Il caso Khashoggi ha avuto il merito di mostrare l'intrinseca ipocrisia di un sistema di dominio economico-militare profondamente in declino di cui il trumpismo, assunto ingenuamente a modello da taluni leader politici europei, rappresenta solo il colpo di coda finale.
di Daniele Perra - 1 novembre 2018
A cavallo tra il VI ed il V secolo a. C., il grande pensatore cinese Confucio (anch’egli nel novero di quel gruppo di personaggi, dal Buddha a Zoroastro, fino a Pitagora, che più o meno nello stesso periodo, ma in diverse estremità dello spazio continentale eurasiatico, cercarono di liberare gli uomini dalla schiavitù del dolore) affermò che la decadenza della società umana fosse dovuta essenzialmente al venire meno della corrispondenza tra le cose ed i loro nomi. E che un’efficace riforma della società dovesse partire necessariamente da quell’atto di restaurazione dell’armonia rappresentato dalla rettifica dei nomi.
L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America suscitò da subito reazioni estremamente contrastanti. Molti esultarono per l’elezione del candidato “anti-sistema”, populista e neo-isolazionista. Altri vissero questo momento in modo drammatico ponendo l’accento sulla minaccia pseudo-reazionaria rappresentata dal tycoon newyorkese. Altri ancora (un’esigua minoranza a dire il vero) intuirono da subito che, a prescindere dalla propaganda, in fondo, non sarebbe cambiato poi tanto nella politica nordamericana e nella strategia geopolitica di Washington. E questo esiguo gruppo considerò positivamente l’elezione di Trump per il semplice fatto che avrebbe smascherato l’arcipelago di menzogne che aveva caratterizzato l’era Obama.
Di fatto, l’unico connotato positivo di questa elezione fu proprio quella di aver restituito agli Stati Uniti il loro volto reale di potenza aggressiva sia sul piano militare che economico. In questo senso, Trump ha reso un servigio al mondo intero per il semplice fatto di aver nuovamente chiamato le cose con il loro nome, mostrandole per ciò che sono realmente.
Il suo “merito”, in primo luogo, è stato proprio quello di aver posto fine a quell’illusione (tutta europea) di essere, insieme agli USA, all’interno di un’alleanza paritaria e non verticistica. Trump, attraverso una politica del bastona, dividi e comanda, infatti, ha reso palese l’impotenza geopolitica dell’UE ed imposto alla masochistica e schizofrenica Europa di comportarsi e pensare di nuovo come parte integrante della zona di influenza USA e, dunque, nel rispetto assoluto degli interessi di Washington e non in modo contrario ad essi.
Allo stesso tempo, riconoscendo il fatto che proprio l’UE (ma soprattutto la sua moneta unica) non rientri più negli interessi geo-strategici del centro di comando, ha offerto ai Paesi europei il nuovo paradigma politico-economico del sovranismo, utile strumento ideologico per realizzare il sogno di ogni potenza egemonica: la moltiplicazione delle impotenze.
Favorendo direttamente una politica protezionistica nei confronti della Cina, al posto di accerchiarla lentamente tramite i trattati TPP e TTIP, ha indicato inequivocabilmente chi fosse il nemico principale degli USA. Riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele ha dato corpo ai sogni del sionismo internazionale e a settant’anni di influenza della sua lobby nel Congresso statunitense. Abbandonando unilateralmente il JCPOA (l’accordo sul nucleare iraniano) ed imponendo nuove sanzioni al Paese mediorientale, non solo ha mostrato a tutti quale fosse il vero obiettivo nordamericano nella regione, il cambio di regime a Teheran, ma ha anche evidenziato, ancora una volta, come funzioni la strategia geo-economica statunitense: imporre regimi sanzionatori in modo tale da vendere meglio i propri prodotti e quelli degli alleati diretti. Un caso emblematico in questo senso è rappresentato dalle neanche tanto velate pressioni ai Paesi europei per l’acquisto del gas di scisto nordamericano al posto del gas naturale russo più economico e di maggiore qualità.
