Il Global Competitiveness Report del World Economic Forum certifica lo stato terrificante del nostro apparato pubblico, la vera zavorra di un sistema economico che potrebbe volare, se non fosse per le tasse, la giustizia, la burocrazia (e pure il suo sistema finanziario)
Appunti per la prossima campagna elettorale, per la prossima legislatura, per i prossimi cinque, dieci, cento anni:
la riforma radicale dello Stato italiano, di quel pachiderma pubblico
che governa la nostra economia e i nostri rapporti sociali è la cosa più
importante da fare, forse l’unica che conta. Non bastasse
l’esperienza diretta con la burocrazia, con la giustizia, con il fisco,
potete rafforzare le vostre convinzioni leggendo i numeri del Global Competitiveness Report 2017-2018 del World Economic Forum, pubblicato qualche giorno fa.
Per i meno avvezzi: si tratta di un rapporto che mette in fila 137
Paesi del mondo sulla base di 12 macro categorie, dalle istituzioni alle
infrastrutture, dalle efficienza del mercato ai dati macroeconomici,
sino al sistema finanziario, a quello educativo, all’ecosistema
dell’innovazione.
Risultato finale? Siamo 43esimi su 137,
una posizione avanti rispetto allo scorso anno, sei avanti rispetto al
2015, una indietro rispetto al Portogallo, l’ultimo Paese dell’Europa
occidentale ad averci superato. Per gli ottimisti, un segnale di
ripresa. Per i pessimisti, la prova maestra che stiamo arretrando
rispetto al resto del Vecchio Continente.
Fate voi. Indipendentemente da come vanno gli altri, a noi interessa capire perché andiamo così noi. Perché
una delle prime dieci economie del mondo ha un indice di competitività
inferiore a quello di Cile, Thailandia, Polonia e Azerbaijan. Ci limitiamo agli highlight:
siamo 134esimi (su 137, non dimenticatelo: in classifica ci sono pure
mamma Africa e tutto il cosiddetto Terzo Mondo) come fardello della
regolazione governativa e come efficienza della cornice legale nelle dispute civili. Ancora: 126esimi come trasparenza nel policymaking e nell’efficienza nella spesa pubblica.
Il tutto, ci costa una tassazione che è la 126esima più salata del
mondo (anche se stiamo migliorando un po’, pare), la quale a sua volta è
la terzultima sul pianeta (135esima, se vi piace leggerla dritta) per
quanto disincentiva gli investimenti. E ovviamente un debito pubblico in
rapporto al Pil superato (in negativo) solo da quattro Paesi.
Al cocktail, se volete, possiamo aggiungere un sistema finanziario che complessivamente si posiziona al 126esimo posto,
soprattutto per una disponibilità di venture capital che vede al
127esimo posto, per un accesso al credito che si piazza al 120esimo e
una solidità bancaria - quelle banche che “erano le più solide di
tutte” nel 2008: come cambiano le cose - che ci posiziona al 116esimo
posto. E un mercato del lavoro che è leggermente migliorato, ma
che nonostante il Jobs Act è ancora uno dei meno efficienti del pianeta
(116esimo).
E dire che abbiamo un sistema d’imprese sofisticato e con un livello
di specializzazione altissimo, che abbiamo distretti sviluppati (ottavi
al mondo) e catene del valore lunghe e solide (undicesimi). Non bastasse, abbiamo pure il dodicesimo Pil pro-capite al mondo e pure il dodicesimo mercato interno.
Perle ai porci, fino a quando ci porteremo dietro zavorre come quelle
attuali, fino a quando non capiremo che un pezzo alla volta, il brutto
Stato che ci rallenta e ostacola, va smontato pezzo per pezzo e
ricostruito ex novo. Non un lavoro semplice, né breve. Ma abbiamo la
terza aspettativa di vita al mondo. Possiamo aspettare, purché
cominciate.
Fonte: qui
Nessun commento:
Posta un commento