Lapresse
Nelle ultime settimane il prezzo del petrolio è salito molto, complice la tensione siriana. Sono tanti gli interessi intorno all'oro nero, sia politici che finanziari.
Quando uno pensa all'amministrazione di Donald Trump, principalmente, tende a concentrarsi sulle scelte di politica economica, partendo dalla maxi-riforma fiscale per arrivare al budget tutto deficit per il 2019 e alla guerra dei dazi con la Cina. C'è poi l'annosa questione del muro con il Messico e la diatriba con la Corea del Nord, risolta - a quanto pare - da un viaggio del capo della Cia e del nuovo numero uno del Dipartimento di Stato, Mike Pompeo, durante le vacanze pasquali. Solo ultimamente, dopo il raid missilistico degno di Una pallottola spuntata, il nome dell'inquilino della Casa Bianca viene associato in maniera chiara con la questione siriana. Eppure, questo grafico pare dirci il contrario: alla faccia dell'isolazionismo sbandierato in campagna elettorale e durante il discorso di insediamento, Donald Trump non ha affatto trascurato la Siria. E con esso, il Pentagono e i suoi missili.
Fino a oggi, però, la percezione dell'intervento statunitense era sfumata, forse perché sovrastata dalla presenza massiccia e roboante delle truppe russe, forse perché in ossequio alla strategia della cortina fumogena rispetto alle rogne interne, i fronti di politica estera statunitense hanno seguito la logica delle sliding doors, aprendosi e chiudendosi in base alle necessità del caso. Ora, però, qualcosa pare cambiato. E non negli equilibri interni siriani, tutti incentrati sul proxy israelo-iraniano più che su quello russo-statunitense, bensì sullo scacchiere che maggiormente interessa chi opera in quella regione: quello energetico. Questa mappa è di fondamentale importanza per capire la strategia mediorientale di Mosca, di fatto fortemente concentrata proprio sul fronte di gas e petrolio: come vedete, divide il mondo in tre aree strategiche e di idealistico c'è veramente poco. Ci sono produttori, consumatori e hub finanziari: ovvero ci sono domanda e offerta, di fatto la base del mercato e l'intermediazione finanziaria alla stessa, cioè il concetto di petrodollaro che proprio Cina, Russia e Iran intendono mettere in discussione, operando prima su contratti bilaterali che escludano il biglietto verde come benchmark e poi, nel caso di Pechino, attraverso i futures denominati in yuan.
Ovviamente, ciò che rappresenta l'interessa di Mosca è avverso a Washington e, come accade da sempre, l'Europa si ritrova in mezzo a questo conflitto di interessi contrapposti, basti vedere l'annosa questione della pipeline Nord Stream 2, il collegamento diretto fra Russia e Germania, bypassando l'Ucraina di fatto filo-statunitense.
Bene, questo grafico ci mostra come la domanda mondiale di petrolio, espressa in barili al giorno, non sia mai stata così forte e per così a lungo dall'inizio degli anni Settanta, un qualcosa che opera come base per una dinamica tanto attesa, quanto temuta in tempi di controllo dell'inflazione come driver dell'aumento dei tassi di interesse reali, in principal modo statunitensi: il barile a 100 dollari.
Chi ne sta parlando in maniera sempre più aperta è l'Arabia Saudita, dentro e fuori la sede Opec e lo fa, ovviamente, per una ragione chiara: proprio quel conflitto siriano il cui riacutizzarsi ha portato a questo: se da un lato, infatti, l'effetto combinato di traino del petrolio e crisi Rusal sull'alluminio ha garantito un rally delle commodities che ha sostituito quello azionario nel cuore di chi specula, dall'altro ecco che i soggetti maggiormente ottimisti - operando pesantemente al rialzo - sul petrolio sono proprio i fondi speculativi, cartina di tornasole di una dinamica che potrebbe essere strutturale come assolutamente strumentale. Se infatti la rottura di quota 75 dollari al barile post-raid in Siria ha fatto gridare qualcuno alla fine della congestione da eccesso di offerta a fronte di un mondo con crescita troppo bassa per bruciare sufficiente petrolio da far alzare le quotazioni, qualcuno si spinge oltre e vede il raggiungimento dei massimi di prezzo da 40 mesi a questa parte come un potenziale rischio di instabilità.
