali degli anni ’70 avevano permesso una crescita del prodotto che va ai lavoratori dipendenti, da quel momento in poi il trend è decrescente, con una drastica caduta a inizio anni ’90, non più recuperata. È proprio dalla fine degli anni ’70 che iniziano ad essere emanate leggi e decreti volte a ridurre i diritti del lavoro e a flessibilizzare il mercato: riduzione del grado della scala mobile del 1977 e le tre disdette di Confindustria dell’accordo sulla scala mobile (1982, ’85, ’91), accordo sui tetti salariali dell’83, legge 223 del 1991 sui licenziamenti collettivi, abolizione della scala mobile nel 1992, accordi di moderazione salariale del 1993, il Pacchetto Treu del 1997, la Legge Biagi del 2003 e il Jobs Act del 2014.
Da un punto di vista economico un aumento dei salari genera un aumento della domanda effettiva, dato che la propensione al consumo di chi vive di salario è maggiore di quella di chi vive di profitti o rendite. D’altra parte genera anche una riduzione della domanda, dovuta sia alla riduzione degli investimenti, causata da una riduzione dei profitti, sia alla riduzione della domanda estera, dato che l’aumento dei salari si riverserà sui prezzi. Quindi aumenti dei salari avranno effetti positivi o negativi a seconda del modello di accumulazione del paese: si distinguono paesi wage-led, in cui l’aumento dei consumi è maggiore della diminuzione di investimenti e esportazioni, e paesi profit-led, in cui l’aumento dei consumi non basta a pareggiare la diminuzione di investimenti e esportazioni. In un recente articolo Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo mostrano come l’Italia sia un paese wage-led, confermando le conclusioni di altri studi sulla natura dell’economia italiana e degli altri paesi europei (Naastepad and Storm, 2007; Hein and Vogel, 2008; Stockhammer et al., 2009; Onaran e Galanis, 2014; Obst and Onaran, 2016; Obst, Onaran, Nikolaidi, 2017). Queste conclusioni suggeriscono due cose: la prima è che contrarre i salari e flessibilizzare il mercato del lavoro non fa altro che rallentare la crescita, la seconda è che il modello di sviluppo mercantilista esportato dai tedeschi è parte del problema piuttosto che della soluzione. Un’area grande ed economicamente integrata come quella europea potrebbe vivere sulla propria domanda interna, invece si è scelto di puntare sulla competitività internazionale che, in presenza di moneta unica o comunque cambi fissi, si traduce in deflazione dei salari e delocalizzazioni nei paesi in via di sviluppo, soprattutto europei (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia). Volendo quindi ricercare le cause della diminuzione della quota dei salari in Italia, una non può che essere ricercata tra le basi su cui è stata fondata l’Unione Europea: mercantilismo, vincoli fiscali, libera circolazione di capitali.
Un’altra causa è spesso attribuita alla disoccupazione: all’aumentare di questa i salari diminuirebbero per poter permettere agli imprenditori e alle pubbliche amministrazioni di assumere più persone a parità di costi. Quest’interpretazione è sia priva di fondamento che pericolosa: una relazione tra tasso di disoccupazione e salari reali non è mai stata riscontrata da nessuno studio. L’idea che una riduzione dei salari porti ad un aumento dell’occupazione è uno degli assunti della teoria neoclassica, ossia liberista, per cui se non c’è piena occupazione è colpa di problemi strutturali e rigidità del mercato del lavoro che non permettono ai disoccupati di essere assorbiti. Tradotto in parole semplici: se esistono disoccupati involontari è perché gli occupati guadagnano troppo e qualcuno glielo permette. Invece la sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro ha sicuramente avuto un effetto sui salari: chi svolge un lavoro temporaneo, o in generale con un contratto atipico, guadagna meno di chi lavora a tempo indeterminato. Ma come fa notare Zenezini in Il problema salariale in Italia (2004), ciò non spiegherebbe la maggiore caduta della quota salari in Italia rispetto agli altri paesi europei, dato che in Italia il lavoro atipico non è più incisivo che nei vicini. Una delle cause su cui in moltissimi, da destra a sinistra, concordano è che la caduta dei salari sia dovuta alla caduta della produttività, secondo la teoria che il livello dei salari debba seguire questa. Osservando l’andamento della produttività del lavoro, si nota un rallentamento della crescita da metà anni 90 e successivamente una sostanziale stagnazione.
