Nel 2017 la percentuale di lavoratori tra i 18 e i 24 anni a rischio di povertà nell’Unione europea (UE) è stata stimata all’11,0% (l’Italia è di poco sopra la media, 12,3%), -1,1% rispetto al 2016. La percentuale è diminuita ogni anno dal picco del 2014 (12,9%).
La più alta percentuale di giovani lavoratori a rischio di povertà nel 2017 era in Romania (28,2%), seguita da Lussemburgo (20,0%), Danimarca (19,1%), Spagna (19,0%) ed Estonia (18,4 %). Al contrario, tre Paesi con tassi inferiori al 5% sono Repubblica Ceca (1,5%), Slovacchia (3,8%) e Finlandia (4,2%).
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Nell’eurozona ormai si vive per lavorare
C’è un prima e c’è un dopo, nel mercato del lavoro dell’eurozona, con il 2008 a far da spartiacque per la semplice ragione che in quel momento si è verificata una crisi internazionale, che però, a ben vedere, è solo un utile pretesto. Il prima e dopo, nel mercato del lavoro dell’eurozona, dipende almeno altrettanto sostanzialmente dal tempo che è trascorso fra il 1999 e il 2008, ossia il prima, e il 2013 e il 2018, che rappresenta il dopo. Un arco di vent’anni nei quali si è verificato un sostanziale invecchiamento della popolazione, ossia della forza lavoro.
Questo prima e dopo non riguarda ovviamente solo la componente demografica, ma anche quella settoriale e, soprattutto, quella professionale, che ad essa in qualche modo è collegata. La crisi, se davvero ha funzionato da spartiacque, è servita a focalizzare le preferenze del mercato su una tipologia precisa di lavoratori: quelli con un livello di istruzione più elevato e una forte vocazione verso i servizi di mercato. Ed ecco che si delinea l’identikit del lavoratore che in qualche modo è uscito vincitore dalla crisi: ultra55enne, molto istruito con vocazione verso attività di servizio.
C’è anche un altro prima e dopo, nel mercato del lavoro europeo, che una bella analisi pubblicata nell’ultimo bollettino della Bce ci consente di visualizzare con chiarezza.
Nel primo periodo fra il 1999 e il 2008 era la Spagna ad attirare lavoro e quindi flussi migratori. Oltre 6 milioni di lavoratori, che pesavano il 35% del totale dei posti di lavoro creati nel periodo nella zona euro, avevano trovato occupazione in Spagna, molti dei quali grazie al settore delle costruzioni, che pesava oltre il 10% dei posti di lavoro creati, per un totale di 1,9 milioni di persone. Nel dopo, ossia il periodo fra il 2013 e il 2018, è la Germania a far da calamita alla nuova occupazione, con quasi il 30% dei posti creati per circa 2,6 milioni di posizione a fronte di poco più del 10% del periodo precedente. Sola, fra le economia principali dell’area, a veder crescere la sua quota relativa di espansione dell’occupazione. Oltre alla Spagna, infatti, perdono quota la Francia e l’Italia. La metamorfosi del mercato del lavoro dell’eurozona non ha premiato solo gli anziani istruiti, ma anche le economie meglio attrezzate.
Vale la pena tornare un attivo sulla composizione della forza lavoro per osservare concretamente come sia mutata.
Il grafico ci consente di trarre alcuni spunti di riflessione. I lavoratori con titolo di studio medio, che nel primo periodo esprimevano ancora il 60% dell’espansione dell’occupazione cumulata, nel secondo solo crollati a circa la metà. Al contrario, i lavoratori con titolo di studio più elevato, che erano allo stesso livello di quelli medi nel primo periodo, hanno visto aumentare al quota all’80%. In calo le occupazione con basso titolo di studio sia nel primo che nel secondo periodo. Da ciò possiamo dedurre che il mercato del lavoro europeo richiede qualifiche sempre più elevate e questo dovrebbe essere una indicazione utile per le famiglie e gli stati, che dovrebbero investire massicciamente sull’istruzione.
