L'impennata di ieri dello spread non ha quasi nulla a che fare con la bocciatura da parte dell'Ue del Def. Ma non c'è molto da rallegrarsi
Contenti dello spread alle stelle e delle banche a picco? D’altronde, il circolo vizioso ormai è viziosissimo, visto che soltanto i nostri istituti ormai comprano Btp, a meno di qualche salvifico fondo pensione statunitense come atto di buona volontà transatlantica, visto che il nostro Governo si è consegnato mani e piedi alla Casa Bianca, cessazione degli affari con l’Iran in testa, come certificato da Alberto Negri dell’Ispi (uno che a differenza di molti millantatori, certe dinamiche le conosce veramente). Ma cosa vi interessa, con questa finanziaria è stata abolita per legge la povertà! E poi sarà il cavallo di Troia con cui scardinare l’Europa delle banche (le stesse che, grazie ai loro acquisti di Btp, stanno evitando che lo spread sia già a 500).
Avete voluto questa gente al governo?
Tenetevela.
E godetevela fino in fondo. Io dal basso del mio stipendio da reddito di cittadinanza, del mio conto corrente in rosso perenne e dell’assenza di qualsiavoglia proprietà o bene, me ne frego allegramente, tanto per citare il vostro amato ministro dell’Interno e il suo lessico istituzionale da Ventennio 2.0.
Ora, tanto per farvi capire in quale contesto da piscina dei piranha si stanno muovendo i fenomeni al governo, mettiamo un po’ in prospettiva le cose. L’America dei record – Borsa alle stelle, disoccupazione ai minimi dagli anni Sessanta, Pil quasi cinese – su cosa sta basando la sua performance, oltre ai buybacks e al denaro a pioggia di anni di Qe della Fed?
Una domanda che, in tempo di deficit come minimo comun denominatore di ogni discussione politica, è meno scontata di quanto sembri. Forse non lo sapete, ma il 30 settembre gli Stati Uniti hanno ufficialmente chiuso l’anno fiscale 2018 ed è stato tempo di bilanci, anche per il debito. Il quale ha voluto festeggiare il suo Capodanno con il botto, visto che il 28 settembre – ultimo giorno lavorativo – è cresciuto di qualcosa come 84 miliardi di dollari, portando il totale per l’intero anno fiscale a 1,271 trilioni di dollari e il dato generale lordo 21,52 triliardi.
E attenzione, l’escalation è di quelle da record, visto che solo il 16 di marzo era stato superato il benchmark dei 21 triliardi e che a settembre 2017 si attestava “solo” a 20,1 triliardi di dollari. Insomma, Di Maio e Salvini sono due dilettanti. E quanto lo siano ce lo dicono questi due grafici, il primo dei quali mette appunto in relazione il deficit della discordia presentato nel Def con l’andamento storico di quello Usa: come dicevamo, roba da lattanti. Il secondo, invece, ci mostra un altro record legato al debito Usa, ovvero il raggiungimento dei 523 miliardi di dollari di interessi annuali per il 2018. Insomma, Donald Trump sta indebitando il Paese a un ritmo che nemmeno le più pessimistiche previsioni potevano immaginare.