Come però mostra Maurizio Donato in Fatica sprecata: produttività e salari in Europa (2013), i salari sono aumentati meno della produttività:Che non si tratti di un caso limitato all’Europa è confermato dall’ultimo rapporto dell’International Labour Organization secondo il quale solo in un numero ristretto di paesi (Danimarca, Francia, Finlandia, Regno Unito, Romania e Repubblica Ceca) l’aumento della produttività del lavoro si è riflesso in un aumento dei salari reali; nelle tre economie più importanti del pianeta: Stati Uniti d’America, Giappone e Germania, tra il 1999 e il 2007 la produttività del lavoro è cresciuta, ma i salari reali sono diminuiti, mentre per il resto dei paesi capitalisticamente sviluppati la correlazione non esiste o è molto debole.”
Sull’argomento bisogna specificare che esistono due grandi filoni di pensiero, riassunti da Cesaratto in Chi non rispetta le regole? (2018):
La prima tesi (che chiameremo strutturalista) ritiene che i problemi dell’Italia siano strutturali, dal lato dell’offerta: come l’inefficienza della pubblica amministrazione, scarsi investimenti in ricerca e istruzione, specializzazione in prodotti tradizionali e concorrenza dei paesi emergenti oltre a rigidità varie. La seconda tesi (quella keynesiana) ritiene, all’opposto, che l’andamento della produttività trovi una spiegazione dal lato della domanda. Secondo quest’ultima tesi, l’adesione a sistemi di cambi fissi avrebbe nuociuto alla competitività dei prodotti italiani contraendone il mercato. La perdita di competitività esterna si è riflessa in una maggiore difficoltà a finanziare il bilancio pubblico, facendo crescere il debito e aumentando l’onere per interessi, compensato con contrazioni della spesa e aumenti delle imposte, soprattutto dagli anni Novanta. Ciò ha comportato una stagnazione della domanda interna che si è aggiunta alla sofferenza della domanda estera.
Dunque due visioni che portano a posizioni sulle politiche economiche totalmente opposte: flessibilizzazione del mercato del lavoro da un lato, politiche espansive di supporto alla domanda dall’altro. Partendo dalla contabilità nazionale, per cui la crescita del PIL è uguale alla somma tra la crescita del lavoro utilizzato e la crescita della produttività, esiste una differenza fondamentale tra le due tesi: per i “strutturalisti” la crescita è determinata da forze di offerta e dunque la produttività è esogena rispetto alla produzione, mentre per la tesi “keynesiana” la crescita dipende dalla domanda effettiva (investimenti, consumi, esportazioni, spesa pubblica) e la produttività non è esogena ma è largamente endogena in quanto dipende dalla crescita del prodotto, che a sua volta è determinata da una crescita della domanda. Secondo questa tesi, appoggiata dalla Legge di Okun e dalla Legge di Kaldor-Verdoorn e da numerose verifiche empiriche (per citarne alcune: Targetti e Foti, 1997; Ofria, 2009; Millemaci e Ofria, 2014), la stagnazione della produttività inizia proprio negli anni in cui si fissa il tasso di cambio come preludio per l’euro, si iniziano ad avere avanzi primari e continua a peggiorare la distribuzione a sfavore dei salariati: tre fattori che hanno colpito la domanda. Stando a questo sembra che la caduta della quota salari negli anni ’90 sia stato il mezzo per salvaguardare la quota profitti dalla diminuzione della crescita della produttività, come si vede dai grafici sottostanti (quota profitti sul PIL e quota del reddito dell’1% e del 10% più ricchi sul reddito nazionale).
Ancora a supporto di questa tesi ci sono altri due paper, di cui uno del Fondo Monetario Internazionale e difficilmente accusabile di marxismo: After the crisis: Assessing the Damage in Italy (Morsy e Sgherri, 2010) e The role of labour-market changes in the slowdown of European productivity growth (Dew Becker e Gordon, 2008). In questi studi si attribuisce la causa della stagnazione della produttività in Italia all’applicazione dei principi dell’OCSE Jobs strategy (1994) e dell’Agenda di Lisbona (2000), secondo i quali la disoccupazione si deve risolvere con la deregolamentazione del mercato del lavoro. L’aumento dell’offerta di lavoro sottopagata, dovuto all’aumento della precarietà e al maggior numero di donne in cerca di lavoro e di immigrati, ha portato alla riduzione del costo del lavoro. Sarebbe proprio questo ad aver spinto le imprese ad evitare nuovi investimenti e a non puntare sull’innovazione tecnologica, dato che hanno potuto ridurre i costi tramite un’effettiva riduzione dei salari: laddove le riforme per flessibilizzare il mercato del lavoro sono state più forti, Italia e Spagna, la crescita della produttività è stata peggiore.
