Nel 2016 sono stati 114.512 gli italiani che si sono trasferiti all’estero: è record di italiani che se ne vanno, più di spagnoli e tedeschi, mai successo prima. In media chi parte ha tra i 25 e i 34 anni ma dal 2011 sono aumentati del 225% i giovanissimi, tra i 20- 24 anni
Sembrava dovesse essere uno dei tanti luoghi comuni esagerati dai media. La “fuga dei cervelli” a guardare le cifre di pochi anni fa, (quando Caparezza cantava “Da qui se ne vanno tutti”, per intenderci) appariva essere inferiore a quella sofferta da altri Paesi anche più prosperi. Pareva essere semplicemente l’ingresso dell’Italia nell’era della mobilità internazionale, inevitabile con la globalizzazione, più che un segno di allarme.
E invece no, a guardare i dati degli ultimissimi anni, il problema c’è, e si è aggravato. E, cosa molto indicativa, si è aggravato proprio mentre l’economia europea ed italiana usciva dalla crisi e si registrava altrove un’inversione del trend dell’emigrazione.
Nel 2016 sono stati 114.512 gli italiani che si sono trasferiti all’estero. Erano 84.560 nel 2015, 73.415 nel 2014, e solo 37.129 nel 2009. Una crescita di 3 volte, dunque, accelerata nell’ultimo anno. Attenzione, si tratta qui solo degli italiani nati in Italia, non sono inclusi gli stranieri. Per questo il dato è ancora più significativo.Non vi sono grandi Paesi che abbiano vissuto una crescita del fenomeno paragonabile all’Italia.Anzi, in gran parte dei casi con la fine della crisi economica vi è stato anche un calo del numero di emigrati. Un caso peculiare è quello spagnolo. Si è passati da 75.765 a 67.738 tra il 2015 e il 2016, nello stesso lasso di tempo in cui in Italia sono cresciuti di 30 mila. Uno dei tanti segni della differenza tra la ripresa spagnola, che viaggia a ritmi per noi inarrivabili, e la nostra. Oggi gli italiani emigrano, in proporzione agli abitanti, più di spagnoli e tedeschi, cosa mai accaduta prima. Se non fosse per l’improvvisa crescita di “cervelli in fuga” britannici nel 2016 (dovuta alla Brexit?) anche il Regno unito sarebbe superato.
Anche volendo allargare il confronto a tutti i Paesi europei, anche quelli minori. l’Italia si è piazzata tra il 2015 e il 2011, gli anni i cui dati sono disponibili su Eurostat, al quarto posto quanto ad aumento dell’emigrazione degli autoctoni, con un +104,3%. Con il balzo del 2016 l’Italia sarebbe prima, davanti anche a Croazia, Ungheria, Slovenia.
Da notare che nello stesso periodo il deflusso di stranieri dal nostro Paese è stato appena del 18,8%.
Chi se ne va? Certo, in gran parte sono i giovani tra i 25 e i 34 anni, che componevano nel 2015 più del 45% del totale degli emigranti. E tuttavia dal 2011 sono cresciuti più di tutti i giovanissimi, tra i 20 e i 24 anni, +225%.
C’è un piccolo picco, +109,6%, anche tra i 50-54enni. La crescita dell’esodo di italiani in generale non trascura nessuna età.
Provengono però in maggioranza dal Nord. In particolare nel 2016, l’anno del grande aumento dell’emigrazione.
C’è una proporzione sugli abitanti del 0,29% e del 0,26% in Trentino Alto Adige e in Friuli Venezia Giulia, terre di confine, ma seconda a pari merito è la Lombardia, la regione più ricca d’Italia. E all’ultimo posto vi sono Puglia, Campania, Basilicata, con una densità di emigranti della metà.
Dunque, se i lombardi emigrano il doppio dei campani cosa significa?
Se volessimo essere ottimisti potremmo dire che in fondo è la globalizzazione. Che dalle regioni con più connessioni con l’economia mondiale i giovani vadano a lavorare all’estero è cosa buona e giusta, fisiologica, e non c’è da preoccuparsi, anzi.
Tuttavia perchè proprio in quei Paesi con una crescita maggiore della nostra, più aperti al mondo, è in atto un calo di questo fenomeno? In primis in quella Spagna che ha vissuto tanto una crisi quanto una ripresa più intense delle nostre.
Qualcosa non va, l’aumento dell’esodo tra 2015 e 2016 è veramente importante, non sono certo tutti giovani che vanno a fare i rappresentanti esteri di floride aziende italiane. Il sospetto è che questa ripresa fatta dalla spalmatura del lavoro su moltissimi soggetti, ognuno pagato poco e contrattualizzato a termine, in settori a bassissimo valore aggiunto, c’entri qualcosa.
Che il calo degli inattivi produca sempre più giovani che vogliono impiegarsi, e che sempre più decidano di non accontentarsi delle opportunità offerte, anche quando, come al Nord, queste ci sono, ma si rivelano essere un contratto di 6 mesi, uno strapuntino in qualche angolo del settore dei servizi la cui esistenza futura è totalmente imprevedibile.
Fonte: qui
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