E attenzione, perché un altro problema è dato dai tassi di interessi tenuti artificialmente bassi finora dalle politiche espansive, le quali hanno ad esempio mantenuto il costo del finanziamento medio per i titoli di Stato Usa a 10 anni attorno al 2,3% per tutto il 2017. Già oggi, con la Fed in operatività da “falco” e l’esplosione dei rendimenti obbligazionari globali della scorsa settimana (un qualcosa che, pur passato sotto silenzio, ha bruciato qualcosa come 876 miliardi di dollari di valore di mercato), quel costo è salito al 3,23% sulla scadenza benchmark, un +39%. Quindi, se continueranno rapidi movimenti al rialzo sulla curva dei rendimenti, a ogni emissione si registrerà un aumento delle spese per interessi. E anche se, paradossalmente, il Tesoro Usa non necessitasse di aste incrementali, solo nel secondo trimestre di quest’anno le necessità di finanziamento statunitensi sono di 770 miliardi di dollari, un +60% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
E, forse per solidarietà con il presidente o per patriottismo atavico, gli americani stanno seguendo l’esempio federale, visto che nel mese di agosto sono tornati a fare ciò che riesce meglio loro: spendere soldi di cui non dispongono. Il credito revolving – ovvero l’uso delle carte di credito – ha infatti conosciuto un balzo di 4,8 miliardi di dollari, l’incremento mensile maggiore da maggio e il secondo più alto del 2018, portando il totale al record assoluto di 1,042 triliardi di debito su carte. Ma anche il credito non-revolving, ovvero prestiti scolastici e per acquistare automobili, ha visto un incremento di 15,2 miliardi, portando il fardello totale a 2,894 triliardi di dollari. Insomma, un’enorme bolla di debito. Statale e privata. E questo grafico ci dice che gli americani impegnano il loro denaro, anche quello che occorre chiedere alle finanziarie, anche per altro, visto che il livello attuale di possesso di titoli azionari (34,3% sul totale di assets finanziari) come investimento retail è il secondo da quando vengono registrate le serie statistiche, scalzato soltanto dall’ubriacatura collettiva del 1999-2000 con la bolla dot.com.
E attenzione, perché stando alle ultime metriche, il paragone con la crisi di diciotto anni fa, calza proprio a pennello. Oggi, infatti, il titolo azionario medio a Wall Street viene trattato a una valutazione che è del 73% superiore al suo prezzo storico!
Una distorsione del genere è avvenuta solo altre due volte prima di oggi: subito prima della Grande Depressione e proprio nel 1999, nella fase di gonfiamento finale della bolla tech. Ma non basta, visto che – anche su queste pagine – l’America di Donald Trump viene presa non solo a modello da seguire, ma anche come caposaldo della lotta politica contro le burocrazie e le élites: dai minimi del marzo 2009, l’indice Standard&Poor’s è andato in rally del 334%, la cosa rialzista maggiore e più lunga dalla Seconda guerra mondiale. C’è da festeggiare? A mio avviso, no.
E nemmeno ad avviso di un eminente sconosciuto come Robert Shiller, premio Nobel per l’economia e professore alla Yale University (istituzione educativa minore rispetto a certi atenei e campus italiani che esprimono il fior fiore del pensiero economico del governo penta-leghista, lo ammetto), il quale intervistato dalla CNBC ha detto chiaramente che la situazione attuale del mercato azionario Usa è assolutamente simile alla stagione di eccessi degli anni Venti che portò al crash di mercato dell’ottobre 1929, come ci mostra questo tranquillizzante grafico.
Tanto per fare un ripassino, dall’inizio del 1928 al Black Thursday del 24 ottobre 1929, lo Standard&Poor’s 500 crebbe di quasi il 50%, salvo perdere il 23% nei cinque giorni successivi all’inizio della correzione autunnale. E anche all’epoca, aveva raggiunto i massimi record un mese prima del crollo. Ma tranquilli, tutto andrà a posto. E come? C’è un unico modo, quello che vi dico da mesi ormai: o la Fed si ferma o i cinesi cominciano di nuovo a pompare liquidità come non ci fosse un domani, altrimenti il sistema grippa. E il bagno di sangue obbligazionario della scorsa settimana è stato solo un trailer indolore del film cui ci toccherà assistere, se le dinamiche in atto non cambieranno.