Quindi, per riassumere, perché in Italia la quota del prodotto che va ai lavoratori è inferiore rispetto agli altri paesi? Il livello dei salari è stata la valvola con cui l’Italia si è preparata all’adesione alla moneta unica e si è allineata alle politiche economiche degli altri paesi capitalistici avanzati (flessibilità, controllo dell’inflazione, vincoli fiscali, impossibilità di svalutare la moneta) senza dover andare ad intaccare la quota dei profitti. La produttività c’entra poco, dato che la distribuzione tra salari e profitti dipende dal mercato del lavoro e dalla contrattazione tra sindacati. Certo che se questa crescesse i sindacati dei lavoratori potrebbero avanzare maggiori richieste, che però verrebbero accolte solo se questi avessero maggiore forza e consenso: nulla viene regalato. Concordando con la tesi “keynesiana” sulla produttività, questa aumenterebbe con stimoli alla domanda, dunque investimenti pubblici e privati: i primi sono schiacciati da politiche restrittive, i secondi sono a livelli bassissimi sia perché la relazione per cui a maggiori profitti corrispondono più investimenti è estremamente semplificativa, sia perché buona parte dei profitti ormai viene investita in attività finanziarie, spesso all’estero, e non contribuisce quindi alla crescita dell’economia reale. Flessibilizzare il mercato del lavoro avrebbe effetti negativi sui salari, sulla domanda, sulla produttività (Koeniger, 2005; Pini, 2013; Morsy e Sgherri, 2010; Dew Becker e Gordon, 2008; Tridico, 2018) e non porterebbe ai tanto acclamati guadagni in termini di occupazione (Stirati, 2008; Brancaccio, 2016): è parte del problema piuttosto che della soluzione. Servirebbero piuttosto investimenti pubblici e privati, e questi incentivati non con defiscalizzazioni a caso sperando che generino più occupazione, ma con defiscalizzazioni mirate e soprattutto con controlli sui capitali, per evitare che chi guadagna in Italia porti i propri profitti all’estero. Politiche fiscali espansive e controlli sulla circolazione di capitali: due tra i peggiori nemici dell’Unione Europea.
Fonte: qui
Da un punto di vista economico un aumento dei salari genera un aumento della domanda effettiva, dato che la propensione al consumo di chi vive di salario è maggiore di quella di chi vive di profitti o rendite. D’altra parte genera anche una riduzione della domanda, dovuta sia alla riduzione degli investimenti, causata da una riduzione dei profitti, sia alla riduzione della domanda estera, dato che l’aumento dei salari si riverserà sui prezzi. Quindi aumenti dei salari avranno effetti positivi o negativi a seconda del modello di accumulazione del paese: si distinguono paesi wage-led, in cui l’aumento dei consumi è maggiore della diminuzione di investimenti e esportazioni, e paesi profit-led, in cui l’aumento dei consumi non basta a pareggiare la diminuzione di investimenti e esportazioni. In un recente articolo Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo mostrano come l’Italia sia un paese wage-led, confermando le conclusioni di altri studi sulla natura dell’economia italiana e degli altri paesi europei (Naastepad and Storm, 2007; Hein and Vogel, 2008; Stockhammer et al., 2009; Onaran e Galanis, 2014; Obst and Onaran, 2016; Obst, Onaran, Nikolaidi, 2017). Queste conclusioni suggeriscono due cose: la prima è che contrarre i salari e flessibilizzare il mercato del lavoro non fa altro che rallentare la crescita, la seconda è che il modello di sviluppo mercantilista esportato dai tedeschi è parte del problema piuttosto che della soluzione. Un’area grande ed economicamente integrata come quella europea potrebbe vivere sulla propria domanda interna, invece si è scelto di puntare sulla competitività internazionale che, in presenza di moneta unica o comunque cambi fissi, si traduce in deflazione dei salari e delocalizzazioni nei paesi in via di sviluppo, soprattutto europei (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia). Volendo quindi ricercare le cause della diminuzione della quota dei salari in Italia, una non può che essere ricercata tra le basi su cui è stata fondata l’Unione Europea: mercantilismo, vincoli fiscali, libera circolazione di capitali.