Suggerendo l’uscita dal trattato INF (Intermediate-range Nuclear Forces) del 1987, volto a ridurre la proliferazione dei missili con testate nucleari a medio raggio, nonostante proprio la NATO avesse violato per prima gli accordi portando le sue truppe ai confini occidentali della Russia ed addirittura in Georgia ed Ucraina, ha dimostrato la volontà statunitense di ricreare un clima da guerra fredda utile a ricompattare l’Occidente in vista dello scontro contro il nuovo/vecchio nemico: le combattive civiltà eurasiatiche.
Ma il vero capolavoro trumpiano, quello attraverso il quale ha rivelato al mondo intero il meccanismo ipocrita attraverso il quale funziona il sistema di dominio nordamericano, è stato il modo attraverso il quale la Casa Bianca si è rapportata al drammatico caso di Jamal Khashoggi: il giornalista saudita brutalmente ucciso nel consolato del Regno a Istanbul.
Reputando “credibile”, la ricostruzione da barzelletta fornita dall’Arabia Saudita sull’accaduto, secondo la quale il giornalista sarebbe morto a seguito di una violenta colluttazione con alcuni agenti dei servizi segreti, Trump, non solo ha reso palese il già noto sistema “due pesi/due misure” con il quale nell’intero Occidente ci si rapporta a questi casi a seconda del luogo in cui avvengano o dei responsabili veri o presunti (cosa che non sorprende se si considera che una parte non esigua dei mezzi di informazione occidentali viene abbondantemente innaffiata dai petroldollari), ma ha anche reso evidente la sostanziale debolezza della tanto osannata crescita economica seguita alla sua elezione.
Di fatto, l’Arabia Saudita non può essere toccata perché rappresenta un pilastro della geopolitica nordamericana in Medio Oriente, ma soprattutto perché, in larga parte, è grazie alle sue gigantesche commesse militari che il nuovo corso dell’amministrazione statunitense è riuscita a creare posti di lavoro e a rilanciare l’economia.
Nello specifico, per la gioia dell’industria militare statunitense, il rampollo di Casa Saud Mohammed bin Salman, terrorizzato dall’ascesa egemonica iraniana nella regione, ha praticamente dissanguato le casse del Regno per comprare armamenti sempre più sofisticati e per far fronte al calo del prezzo del greggio. Si tratta nel dettaglio di una spesa complessiva di 200 miliardi di dollari su 700 a disposizione nelle riserve monetarie. A cui si aggiunge una gigantesca commessa di oltre 350 miliardi in armamenti entro i prossimi 10 anni.
Tali commesse, teoricamente, alla pari della politica protezionistica nei confronti di 800 categorie merceologiche provenienti dalla Cina, dovrebbero portare a compimento il progetto di re-industrializzazione, ridando vigore, al contempo, a quella classe media progressivamente impoverita da oltre trent’anni di violenta implementazione di politiche neoliberiste che hanno portato (in tutto l’Occidente che ha seguito la via anglo-americana segnata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher) a tutti quei problemi connessi alla terziarizzazione dell’economia, alla selvaggia privatizzazione, alla precarizzazione del mondo del lavoro e dalla de-localizzazione dei comparti industriali.
Tuttavia, se è vero che i dati occupazionali risultano più che positivi, con un tasso di disoccupazione in calo attestatosi attorno al 4% (cosa che ha fatto ricredere sulla malvagità del trumpismo anche taluni opinionisti di area liberal-progressista sempre pronti a guardare il dito senza vedere la luna), è altrettanto vero che è aumentato notevolmente il tasso di disoccupazione allargata (comprendente i lavoratori marginali), salito ad oltre il 7%. Un dato che lascia intravedere le prime crepe di un paradigma economico fondato su una sorta di nazionalismo neoliberista che non mira affatto a sanare gli squilibri posti in essere proprio dall’implementazione delle suddette politiche di stampo neoliberista degli anni precedenti. Negli Stati Uniti, così come in larga parte dei Paesi occidentali, i figli erediteranno la condizione disagiata dei genitori, percependo salari addirittura nettamente inferiori rispetto a quelli dei genitori.
Dunque, a prescindere da un crescita del PIL attestatasi attorno al 4% nel 2017, l’economia statunitense sembra tutt’altro che in salute. Ed una nuova recessione dovuta a potenziali crisi interne non è affatto da escludersi. Diversi sono i settori in sommovimento. Le quotazioni delle società legate ai social media sono totalmente irrealistiche. I prestiti al consumo ed i prestiti agli studenti hanno conosciuto un’impennata di fronte ad un sistema educativo sempre più costoso e sempre meno inclusivo.