E attenzione, perché l’impennata di ieri dello spread non ha quasi nulla a che fare con la bocciatura da parte dell’Ue del Def. Purtroppo. E dico purtroppo perché la dinamica che lo sottende è molto peggiore. Come vi dicevo, proprio ieri sono tornati operativi i mercati cinesi dopo la settimana di chiusura per la festività della Repubblica e, proprio in ossequio alla riapertura, domenica la Pboc ha comunicato l’ennesimo taglio dei requisiti di riserva per le banche, tale da liberare nel sistema liquidità per 1,2 triliardi di yuan. Un po’ come gli istituti di credito che, dopo un ponte lungo e di prelievi generalizzati, ricaricano i bancomat prima di riaprire. Bene, il mercato non ha letto così quella mossa, bensì come un segnale di preoccupazione per il continuo aumento – ormai record – del numero di default obbligazionari legati al ramo immobiliare, nascosti in quel casinò legalizzato che si chiama sistema bancario ombra.
Pechino ha dato vita a una politica di contrazione monetaria proprio per sgonfiarlo in maniera controllata, ma l’operazione pare non riuscire. Anzi, sta inviando scossoni in senso contrario ai mercati mondiali, già in fibrillazione per la politica criminale della Fed che sta facendo esplodere i rendimenti obbligazionari globali e schiantando le valute dei mercati emergenti. Insomma, un cocktail potenziale devastante. Ora, pregate che io abbia ragione e che tutto questo sia propedeutico unicamente al raggiungimento di un caos tale a livello globale da giustificare un nuovo round di politiche espansive. Altrimenti sono davvero guai seri. Altro che spread. Altro che Def.
Ecco il modello che vi spacciano come vincente e liberatorio, rispetto al rigore europeo fatto di buon senso, conti in ordine e vincoli di bilancio. Magari eccessivi e un po’ miopi, vedi la Grecia, ma qual è l’alternativa, il default globale? Pensateci, soprattutto quando vi dicono che siamo nel pieno di un complotto di mercati e autorità europee per far cadere il Governo. Si tratta d scegliere se indebitarsi a morte o tirare la cinghia, dicendo qualche “no” ai figli per senso di responsabilità: voi cosa fareste, se parlassimo della vostra famiglia o della vostra azienda? Ne dareste in mano le sorti a Di Maio e Salvini? O a Borghi, magari? E ve lo dice uno che, lo ripeto, da un’eventuale nuova crisi finanziaria non ha proprio nulla da perdere, né da guadagnare a livello economico, politico o di carriera. Altri, chissà.
9 Ottobre 2018
Fonte: qui
Usa e Russia non salveranno l’Italia, ma strangoleranno l’Europa
Le illusioni italo/sovraniste sono fumo. Né Putin né Trump ci aiuteranno. Piuttosto i due leader hanno apparecchiato, da un bel po’, un campo di battaglia il cui nome è Europa
Niente da fare, Vladimir Putin è il più astuto di tutti. Un suo felpato accenno all’acquisto di titoli di Stato italiani e un lungo brivido ha percorso le stanze della politica. Tutti a mettere pressione sull’Italia e sulla manovra spendacciona, tutti a chiedere al dio dei mercati di punire i reprobi e poi arriva il Cremlino a scompaginare tutto. D’altra parte si erano già visti grandi giornali ipotizzare la nostra uscita dall’euro, dalla Ue e dalla Nato e la trasformazione della penisola in una specie di Kamchatka agli ordini del Cremlino. Passata qualche ora, per fortuna, sono arrivati un po’ di economisti e di giornalisti a spiegare che siamo talmente indebitati che il Fondo sovrano russo, con la sua disponibilità di 77,1 miliardi di dollari, non avrebbe la potenza necessaria a tirarci fuori dai guai. Altrettanto lungo brivido di sollievo.
