9 dicembre forconi: Da Giappone, Ue e Usa gli allarmi per una tempesta sui mercati

lunedì 30 aprile 2018

Da Giappone, Ue e Usa gli allarmi per una tempesta sui mercati

Guardando a quanto accade in Giappone, in Europa e negli Stati Uniti sembra emergere un forte timore per un nuovo tsunami finanziario

Lapresse




















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«In un qualche momento nei prossimi cinque anni, raggiungeremo il nostro obiettivo di inflazione al 2%. Una volta raggiunto quel livello, cominceremo a discutere su come normalizzare gradualmente le condizioni monetarie… Per raggiungere l’obiettivo del 2% di inflazione, penso che dovremo continuare con una forte politica di allentamento monetario ancora per un po’ di tempo. Inoltre, il protezionismo, la contrazione della politica monetaria inaspettatamente veloce in alcune nazioni e le tensioni geopolitiche in Medio Oriente e Corea del Nord pongono dei rischi potenziali». Chi ha detto queste parole nel fine settimana, intervista da Sara Eisen di Cnbc? Haruhiko Kuroda, governatore della Bank of Japan. 
Signori, se avevate bisogno di un’ulteriore conferma non solo del fallimento totale delle politiche di monetizzazione del debito poste in essere come risposta alla crisi, ma anche del fatto che un nuovo tsunami è ormai all’orizzonte, eccola a voi. Perché non stiamo parlando di una Banca centrale come le altre, bensì del soggetto che negli ultimi quattro anni ha comprato anche l’aria, ha devastato il mercato obbligazionario sovrano più grande del mondo, eliminando dal trading qualsiasi soggetto che non fosse proprio la Bank of Japan, ha in pancia Etf e titoli azionari in quantità tale da prefigurare quella del Giappone come un’economia socialista e metà delle sue imprese come statali de facto e che, soprattutto, ha già rinviato di un anno, dal marzo appena trascorso a quello del 2019, l’orizzonte temporale statutario per raggiungere il mitologico 2% di inflazione. 
Ora, non un passante, ma il titolare di quella politica sciagurata, dichiara senza vergogna alla principale emittente televisiva economica del mondo che quell’orizzonte sia amplierà ancora, offrendo come orizzonte temporale quello un pochino vago dei prossimi 5 anni! Nel frattempo, avanti di questo passo, per quel giorno in Giappone non ci sarà più un solo asset o una sola security che non figuri come contabilizzata - non si sa a quale prezzo e in base a quale criterio valutativo - nel bilancio della Bank of Japan. Di fatto, Kuroda ha detto ciò che nessuno ha il coraggio di dire, pur essendo ancora troppo cauto per usare il nome reale: proseguire per altri 5 anni con acquisti diretti significa distruggere il concetto stesso di mercato, ma, soprattutto, spalancare le porte alla sola opzione che rende possibile un delirio monetario simile, l’helicopter money, ovvero lo stimolo espansivo perenne, sine die. 
Capito perché, nonostante tutto quanto sta accadendo, il Nikkei non barcolla e non deraglia? Perché c’è la certezza che la Banca centrale resterà prestatore di prima e ultima istanza praticamente senza soluzione di continuità, almeno fino a quando l’imponderabile non rimetterà a posto le cose, per miracolo. O, più facilmente, fino a quando lo schema Ponzi non andrà in testacoda, aprendo la porta a un’altra lost decade per l’economia nipponica. Questo grafico mi pare spieghi la situazione meglio di mille parole. 