Se infatti finora i picchi del greggio erano stati sostenuti dalla produttività cinese, almeno negli ultimi 15 anni, adesso si comincia a parlare di political premium per giustificare l'avanzata nelle valutazioni, tanto da avanzare il dubbio che la crescita dello shale statunitense rischi di non essere sufficiente a tamponare il gap di domanda. Ma come, si è passati da un eccesso di offerta che ha schiacciato le valutazioni per anni al rischio di tempesta perfetta per mancanza di offerta senza passare per il via?
Sono bastati quattro missili andati a segno in Siria su una settantina sparati per liberare il mercato dal giogo del greggio in eccesso?
Ovviamente no. E proprio quella sovra-esposizione degli hedge fund ci dice due cose: primo, siamo in pieno attacco speculativo a fronte di una crescita mondiale in rallentamento. Secondo, attenzione alle dinamiche reali che potrebbero attivarsi dal 12 maggio prossimo, quando Donald Trump sarà chiamato a dire la sua parola definitiva sull'accordo nucleare con l'Iran, un qualcosa che dovrebbe avere a che fare con la sicurezza mondiale rispetto alla minaccia atomica, ma che, in prima battuta, significa operare sul regime sanzionatorio che potrebbe drasticamente ridurre produzione ed export petrolifero iraniano, liberando quote di mercato che l'Arabia Saudita sarebbe pronta a rimpiazzare con somma gioia.
E non è un caso che questa dinamica rialzista, così come l'attacco a Douma che è servito come falso pretesto per l'attacco contro la Siria, siano comparsi nel momento stesso in cui Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita aveva appena terminato il suo road-show mondiale in favore del gigante petrolifero statale Aramco, la cui privatizzazione con sbarco in Borsa rimane l'evento degli eventi nel comparto commodities. Annunciato, poi rinviato, poi sospeso a data da destinarsi, il collocamento della utility del Regno rimane il sogno inconfessato e inconfessabile di molti, statunitensi e francesi in testa. Non a caso, le due visite più roboanti e quelle in cui ha ottenuto un'accoglienza da padrone del mondo siano state quelle di bin Salman a Washington e Parigi: casualmente, la Francia ha mostrato il suo lato più bellicista e atlantista in occasione della rappresaglia Usa contro Assad e l'altro giorno Emmanuel Macron, in visita proprio alla Casa Bianca, ha concentrato l'intero discorso con Donald Trump sulla questione iraniana, di fatto parlando ancora una volta come rappresentante mondiale dell'Ue, senza che tra l'altro nessuno a Bruxelles abbia avuto da ridire.
E attenzione, perché nel silenzio generale, martedì il Financial Times riportava nell'inserto interno dedicato ai mercati, una notizia di capitale importanza: per la prima volta in assoluto, il comparto shale statunitense ha raggiunto un livello di utili cash tali da poter finanziare autonomamente l'apertura di nuovi pozzi e impianti di trivellazione.
Questo significa non solo affrancarsi dal giogo bancario dei finanziamenti, ma, grazie al free cash generato dalla loro operatività, poter dar vita a nuove esplorazioni e attività estrattive. Con un prezzo del petrolio a 53 dollari per giungere a breakeven operativo e generare free cash dai flussi di cassa, al netto del CapEx, ora gli operatori shale statunitensi possono godere del Wti in area 68 dollari, una manna dopo mesi e mesi di stagnazione e bacini a produttività ridotta. E questo, grazie all'impennata del prezzo generata dalla Siria e dal suo - di fatto - falso allarme globale.
A oggi, stando a dati di Saxo Bank, le scommesse speculative al rialzo sul prezzo del petrolio - long - hanno raggiunto i massimi da cinque anni a 1,09 triliardi di dollari, ma esiste anche un rovescio della medaglia, visto che l'impennata che fa felici i produttori, ha già spinto il prezzo della benzina negli USA a oltre 3 dollari al gallone, un qualcosa che venerdì scorso ha infatti portato Donald Trump a operare in base al suo atteggiamento bipolare, twittando che l'Opec con il suo operato mantiene i prezzi del petrolio «artificialmente molto alti». Boom, primo crollo delle quotazioni. Martedì, poi, è bastato che Emmanuel Macron facesse intravedere la possibilità di un nuovo accordo con l'Iran al termine del suo incontro con Donald Trump per stoppare per la seconda volta in cinque giorni il rally del greggio. Gli hedge fund, esattamente come nel 2008, stanno sbagliando scommessa? Come allora, i prezzi crolleranno sotto il peso della crisi finanziaria in arrivo?