Tutto questo è molto italiano. Voglio dire che, che arrivi un fratellone a difenderci dai bulli. O che intervenga lo stellone, contropiede fulminante all’ultimo minuto e gol. Oggi Putin. Ieri Donald Trump, al quale tra l’altro era stato attribuito l’intento putiniano di acquistare titoli di Stato tircolore. Abbiamo un problema con la Libia e con il controllo dei flussi migratori? La Francia rompe le scatole e, dopo aver sfasciato il Paese dei Gheddafi con cui avevamo trovato un accordo, prova a sfasciare anche quel poco che è rimasto nella speranza che un Quisling locale faccia gli interessi della Total a scapito dell’Eni? E allora Trump! Che ci propone la cabina di regia comune, proprio in vista di quella Conferenza sulla Libia del 12-13 novembre che dovrebbe essere un fiore all’occhiello della nostra politica estera ma, al dunque, ha declinato l’invito, non manderà il segretario di Stato Pompeo e farà rappresentare gli Usa da un modesto consigliere.
Insomma: né la Russia né gli Usa salveranno l’Italia, ficchiamocelo bene in testa. Perché dovrebbero? Siamo simpatici, sufficientemente flessibili (siamo pieni di basi Nato e di bombe atomiche Usa ma andiamo d’accordo con la Russia), deboli, europeisti ma non troppo, se c’è una missione militare all’estero non ci tiriamo indietro, da noi si mangia bene e c’è il caffè migliore del mondo. Ma salvarci dai nostri guai…
La ragione più profonda per cui per i grandi Roma non vale una messa è che Bruxelles, purtroppo, vale assai di più.
L’Europa, oggi, è una sola grande Ucraina. Senza conflitti armati, ovvio. Ma come l’Ucraina è diventata un terreno di scontro tra Usa e Russia.
Per decenni gli Usa hanno usato l’Europa come una piattaforma per l’espansione verso Est allo scopo di confinare la Russia sempre più in là.
Basterebbe leggere i testi dei loro politologi per capirlo, a cominciare da “La grande scacchiera” di Zbigniew Brzezinsky, che fu segretario di Stato con Jimmy Carter. Negli anni Novanta li abbiamo aiutati a ridisegnare i Balcani. Poi, con il grande allargamento del 2004, la Ue ha imbarcato Paesi come Polonia, Repubblica Ceca, i Baltici e la Slovacchia di stretta osservanza atlantica, cosa che ha ridotto la Ue nello stato comatoso che oggi vediamo.
Nel 2008 non abbiamo battuto ciglio quando è stato installato in Polonia e Romania, cioè in Europa, il sistema missilistico che minaccia la Russia, anche se Obama diceva che era per proteggerci dai missili dell’Iran (non ridete, lo diceva proprio). E nel 2014 hanno favorito il regime change in Ucraina, con quello che ne è inevitabilmente derivato. A proposito. Poco prima, a fine 2013, la Russia aveva comprato 13 miliardi di dollari di titoli di Stato ucraini, cosa che in seguito non deve aver contribuito al buonumore del Cremlino.
E adesso?
Ora che hanno raggiunto tutti gli obiettivi politici, gli Usa ci prendono a schiaffoni politico-economici.
Mettono i dazi sulle esportazioni di acciaio e alluminio, minacciano di fare altrettanto sulle automobili, chiedono alla Germania di non fare il gasdotto con la Russia e a noi di fare il Tap con il gas che arriva dall’alleato (loro) Azerbaigian. Usano la Nato e lo stato di tensione permanente con la Russia per spaventarci e tenerci in riga.
Qualche tempo fa il norvegese Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, ha convocato i ministri degli Esteri di tutta Europa a Bruxelles e ha spiegato loro che i nostri Paesi dovrebbero adeguare le infrastrutture (strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti) per renderle adatte al traffico di mezzi militari in un’eventuale guerra con la Russia.
Capito? Da noi crollano le scuole ma dovremmo rifare i ponti per farci passare i carri armati. E nessuno che lo abbia mandato dove meritava.