E che dire della Bce? Anzi, della Vigilanza dell’Eurotower, la stessa che ha spaventato a morte le banche di mezza Europa, italiane in testa, con i suoi nuovi criteri di accantonamento rispetto ai non-performance loans a bilancio? Sembrava una riforma non necessaria ma addirittura vitale, un qualcosa per cui valeva la pena andare alla guerra con il presidente dell’Europarlamento, quell’Antonio Tajani che per giorni ha vestito i panni del difensore del nostro sistema bancario dalle angherie contabili e sui requisiti di quella Bce guidata anch’essa da un italiano. E cosa è successo l’altro giorno? La Vigilanza sarebbe pronta ad arrendersi, la nuova regolamentazione verrebbe accantonata a causa delle «reazioni negative della politica»: da quando una Banca centrale, a fronte di un problema che ritiene dirimente e strutturale, cede di fronte alle pressioni politiche? Oltretutto, a livello di Europarlamento, dove formalmente può contare sull’intransigenza della Germania, incarnata dalla Bundesbank in sede di board Bce: vuoi vedere che, al netto di tutte le criticità dell’economia tedesca di cui vi ho parlato negli ultimi giorni, il buon Jens Weidmann è diventato meno intransigente e puntiglioso? Difficile, infatti, trovare un’altra spiegazione a un dietrofront simile. 
Certo, formalmente la Nouy ha parlato di una discussione in merito che verrà affrontata in tempi rapidi e che porterà a una decisione definitiva entro giugno, quindi lasciando aperto uno spiraglio all’intransigenza, ma si tratta solo di salvare la faccia, un formalismo che sa di contentino: i dati macro europei parlano chiaro, altro che avvicinamento al picco della crescita, come dichiarato da Mario Draghi nel suo ultimo discorso al Fmi, qui siamo già ben oltre la fase massima del ciclo e i fondamentali sono in fase più che iniziale di deterioramento, soprattutto nelle economie più forti. Detto fatto, ciò che pareva indifferibile e inemendabile, diventa di colpo facoltativo, rimandabile e oggetto di discussione: qualcosa non va e, come sempre, il picco al rialzo del Libor è stato anticipatore di tensione nel settore bancario. 
Se si arriva a una marcia indietro simile, significa che alle porte - in caso davvero si fosse intervenuti con quella regolamentazione così stringente - c’era una crisi potenziale di liquidità capace di congelare del tutto l’interbancario e costringere la Bce ad aste straordinarie, nuove Ltro con il Qe ancora attivo: di fatto, come sanguinare nella vasca degli squali, i ribassisti si sarebbero fiondati a scommettere contro i titoli azionari più sensibili all’argomento, vedi gli istituti italiani e spagnoli in primis. Ma tranquilli, va tutto bene, la ripresa è sostenuta sostenibile e sincronizzata a livello globale. Ah, dimenticavo, si sta avvicinando al suo picco ma non c’è ancora da preoccuparsene. Volete l’ultima riprova rispetto a quanto le cose stiano andando bene? Pronti, ovviamente arriva dagli Usa, la patria della narrativa dell’ottimismo economico. 
Questo grafico è basato sui dati del Fitch Auto Abs Index, il quale ci dice che a febbraio le delinquencies oltre i 60 giorni relative a clienti subprime su acquisti di automobili sono salite al 5,76%, il massimo da 22 anni e peggio del dato raggiunto durante la crisi finanziaria del 2008. Ma come, in America la disoccupazione è circa al 4%, il petrolio - pur in risalita post-Siria - rimane ai minimi storici, i tassi di interesse sono ancora bassissimi per le medie storiche e gli indici di Wall Street fanno faville: com’è che ci troviamo di fronte a questa massa di clientela subprime, ovvero di gente in palese difficoltà di credito personale? Forse finora ci hanno venduto uno storytelling fasullo? 
 