Merita di essere sottolineato anche lo scivolamento verso l’età anziana dell’espansione dei posti di lavoro. Nel primo periodo i 25-54enni rappresentavano oltre il 60% di queste espansione, dopo appena il 20. Certo, molti sono invecchiati, passando nella coorte dei 55-74enni, allargata anche grazie alle riforme pensionistiche che hanno aumentato l’età pensionabile in molti paesi europei. Ma l’effetto demografico, che porta necessariamente con sé anche una maggiore stabilità contrattuale, spiega solo una parte di questa evoluzione. E soprattutto lascia aperto un enorme problema. Se il lavoro si concentra sulle fasce più attempate e istruite della popolazione, cosa ne sarà di quelle più giovani e meno istruite? Questo ovviamente la Bce non può saperlo. Però possiamo fare un’ultima riflessione osservando un altro grafico, quello relativo alla scomposizione dell’aumento del lavoro guardando alla forma contrattuale.
“L’espansione dell’occupazione nell’area dell’euro nel corso della recente ripresa – spiega la Bce – è stata trainata da tipologie di contratti a tempo pieno e prevalentemente indeterminato, con circa l’80 per cento dell’intera crescita derivante da un aumento dell’occupazione a tempo pieno”. Ma al tempo stesso “mentre l’espansione dell’occupazione si concentra ancora nelle posizioni a tempo indeterminato, l’occupazione a tempo determinato adesso rappresenta una percentuale più ampia della crescita dell’occupazione, mentre il lavoro autonomo è in diminuzione”. Ed ecco che si delinea l’identikit del nostro lavoratore europeo prossimo venturo: più anziano, più istruito, disposto a spostarsi verso le economie dinamiche e a lavorare con contratti a tempo determinato con la prospettiva di un lavoro a tempo indeterminato, ma per una vita lavorativa più lunga, che probabilmente richiederà una formazione permanente, e prospettive pensionistiche assai meno generose di prima. Significa vivere, pianificando bene le scelte fin da giovani, per lavorare.
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Gli ultimi tre anni che abbiamo passato sono stati notevolmente rilevanti per il mercato del lavoro, i prossimi tre che abbiamo innanzi saranno ancora più impattanti. Viviamo in epoca in cui tendenze sociali, tecnologiche e demografiche stanno rapidamente modificando il modo di lavorare e le relazioni che abbiamo con le persone con cui ci confrontiamo quotidianamente. Chi si trova ad avere ancora un’età adolescenziale o chi sta valutando di cambiare il proprio percorso di vita non dovrebbe più di tanto concentrarsi sulla ricerca delle risposte ritenute corrette quanto piuttosto sulle domande che egli stesso di dovrebbe porre. Molta insofferenza giovanile è attribuibile infatti non tanto al lavoro, quanto al fatto di come quest’ultimo stia cambiando troppo velocemente anche per le persone più adattabili. Le generazioni precedenti soprattutto quelle che oggi sono ormai ritirate da tempo dal mercato del lavoro non sono purtroppo in grado nè di dare consigli e nè tanto meno moniti, trattandosi di un mondo completamente distante dal loro passato stile di vita. Non è casuale che le giovani generazioni parlino di mercato del lavoro e non del mondo del lavoro, enfatizzando pertanto la sfida quotidiana per la sopravvivenza tra i propri simili. Rispetto alla fine degli anni Novanta il lavoro di una persona priva di particolare capacità o competenze professionali possiamo dire che è diventato sporadico ed intermittente. Attenzione che questo vale anche per le persone che hanno conseguito un titolo di laurea breve in materie umanistiche o di modesto valore scientifico.