A ciò si aggiunga che la politica dei dazi implementata dall’amministrazione Trump, in modo abbastanza atipico, colpisce non solo i prodotti finali ma anche i beni intermedi. E questa politica risulta quantomeno inusuale perché gli USA esportano oltre 2000 miliardi di beni intermedi necessari alla manifattura di beni finali Made in USA. E di questi 2000 miliardi, 550 provengono proprio dalla Cina, contro i 185 miliardi esportati dagli USA in Cina. È chiaro che non tutte le imprese statunitensi possano permettersi di alzare i costi di produzione senza incidere in modo determinante sul prezzo finale per il consumatore. Così, i dazi, nel breve/medio periodo (12/18 mesi dalla loro introduzione), ricadranno direttamente sul cittadino in termini di prezzo più alto al consumo a cui farà seguito una riduzione drastica della domanda interna.
Inoltre, dopo una campagna elettorale incentrata sullo sfruttamento del malcontento della classe lavoratrice, giunta alla Casa Bianca, l’amministrazione “anti-sistema”, soprattutto in termini di sistema fiscale, ha finito per favorire ancora una volta i ceti più abbienti, tagliando allo stesso tempo sul welfare ed aumentando le spese militari, mostrando così il suo carattere assolutamente in linea con i desiderata del cosiddetto Deep State.
Manovre che stupiscono solo a metà se si considera che il presidente Trump ha sempre indicato come suoi riferimenti ideologici e politici i già citati Reagan e Thatcher. Modelli che certi leader della destra europea (Italia compresa), in ascesa nei sondaggi ma evidentemente a corto di idee, hanno eletto come propri pur di compiacere il nuovo inquilino di Washington.
Nonostante la dialettica occidentale si divida ancora tra chi continui a reputare Trump come un “rivoluzionario” (sic!) e chi lo ritenga quantomeno inadeguato al ruolo, ciò che realmente appare evidente è che la rinnovata retorica aggressiva statunitense non sia altro che uno strumento utile per mascherare una sostanziale debolezza di fronte alle sfide portate dai nuovi protagonisti del mondo multipolare. Forze che stanno portando avanti a tappe forzate il processo di de-dollarizzazione dell’economia globale.
Russia, Cina ed Iran hanno già gettato le basi per eliminare l’intermediazione del dollaro nei loro scambi bilaterali. Il Ministero delle Finanze della Federazione Russa ha già varato un piano strategico per eliminare definitivamente la dipendenza del Paese dal dollaro entro il 2024: un programma iniziato come reazione alla politica sanzionatoria imposta all’indomani della crisi ucraina. E l’attuale alleanza tra Cina e Russia è proprio consacrata sull’eliminazione del dollaro nel reciproco interscambio commerciale.
L’attivismo di questi stessi Paesi, cui si aggiunge quello di Germania e Venezuela, sul mercato aurifero non sembra escludere un potenziale ritorno futuro al golden standard in sostituzione del sistema centrato sulla moneta statunitense. Ed è un dato di fatto che accumulando ingenti riserve aurifere un Paese si renda capace di blindare la propria sovranità reale ponendosi anche nella condizione di poter resistere di fronte a qualsiasi calamità economica che colpisca le monete più diffuse: dollaro, euro o sterlina. Anche il Venezuela ha scelto di abbandonare il dollaro e utilizzare l’euro come valuta di riferimento nei propri scambi internazionali. E non sorprende affatto che il cambio di regime in questo Paese sia stato inserito nell’agenda internazionale del Pentagono. Un’operazione che con tutta probabilità potrà usufruire anche dell’appoggio del fantoccio Bolsonaro nel vicino Brasile.
Proprio la vittoria del candidato nazionalista, ultrasionista e ultraliberista Jair Bolsonaro (definito non sorprendentemente il “Trump brasiliano” da Steve Bannon), se da un lato può essere letta come un successo del trumpismo, dall’altro lascia aperte non poche incognite sul futuro del Paese sudamericano e più in generale dell’intero continente. La volontà statunitense di rinchiudere il “giardino di casa” in una nuova Dottrina Monroe che renda più facile concentrarsi sulla proiezione della propria potenza oltreoceano potrebbe infatti impattare con l’inevitabile inasprimento dei conflitti sociali derivante dall’implementazione di politiche (già promesse dallo stesso Bolsonaro) volte a cancellare i diritti dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e dei ceti meno abbienti.