Un’altra causa è spesso attribuita alla disoccupazione: all’aumentare di questa i salari diminuirebbero per poter permettere agli imprenditori e alle pubbliche amministrazioni di assumere più persone a parità di costi. Quest’interpretazione è sia priva di fondamento che pericolosa: una relazione tra tasso di disoccupazione e salari reali non è mai stata riscontrata da nessuno studio. L’idea che una riduzione dei salari porti ad un aumento dell’occupazione è uno degli assunti della teoria neoclassica, ossia liberista, per cui se non c’è piena occupazione è colpa di problemi strutturali e rigidità del mercato del lavoro che non permettono ai disoccupati di essere assorbiti. Tradotto in parole semplici: se esistono disoccupati involontari è perché gli occupati guadagnano troppo e qualcuno glielo permette. Invece la sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro ha sicuramente avuto un effetto sui salari: chi svolge un lavoro temporaneo, o in generale con un contratto atipico, guadagna meno di chi lavora a tempo indeterminato. Ma come fa notare Zenezini in Il problema salariale in Italia (2004), ciò non spiegherebbe la maggiore caduta della quota salari in Italia rispetto agli altri paesi europei, dato che in Italia il lavoro atipico non è più incisivo che nei vicini. Una delle cause su cui in moltissimi, da destra a sinistra, concordano è che la caduta dei salari sia dovuta alla caduta della produttività, secondo la teoria che il livello dei salari debba seguire questa. Osservando l’andamento della produttività del lavoro, si nota un rallentamento della crescita da metà anni 90 e successivamente una sostanziale stagnazione.
Come però mostra Maurizio Donato in Fatica sprecata: produttività e salari in Europa (2013), i salari sono aumentati meno della produttività:Che non si tratti di un caso limitato all’Europa è confermato dall’ultimo rapporto dell’International Labour Organization secondo il quale solo in un numero ristretto di paesi (Danimarca, Francia, Finlandia, Regno Unito, Romania e Repubblica Ceca) l’aumento della produttività del lavoro si è riflesso in un aumento dei salari reali; nelle tre economie più importanti del pianeta: Stati Uniti d’America, Giappone e Germania, tra il 1999 e il 2007 la produttività del lavoro è cresciuta, ma i salari reali sono diminuiti, mentre per il resto dei paesi capitalisticamente sviluppati la correlazione non esiste o è molto debole.”
Sull’argomento bisogna specificare che esistono due grandi filoni di pensiero, riassunti da Cesaratto in Chi non rispetta le regole? (2018):
La prima tesi (che chiameremo strutturalista) ritiene che i problemi dell’Italia siano strutturali, dal lato dell’offerta: come l’inefficienza della pubblica amministrazione, scarsi investimenti in ricerca e istruzione, specializzazione in prodotti tradizionali e concorrenza dei paesi emergenti oltre a rigidità varie. La seconda tesi (quella keynesiana) ritiene, all’opposto, che l’andamento della produttività trovi una spiegazione dal lato della domanda. Secondo quest’ultima tesi, l’adesione a sistemi di cambi fissi avrebbe nuociuto alla competitività dei prodotti italiani contraendone il mercato. La perdita di competitività esterna si è riflessa in una maggiore difficoltà a finanziare il bilancio pubblico, facendo crescere il debito e aumentando l’onere per interessi, compensato con contrazioni della spesa e aumenti delle imposte, soprattutto dagli anni Novanta. Ciò ha comportato una stagnazione della domanda interna che si è aggiunta alla sofferenza della domanda estera.