Abbiamo già fatto menzione del modello economico che sta alla base della gig economy in un precedente post, ora sembra che la sua evoluzione e diffusione ci stia portando alla piattaformizzazione del lavoro. Termine decisamente infelice, non solo per la sua pronuncia: in buona sostanza la ricerca di lavoro avviene attraverso l’interazione di piattaforme digitali su cui mettere in mostra le proprie abilità, competenze o disponibilità. Gli Stati Uniti come sempre sono apripista rispetto a tutti, nel bene e nel male: lo scorso anno la gig economy è stata valutata avere un giro d’affari di oltre 80 miliardi di dollari mettendo assieme gli apporti di note piattaforme digitali come Task Rabbit o Freelancer. Sempre più persone sono costrette a rendersi disponibili per lavori one shot con l’idea romantica di costruirsi nel tempo un proprio parco clienti. Sappiamo che circa i 2/3 dei compiti, mansioni e lavori attuali entro i prossimi 25 anni saranno sostituiti da robot, algoritmi, programmi di intelligenza artificiale e cosi via. A fronte di questo scenario che vede da un lato la piattaformizzazione della capacità lavorativa delle persone umane e dall’altro l’ingresso di competitors diversamente umani, la domanda da porsi è come si riuscirà a sopravvivere dal momento che già oggi il mercato del lavoro produce opportunità di occupazione ad intermittenza ?
Le più grandi fondazioni di studi sociali al mondo volute da filantropi illustri come Bill Gates studiano da diversi anni la risposta a questo interrogativo, soprattutto con l’idea di dare supporto ed un mind set-up alle classi dirigenti politiche che verranno. L’automazione e l’intelligenza artificiale aumenteranno a dismisura la disuguaglianza sociale, esattamente quello che uno non si aspetterebbe. Se molti lavori e mansioni che oggi definiamo basici, ripetitivi e con basso valore aggiunto verranno svolti da macchine intelligenti, che fine faranno le persone che prima erano occupate a fare questo ? Come evolverà allora il PIL di una nazione che perderà i consumi generati dai salari e stipendi da coloro i quali saranno surclassati dall’automazione robotica ? Alcuni visionari hanno ipotizzato la robot tax per creare una provvista finanziaria necessaria a sostenere con sussidi miserrimi le persone che perderanno il posto di lavoro a causa di un robot. Fate attenzione: tutte le rivoluzioni sono iniziate quando vi era troppo divario tra le classi agiate e quelle molto povere, seppur in presenza di ammortizzatori sociali. Questo scenario sembra disegnare un mondo opposto a quello ipotizzato dalla fantascienza: saranno più gli umani a ribellarsi ai robot piuttosto che il contrario.
Per questo motivo da qualche anno stanno prendendo piede trasversalmente nelle economie occidentali le proposte politiche per una sorta di reddito di cittadinanza o di un reddito di esistenza, volto a garantire nel prossimo futuro uno stile di vita almeno decoroso (e quindi non pericoloso per l’establishment che governa, qualunque sarà). Sarà un mondo 6-1 o 6-0 il che vale a dire o sei uno o sei zero. In altre parole, o riesci a fare qualcosa che una macchina non è in grado di gestire o analizzare, oppure in assenza di peculiarità sei una nullità e pertanto ti dovrai accontentare della rendita minima e del reddito di cittadinanza in quanto difficilmente ti verrà proposto una mansione (attenzione, non un posto di lavoro) ben retribuita. L’evoluzione umana si è sempre manifestata attraverso mutamenti molto impattanti ed a volte sofferenti sul piano sociale.