Se la situazione degli USA non è rosea, i loro i più stretti alleati, soprattutto nell’area mediorientale, non stanno affatto meglio. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ossessionato dalla presenza iraniana in Siria, è costretto a periodiche sceneggiate all’ONU nel corso delle quali presenta “inconfutabili” prove delle violazioni iraniane del JCPOA. Non ultima quella in cui ha presentato un centro di lavaggio tappeti come laboratorio di arricchimento dell’uranio.
Proprio la resistenza della Siria ha determinato una vera e propria catastrofe geopolitica per la strategia nordamericana e sionista nella regione. Israele ha perso la supremazia della sua aeronautica militare ulteriormente messa in discussione dal definitivo dispiegamento delle batterie S-300 in territorio siriano. Inoltre, la vittoria delle forze lealiste ha aperto le porte ai capitali cinesi per la ricostruzione e la trasformazione del Paese in hub commerciale mediterraneo per le merci che attraverseranno la nuova Via della Seta. Una rete commerciale internazionale “terrestre” che teoricamente dovrebbe consentire alla Cina (il più grande esportatore di energia al mondo) di sfuggire al controllo statunitense sui flussi energetici e di sancire la definitiva esclusione degli USA dallo spazio eurasiatico.
Non migliore è la situazione dell’Arabia Saudita: elemento centrale della strategia di contenimento all’Iran. Il principe ereditario, vero reggitore del Regno, è riuscito nell’impresa di fallire in ogni campo. L’esercito saudita è impantanato nello Yemen dove, tra un massacro di civili e l’altro, in oltre tre anni di brutale aggressione non è riuscito ad ottenere alcun reale successo militare. Il presunto accerchiamento al Qatar non ha prodotto alcun risultato. Ed anche a livello interno la situazione non è migliore. La pulizia etnico-confessionale nella regione orientale di al-Qatif a maggioranza sciita prosegue nel silenzio dei media internazionali.
Il malcontento di molti membri della famiglia reale nei confronti di Mohammed bin Salman è sempre più evidente ed il caso Khashoggi, con contorno di potenziali sanzioni (che ovviamente non colpiranno in alcun modo gli affari nordamericani col Regno) l’ha ulteriormente esacerbato. Molto probabilmente un altro giro di purghe questa volta non sarà sufficiente per ricompattare l’élite dirigente attorno al rampollo, al quale Re Salman, sicuramente ignaro che anni fa Albert Einstein affermò che non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che l’ha prodotto, ha addirittura affidato la riforma dei servizi segreti dopo l’omicidio del controverso giornalista che in più di un’occasione sostenne il progetto di smembramento della Siria.
Paradossalmente l’unico fronte sul quale gli USA sembrano in vantaggio è quello europeo. I Balcani nella quasi totalità sono stati sottoposti all’egemonia della NATO. Il Gruppo Visegrad è ormai ridotto a mero strumento geopolitico per il contenimento e controllo della Russia insieme agli altri Paesi dell’Europa orientale votati, con la sola esclusione della Bielorussia, a costituire una sorta di “cordone sanitario atlantico” ai confini occidentali di Mosca. Gran Bretagna e Italia, in cui il discorso politico si è rapidamente “trumpizzato”, sono state elette a grimaldello per smontare quella miserabile costruzione denominata UE che non rientra più nel disegno egemonico nordamericano.
Tuttavia, se nel breve periodo l’idea di assecondare il progetto statunitense di smantellamento della zona euro potrebbe sembrare vantaggioso per diversi Paesi europei, quelli che possono essere gli effetti nel lungo periodo sono tutti da valutare. Soprattutto perché l’Europa necessita di una struttura comune per poter ricoprire un ruolo di primo piano nel futuro ordine multipolare. E persistere nell’errore della subalternità ad un “impero”, comunque destinato ad implodere a causa della sua stessa sovra-estensione, non appare affatto come una strategia geopolitica lungimirante.
Fonte: qui
Nessun commento:
Posta un commento