Usano la Nato e lo stato di tensione permanente con la Russia per spaventarci e tenerci in riga
Per la Russia non è molto diverso. L’Europa è la gallina dalle uova d’oro ma non è che al Cremlino non abbiano strategie alternative. Le leggono anche loro le belle analisi sull’economia russa ancora troppo legata agli idrocarburi, sul Pil ridotto per un Paese di quelle dimensioni ecc. ecc. Vedono anche, però, che il mercato russo e centro-asiatico è sempre molto appetito e si regolano. Pian piano la quota di export energetico verso Ovest si riduce, mentre cresce quella verso Est. Pian piano le importazioni da Ovest si riducono e aumentano quelle dalla Cina. La Germania fa la voce grossa quando si parla di sanzioni, ma il gasdotto lo vuole eccome. Dell’Italia abbiamo detto.
La Francia di Macron voleva il rapporto privilegiato con gli Usa di Trump ed è uscita scornata, ora tenta con Putin ma pare un’impresa disperata. Con qualche manovra militare fa venire i brividi ai baltici e ai finnici. In Libia e in Siria, con l’Iran e la Turchia, fronti dove anche l’Europa è impegnata, sia a titolo collettivo sia come singoli Paesi, spariglia le carte
Lo zar lo dice sempre: a lui conviene un’Europa prospera e tranquilla. Ma non gli conviene questa Ue così succube degli Usa, e qualche scossone allo status quo di Bruxelles prova a rifilarlo. Per esempio appoggiando i “sovranisti” e “populisti” e “nazionalisti” per far venire l’acidità di stomaco a Juncker e a chi gli succederà.
Certo, da tutto questo si potrebbe uscire con un’Europa compatta e politicamente determinata, conscia di sé, disponibile a prendersi le responsabilità che competono a un’entità con 500 milioni di abitanti e un traffico commerciale che corrisponde al 20% di quello planetario. Quindi ad affrontare certe sfide, pur senza andarsi a cercare nemici. Ma non è così, e non lo sarà ancora per un pezzo.
27 ottobre 2018
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Il “metodo Bruxelles” farà sparire l’Europa
Chi ha ragione tra Europa e Italia? Ascoltando anche un’europeista come Romano Prodi si può capire che Bruxelles sta mettendo in serio pericolo l’Unione Europea.
Romano Prodi (Lapresse)
La domanda di oggi, dopo le parole di Draghi, quelle di Moscovici e le rispostacce del Governo italiano, è chi abbia ragione tra “Europa” e “Italia”. Per provare a rispondere citiamo alcune dichiarazioni rilasciate ieri da Romano Prodi: l’Unione si trova in una “situazione di assoluta debolezza di fronte alle trasformazioni del mondo. C’è un detto che dice ‘chi pecora si fa, il lupo se lo mangia’”; ancora: “L’Europa non può essere l’anello passivo, il pungiball delle tensioni e dell’economia politica mondiale. Ci troviamo a discutere di uno scenario che va verso un ulteriore affinamento delle sanzioni. Si tratta di un’involuzione dell’economia internazionale che sta fortemente cambiando lo schema del commercio”. Da ultimo: “Mentre la Russia cerca di compensare con la Cina, l’Europa si trova in un crescente isolamento economico derivante da una continua tensione politica”. Infine, il professore segnala la divisione tra Francia e Germania e come questi due Paesi abbiano, rispettivamente, il “monopolio della politica estera” e “della politica economica” dell’Unione europea.
Facciamo finta che oggi in Italia avessimo un Governo iper-europeista, un Governo Monti o una sua riedizione in versione “Cottarelli”, e che questo Governo aderisse perfettamente alle indicazioni dell’Unione europea in tema di deficit e, per la cronaca, decidesse l’aumento dell’Iva. In questo scenario non “andrebbe tutto bene” non solo per l’Italia ma per l’Europa come continente e come istituzione. La politica economica dell’Unione europea, “l’austerity”, il rifiuto di meccanismi di redistribuzione se non dopo la cessione di sovranità dalla periferia al centro e le regole con cui si impone il rispetto di parametri rigidi e politiche restrittive ai Paesi “indebitati” in fase di recessione stanno determinando la morte dell’Europa. Chi non investe, chi non sa immaginare politiche di investimento a lungo termine finisce nel menù di quelli che quegli investimenti e quelle politiche continuano a farle anche e soprattutto quando le cose vanno male.