Dunque due visioni che portano a posizioni sulle politiche economiche totalmente opposte: flessibilizzazione del mercato del lavoro da un lato, politiche espansive di supporto alla domanda dall’altro. Partendo dalla contabilità nazionale, per cui la crescita del PIL è uguale alla somma tra la crescita del lavoro utilizzato e la crescita della produttività, esiste una differenza fondamentale tra le due tesi: per i “strutturalisti” la crescita è determinata da forze di offerta e dunque la produttività è esogena rispetto alla produzione, mentre per la tesi “keynesiana” la crescita dipende dalla domanda effettiva (investimenti, consumi, esportazioni, spesa pubblica) e la produttività non è esogena ma è largamente endogena in quanto dipende dalla crescita del prodotto, che a sua volta è determinata da una crescita della domanda. Secondo questa tesi, appoggiata dalla Legge di Okun e dalla Legge di Kaldor-Verdoorn e da numerose verifiche empiriche (per citarne alcune: Targetti e Foti, 1997; Ofria, 2009; Millemaci e Ofria, 2014), la stagnazione della produttività inizia proprio negli anni in cui si fissa il tasso di cambio come preludio per l’euro, si iniziano ad avere avanzi primari e continua a peggiorare la distribuzione a sfavore dei salariati: tre fattori che hanno colpito la domanda. Stando a questo sembra che la caduta della quota salari negli anni ’90 sia stato il mezzo per salvaguardare la quota profitti dalla diminuzione della crescita della produttività, come si vede dai grafici sottostanti (quota profitti sul PIL e quota del reddito dell’1% e del 10% più ricchi sul reddito nazionale).
Ancora a supporto di questa tesi ci sono altri due paper, di cui uno del Fondo Monetario Internazionale e difficilmente accusabile di marxismo: After the crisis: Assessing the Damage in Italy (Morsy e Sgherri, 2010) e The role of labour-market changes in the slowdown of European productivity growth (Dew Becker e Gordon, 2008). In questi studi si attribuisce la causa della stagnazione della produttività in Italia all’applicazione dei principi dell’OCSE Jobs strategy (1994) e dell’Agenda di Lisbona (2000), secondo i quali la disoccupazione si deve risolvere con la deregolamentazione del mercato del lavoro. L’aumento dell’offerta di lavoro sottopagata, dovuto all’aumento della precarietà e al maggior numero di donne in cerca di lavoro e di immigrati, ha portato alla riduzione del costo del lavoro. Sarebbe proprio questo ad aver spinto le imprese ad evitare nuovi investimenti e a non puntare sull’innovazione tecnologica, dato che hanno potuto ridurre i costi tramite un’effettiva riduzione dei salari: laddove le riforme per flessibilizzare il mercato del lavoro sono state più forti, Italia e Spagna, la crescita della produttività è stata peggiore.
Quindi, per riassumere, perché in Italia la quota del prodotto che va ai lavoratori è inferiore rispetto agli altri paesi? Il livello dei salari è stata la valvola con cui l’Italia si è preparata all’adesione alla moneta unica e si è allineata alle politiche economiche degli altri paesi capitalistici avanzati (flessibilità, controllo dell’inflazione, vincoli fiscali, impossibilità di svalutare la moneta) senza dover andare ad intaccare la quota dei profitti. La produttività c’entra poco, dato che la distribuzione tra salari e profitti dipende dal mercato del lavoro e dalla contrattazione tra sindacati. Certo che se questa crescesse i sindacati dei lavoratori potrebbero avanzare maggiori richieste, che però verrebbero accolte solo se questi avessero maggiore forza e consenso: nulla viene regalato. Concordando con la tesi “keynesiana” sulla produttività, questa aumenterebbe con stimoli alla domanda, dunque investimenti pubblici e privati: i primi sono schiacciati da politiche restrittive, i secondi sono a livelli bassissimi sia perché la relazione per cui a maggiori profitti corrispondono più investimenti è estremamente semplificativa, sia perché buona parte dei profitti ormai viene investita in attività finanziarie, spesso all’estero, e non contribuisce quindi alla crescita dell’economia reale. Flessibilizzare il mercato del lavoro avrebbe effetti negativi sui salari, sulla domanda, sulla produttività (Koeniger, 2005; Pini, 2013; Morsy e Sgherri, 2010; Dew Becker e Gordon, 2008; Tridico, 2018) e non porterebbe ai tanto acclamati guadagni in termini di occupazione (Stirati, 2008; Brancaccio, 2016): è parte del problema piuttosto che della soluzione. Servirebbero piuttosto investimenti pubblici e privati, e questi incentivati non con defiscalizzazioni a caso sperando che generino più occupazione, ma con defiscalizzazioni mirate e soprattutto con controlli sui capitali, per evitare che chi guadagna in Italia porti i propri profitti all’estero. Politiche fiscali espansive e controlli sulla circolazione di capitali: due tra i peggiori nemici dell’Unione Europea.
Fonte: qui
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