Il meglio deve ancora arrivare, perché quanto sto per raccontarvi vi dice chiaro e tondo una cosa: non conta come stanno davvero le dinamiche, conta come le si fa percepire al pubblico. E, soprattutto, conta cosa si omette di dire. Il Wall Street Journal, nella sua infinita perfidia, due settimane fa si è posto una domanda, prendendo in esame la quantità di finanziamenti record erogata a clientela subprime da una finanziaria leader del settore, Exeter Finance: dove ha preso quei soldi, poi allegramente elargiti a persone fortemente a rischio? Guardate questo grafico e avrete una risposta: Exeter ha potuto beneficiare della “generosità” di due player di primaria importanza come Wells Fargo e Citigroup, i quali hanno prestato alla finanziaria in esame qualcosa come 1,4 miliardi di dollari per garantire credito al consumo a clientela subprime. 
 
Il grafico parla drammaticamente chiaro: tra il 2010 e la fine del 2017, i prestiti bancari verso Exeter e altre finanziarie non bancarie è salito di sei volte, raggiungendo il record di quasi 345 miliardi di dollari. A oggi, questa categoria rappresenta la maggiore fra I prestiti bancari verso aziende. Com’era la storiella della lezione del 2008 che era stata recepita? Com’era il fatto che non c’era più posto per l’azzardo morale nell’economia americana? 
E se quest’altro grafico ci mostra l’esposizione indiretta delle principali banche Usa verso prestiti subprime, qualche dato scritto può risultare utile: Wells Fargo è esposta per 81 miliardi, quando nel 2010 lo era per soli 13,4; Citigroup per 30 miliardi contro i 4,1 di otto anni fa; Bank of America 30 miliardi, a fronte dei 2,8 miliardi del 2010; JP Morgan 28 miliardi contro i precedenti 10,4 del 2010, mentre Goldman Sachs e Morgan Stanley sono esposte rispettivamente per 22 e 16 miliardi, mentre non sono disponibili i dati del 2010. Non parliamo di noccioline, qui. E, oltretutto, quel denaro è andato a finanziare prestiti dichiaratamente subprime, quindi a forte rischio di restituzione. Ma qui non si parla solo di automobili, bensì anche di credito al consumo in generale e, soprattutto mutui: quindi, se non paghi, scatta il pignoramento dell’immobile, un bene tangibile che diventa assets a garanzia di quel prestito. E a prezzo di saldo, come acquisto. 
 
Resta però l’interrogativo principale: al netto dell’azzardo e della natura dichiaratamente banditesco/speculativa dell’operazione, com’è che il mercato non ha sottolineato con attività di short selling, l’azzardo preso da quelle banche che hanno prestato liquidità a rischio? Semplice, quei prestiti subprime sono stati letteralmente “nascosti”, anzi “mascherati”, al mercato utilizzando il trucco più vecchio e semplice del mondo: Exeter e le altre finanziarie beneficiare dei prestiti bancari, infatti, fanno tutto ciò che è legalmente nelle loro facoltà per tenere quell’esposizioni fuori dai bilanci e, soprattutto, per cartolarizzarle al massimo. In questo modo - e in un déjà vuassoluto del 2008 - creano asset-backed securities subprime che vengono suddivise in trance e vendute come bond agli investitori, mentre le finanziarie detengono la parte più rischiosa del trade e subiscono le prime perdite. Allo stesso tempo, però, questo tipo di operazione suscita enorme interesse per la parte di cartolarizzazione con il rating più alto: a quel punto, Exeter utilizza quanto introitato per ripagare le linee di credito e questo crea le condizioni per nuovo business, fa crescere la compagnia e garantisce sempre maggiori prestiti alla clientela subprime, la quale nel frattempo è cresciuta ulteriormente. 
Le banche, nel frattempo, rimangono esposte unicamente per la linea di credito originale che hanno con Exeter e i suoi prestiti, di fatto garantendosi un lucroso business legato ai differenziali sugli interessi e alle commissioni. Ovviamente, finché i consumatori subprime in questione non cominciano a fare default a tassi maggiori di quanto messo in preventivo: che il primo grafico ci dica che questo è proprio quel caso? Ma tranquilli, va tutto bene, quando banche di quel livello si prestano a schemi Ponzi di questo genere, caricandoci sopra scommesse di miliardi (generosamente offerti a costo zero dalla Fed, tra l’altro) significa proprio che l’economia è sana e l’orizzonte sereno e sgombro da nubi. 
Credeteci, non costa nulla. E fa fare bella figura nei salotti buoni, dove potreste incontrare il Rampini, il Riotta o il Severgnini di turno. 
Fonte: qui

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