Un’Europa che non investe, che non immagina politiche di lungo respiro ed è vittima di un dominio, quello franco-tedesco, che vede l’Europa come strumento diventa una preda da dividersi a pezzi. La scelta di dipendere dalle esportazioni, sposando austerity e deflazione che si impone in via più o meno cruenta a seconda che si sia vicini al centro franco-tedesco, ha messo l’Europa in una condizione di debolezza e ricattabilità evidente. La ribellione ciclica della periferia a cui non arrivano i benefici di una politica economica fondata sulle esportazioni, perché il surplus non viene redistribuito, dà al centro franco-tedesco vittorie tattiche ma strategicamente indebolisce l’Europa come si vede in questi mesi; la ribellione della periferia, capitanata dal Paese che più ha perso (con molti demeriti) dal processo di integrazione europea, è un grimaldello che può essere usato da chi vede l’Europa come un grande mercato in cui vendere i propri prodotti e un avversario in meno nello scacchiere internazionale.
L’Italia ha ragione quando contesta l’austerity che nel resto del mondo è letteralmente incomprensibile e anche quando contesta l’asimmetria del processo di integrazione europea. L’austerity serve per continuare a dare la possibilità alla Germania di esportare con una valuta che è la metà di quella che si meriterebbe “rubando” il surplus commerciale al resto dell’Unione e alla Francia di fare acquisti e monopolizzare tutto il peso geopolitico che l’Europa potrebbe avere; si pensi alla Libia. Ma così l’Europa muore. Non è l’Italia che muore di austerity, ma tutta l’Europa e soprattutto l’Unione europea che oggi non è altro che un oggetto da spartirsi.
L’Italia sbaglia perché pone una questione giustissima, l’assurdità dell’austerity e gli squilibri politici all’interno dell’Unione oltre che i suoi difetti di costruzione, presentando una manovra che ignora quasi completamente il capitolo investimenti, oltre che qualsiasi “spending review” e contiene strumenti, il reddito di cittadinanza, che la burocrazia italiana molto probabilmente oggi non saprebbe gestire. L’Unione europea dovrebbe avere la lucidità di contestare il contenuto, non il numero del deficit che oltretutto non devia nemmeno in modo significativo.
Se l’Europa è l’istituzione dell’austerity come unica politica economica, del piano di 300 miliardi di investimenti di Juncker che finisce nel dimenticatoio un’ora dopo il suo annuncio e della spoliazione della, colpevolissima, Grecia per ripagare gli investimenti sbagliati delle banche francesi e tedesche, allora si merita di finire. Ci rendiamo conto che se la prospettiva è sempre stata che l’Europa andava bene solo se permetteva un beneficio diretto ed esclusivo per un certo Paese allora questa discussione è assurda. Se chi oggi controlla l’Europa non vuole intavolare una trattativa e cambiare una politica perdente perché al progetto non si è mai creduto e perché quel progetto andava bene solo come mezzo, allora meglio sedersi e separarsi “civilmente” senza ulteriori traumi. Lo scenario migliore è un’Europa che funziona e senza gli squilibri che abbiamo imparato a conoscere; ma se questo scenario nella realtà non esiste allora bisogna avere la lucidità di cambiare percorso.
L’incomunicabilità tra Governo italiano e Commissione europea con colpe da entrambe le parti non promette bene. Non aiuta nemmeno il dibattito in Italia ancora dominato da una difesa acritica “dell’Europa” e della “austerity” in una fase in cui perfino politici come Prodi segnalano il tramonto dell’Europa come tale insieme a quello italiano.
27 ottobre 2018
Fonte: qui
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