Pensiamo solo che all’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra nel 1750 quando vennero presentati i primi modelli di telaio tessile vi furono scontri e rappresaglie nei confronti dei vari padroni che volevano installare tali diavolerie nelle prime fabbriche. Il telaio tessile infatti buttava fuori dal mercato e dalle fabbriche decina di migliaia di cucitrici che erano allora ben contente di fare un lavoro monotono, basico e manuale. Proprio tale mestiere permetteva infatti loro di guadagnare un modesto salario che consentiva la sopravvivenza in quella che allora sembrava il futuro che avanzava: l’abbandono delle campagne per una squallida vita in un sobborgo metropolitano. Le attività di sabotaggio industriale perpetrate dalla maestranze operaie inglesi furono talmente frequenti durante la seconda metà del 1700 che diedero vita ad un autentico movimento di protesta operaia conosciuto con il nome di luddismo il quale quando si diffuse anche in Francia assunse addirittura le dimensioni di una insurrezione nazionale di stampo giacobino. Il luddismo deve il suo nome ad un giovane operaio inglese, Ned Ludd, il quale (almeno cosi narrano le cronache) distrusse materialmente un telaio in una fabbrica inglese ubicata da qualche parte nella regione delle Midlands. Il fatto lo innalzò a sommo rappresentante ed eroe per tutto il proletariato inglese tanto da diventare nel tempo una sorta di personaggio leggendario che avrebbe protetto e vendicato gli operai sconvolti dalle conseguenze della rivoluzione industriale al grido di people first (prima la gente). Al luddisti sono attribuite migliaia di operazioni di sabotaggio industriale tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800: la rivoluzione industriale aveva infatti apportato innovazioni tecniche che provocavano un grave senso di impotenza ed insicurezza nel proletariato operaio, oltre che accentuare la differenza sociale tra i padroni e gli operai.
LAVORO E ROBOT
Gli ultimi tre anni che abbiamo passato sono stati notevolmente rilevanti per il mercato del lavoro, i prossimi tre che abbiamo innanzi saranno ancora più impattanti. Viviamo in epoca in cui tendenze sociali, tecnologiche e demografiche stanno rapidamente modificando il modo di lavorare e le relazioni che abbiamo con le persone con cui ci confrontiamo quotidianamente. Chi si trova ad avere ancora un’età adolescenziale o chi sta valutando di cambiare il proprio percorso di vita non dovrebbe più di tanto concentrarsi sulla ricerca delle risposte ritenute corrette quanto piuttosto sulle domande che egli stesso di dovrebbe porre. Molta insofferenza giovanile è attribuibile infatti non tanto al lavoro, quanto al fatto di come quest’ultimo stia cambiando troppo velocemente anche per le persone più adattabili. Le generazioni precedenti soprattutto quelle che oggi sono ormai ritirate da tempo dal mercato del lavoro non sono purtroppo in grado nè di dare consigli e nè tanto meno moniti, trattandosi di un mondo completamente distante dal loro passato stile di vita. Non è casuale che le giovani generazioni parlino di mercato del lavoro e non del mondo del lavoro, enfatizzando pertanto la sfida quotidiana per la sopravvivenza tra i propri simili. Rispetto alla fine degli anni Novanta il lavoro di una persona priva di particolare capacità o competenze professionali possiamo dire che è diventato sporadico ed intermittente. Attenzione che questo vale anche per le persone che hanno conseguito un titolo di laurea breve in materie umanistiche o di modesto valore scientifico.
Abbiamo già fatto menzione del modello economico che sta alla base della gig economy in un precedente post, ora sembra che la sua evoluzione e diffusione ci stia portando alla piattaformizzazione del lavoro. Termine decisamente infelice, non solo per la sua pronuncia: in buona sostanza la ricerca di lavoro avviene attraverso l’interazione di piattaforme digitali su cui mettere in mostra le proprie abilità, competenze o disponibilità. Gli Stati Uniti come sempre sono apripista rispetto a tutti, nel bene e nel male: lo scorso anno la gig economy è stata valutata avere un giro d’affari di oltre 80 miliardi di dollari mettendo assieme gli apporti di note piattaforme digitali come Task Rabbit o Freelancer. Sempre più persone sono costrette a rendersi disponibili per lavori one shot con l’idea romantica di costruirsi nel tempo un proprio parco clienti. Sappiamo che circa i 2/3 dei compiti, mansioni e lavori attuali entro i prossimi 25 anni saranno sostituiti da robot, algoritmi, programmi di intelligenza artificiale e cosi via. A fronte di questo scenario che vede da un lato la piattaformizzazione della capacità lavorativa delle persone umane e dall’altro l’ingresso di competitors diversamente umani, la domanda da porsi è come si riuscirà a sopravvivere dal momento che già oggi il mercato del lavoro produce opportunità di occupazione ad intermittenza ?