Sono davvero tante, troppe le variabili al lavoro sul fronte petrolifero, ma una su tutte rischia di operare da vero catalizzatore: l'inflazione Usa. Se infatti il picco di questi giorni del greggio si è traslato in tempo reale in aumento dei prezzi alla pompa per gli automobilisti e gli autotrasportatori Usa, appare chiaro che una prosecuzione di questa dinamica non potrebbe che vedere la Fed costretta a tenerne conto nella sua scelta relativa all'intervento sui tassi di interesse, essendo la componente energetica fondamentale.
Quanto? Ce lo dicono questi grafici, dai quali desumiamo che per quanto Donald Trump twitti la sua rabbia contro l'Opec per i prezzi troppo alti, uno shock energetico sul portafoglio degli americani potrebbe tradursi nell'ennesimo rischio al ribasso per l'economia che la Fed sta aspettando come la manna per rallentare il suo programma di normalizzazione del costo del denaro.
Come vedete, a livello di inflazione reale - a fronte di dinamiche salariali pressoché stagnanti da trimestri per i lavoratori Usa, soprattutto per quelli a medio e basso reddito -, il costo dell'energia è quello che ha inciso di più negli Usa, erodendo potere d'acquisto. Ma, come mostrano gli altri due grafici, se l'extra-costo energetico va a intaccare la possibilità di spesa extra dell'americano medio, tassi di interesse tenuti strumentalmente bassi possono operare egregiamente come off-setting di questa dinamica molto pericolosa per la narrativa della ripresa economica a stelle e strisce, oltre che per i consumi personali già al palo.
E se lo shock petrolifero non fosse legato a timori geopolitici reali, né tantomeno alla fine dell'extra-offerta rispetto a una domanda che paga anche il netto ridimensionamento dell'impulso creditizio cinese (basti vedere i dati shock presentati martedì da caterpillar, vera cartina di tornasole della stato di salute dell'economia reale Usa), bensì unicamente a una fiammata speculativa auto-alimentata e auto-alimentante che serva unicamente da casus belli per la Fed, al fine di poter assumere una postura meno da falco e più da colomba rispetto al rialzo dei tassi, in attesa dello shock geopolitico reale che inneschi i prodromi di un nuovo Qe, leggi la questione iraniana? Gli hedge fund stanno per prendere una clamorosa e costosissima cantonata, come nel 2008? E se sì, quanto di questa scelta è strumentale a un do ut des con il potere politico? Ovvero, voi alimentate la spirale al rialzo con scommesse long da record e state tranquilli che quando ci sarà da salvare qualcuno, nessuno si scorderà di voi e del favore che avete fatto a governo e Fed?
Vi sembra un'enorme, intricata e pericolosa partita di scacchi? Lo è, perché i soggetti in questione non hanno solo una mano sul portafogli, hanno anche l'altra sul grilletto, in troppi e troppo caldi scenari mondiali. Oltretutto, non solo con interessi ultra-miliardari in ballo nel campo energetico, ma anche con la questione duplice riguardante il dollaro, ovvero il suo ruolo di moneta benchmark per gli scambi internazionali - petrodollaro in testa - e il suo costo, cioè la politica che adotterà la Fed rispetto agli stimoli per l'economia. La Cina resisterà alla tentazione di assestare un colpo micidiale alle aspettative statunitensi, colpendo in maniera assassini il comparto energetico e i suoi multipli folli a Wall Street, quando tutti sono con la guardia alta sul comparto tech e e-commerce? Di più, Pechino e Mosca resisteranno alla tentazione di svelare il bluff speculativo, distruggendo in poche sedute di trading quell'autonomia di free-cash operativo raggiunta dal settore shale Usa dopo trimestri di sofferenza?
Quando vi dico che stiamo vivendo un periodo destinato a diventare uno snodo epocale della storia moderna, non sto esagerando. Segnatevi la data del 12 maggio sul calendario, in base alle mosse Usa sull'Iran capiremo molte cose. Ammesso di non essere ancora troppo impegnati con le consultazioni per il nuovo governo…
Fonte: qui
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