Le più grandi fondazioni di studi sociali al mondo volute da filantropi illustri come Bill Gates studiano da diversi anni la risposta a questo interrogativo, soprattutto con l’idea di dare supporto ed un mind set-up alle classi dirigenti politiche che verranno. L’automazione e l’intelligenza artificiale aumenteranno a dismisura la disuguaglianza sociale, esattamente quello che uno non si aspetterebbe. Se molti lavori e mansioni che oggi definiamo basici, ripetitivi e con basso valore aggiunto verranno svolti da macchine intelligenti, che fine faranno le persone che prima erano occupate a fare questo ? Come evolverà allora il PIL di una nazione che perderà i consumi generati dai salari e stipendi da coloro i quali saranno surclassati dall’automazione robotica ? Alcuni visionari hanno ipotizzato la robot tax per creare una provvista finanziaria necessaria a sostenere con sussidi miserrimi le persone che perderanno il posto di lavoro a causa di un robot. Fate attenzione: tutte le rivoluzioni sono iniziate quando vi era troppo divario tra le classi agiate e quelle molto povere, seppur in presenza di ammortizzatori sociali. Questo scenario sembra disegnare un mondo opposto a quello ipotizzato dalla fantascienza: saranno più gli umani a ribellarsi ai robot piuttosto che il contrario.
Per questo motivo da qualche anno stanno prendendo piede trasversalmente nelle economie occidentali le proposte politiche per una sorta di reddito di cittadinanza o di un reddito di esistenza, volto a garantire nel prossimo futuro uno stile di vita almeno decoroso (e quindi non pericoloso per l’establishment che governa, qualunque sarà). Sarà un mondo 6-1 o 6-0 il che vale a dire o sei uno o sei zero. In altre parole, o riesci a fare qualcosa che una macchina non è in grado di gestire o analizzare, oppure in assenza di peculiarità sei una nullità e pertanto ti dovrai accontentare della rendita minima e del reddito di cittadinanza in quanto difficilmente ti verrà proposto una mansione (attenzione, non un posto di lavoro) ben retribuita. L’evoluzione umana si è sempre manifestata attraverso mutamenti molto impattanti ed a volte sofferenti sul piano sociale.
Pensiamo solo che all’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra nel 1750 quando vennero presentati i primi modelli di telaio tessile vi furono scontri e rappresaglie nei confronti dei vari padroni che volevano installare tali diavolerie nelle prime fabbriche. Il telaio tessile infatti buttava fuori dal mercato e dalle fabbriche decina di migliaia di cucitrici che erano allora ben contente di fare un lavoro monotono, basico e manuale. Proprio tale mestiere permetteva infatti loro di guadagnare un modesto salario che consentiva la sopravvivenza in quella che allora sembrava il futuro che avanzava: l’abbandono delle campagne per una squallida vita in un sobborgo metropolitano. Le attività di sabotaggio industriale perpetrate dalla maestranze operaie inglesi furono talmente frequenti durante la seconda metà del 1700 che diedero vita ad un autentico movimento di protesta operaia conosciuto con il nome di luddismo il quale quando si diffuse anche in Francia assunse addirittura le dimensioni di una insurrezione nazionale di stampo giacobino. Il luddismo deve il suo nome ad un giovane operaio inglese, Ned Ludd, il quale (almeno cosi narrano le cronache) distrusse materialmente un telaio in una fabbrica inglese ubicata da qualche parte nella regione delle Midlands. Il fatto lo innalzò a sommo rappresentante ed eroe per tutto il proletariato inglese tanto da diventare nel tempo una sorta di personaggio leggendario che avrebbe protetto e vendicato gli operai sconvolti dalle conseguenze della rivoluzione industriale al grido di people first (prima la gente). Al luddisti sono attribuite migliaia di operazioni di sabotaggio industriale tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800: la rivoluzione industriale aveva infatti apportato innovazioni tecniche che provocavano un grave senso di impotenza ed insicurezza nel proletariato operaio, oltre che accentuare la differenza sociale tra i padroni e gli operai.
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