Come vogliamo commentare i dati congiunturali europei resi pubblici ieri? Nel modo più banale possibile: tutto scontato. Almeno da chi non usi paraocchi e fette di soppressa per analizzare la realtà, focalizzando invece la propria attenzione sugli aspetti strutturali dei sistemi economici e sulle tendenze globali in atto. Che la crescita europea stesse rallentando era evidente da tempo e che, all’interno di questo quadro di rallentamento, l’Italia fosse una volta ancora il fanalino di coda era ugualmente evidente. Che questo rallentamento continui nei mesi a venire è ugualmente probabile a meno di positive sorprese che, rebus sic stantibus, non saprei da dove possano venire visto che anche la crescita USA – oramai nel sul nono eccezionale anno – sembra dare segni di stanchezza ai quali si aggiungono le incertezze che le erratiche politiche dell’amministrazione Trump.
I cicli economici esistono e le recessioni prima o poi arrivano: quel che conta è la crescita media nel lungo periodo, da un lato, e saper evitare che le fisiologiche recessioni non si trasformino in durature stagnazioni, dall’altro. La politica economica a questi due obiettivi dovrebbe sempre mirare, non ad altro. Queste considerazioni, ripeto, sono abbastanza banali e, non possedendo particolari doti divinatorie, credo opportuno fermarmi qui ed evitare ulteriori ed improbabili esercizi di previsione. Concentriamoci invece sulla situazione del nostro paese in questo quadro di rallentamento della crescita globale perché è questo il terreno che oggi ci interessa e sul quale si possono dire delle cose che, per ripetitive che siano, non appaiono scontate nel dibattito pubblico italiano.
Due preliminari, anch’essi abbastanza scontati. Come l’asfittica crescita post-2015 non fu merito dei governi Letta-Renzi-Gentiloni – le riforme, per piccole che siano, non hanno effetti immediatamente ma solo dopo svariati mesi ed anni – così il rallentamento, confermato ieri dallo 0,0% di crescita in Q3, non va attribuito alle demenziali politiche annunciate o intraprese da questo governo. Consiglio di evitare il manicheismo delle discussioni televisive secondo il quale i sistemi economici reagiscono istantaneamente ad ogni provvedimento che la politica prenda o anche solo annunci. Non funziona così e continuare a far finta che invece così funzioni serve solo a rendere impossibile un’obiettiva comprensione della situazione. Che, anno dopo anno e governo dopo governo, per il nostro paese si fa da due decenni sempre più seria.
È dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso che – superata la crisi finanziaria del ’92 e riportato sotto un minimo di controllo il deficit pubblico, acchiappando per la coda l’entrata nell’euro con la conseguente boccata d’ossigeno che la riduzione del costo del debito ci concesse – ogni singolo governo continua a fare finta che le questioni strutturali non esistano e che si possa ricominciare a crescere in maniera sostenuta solamente aumentando la spesa pubblica. Abbiamo gettato nella pattumiera della storia due interi decenni, arrivando nel 2011 di nuovo al bordo dell’abisso e ricominciando, poi, a cercare di fare maggior debito per redistribuire a questo o quel gruppo d’interesse a seconda che a Palazzo Chigi sedesse un esponente del centro-destra o del centro-sinistra. Di cambiamenti strutturali non se ne sono fatti ed il tema è persino scomparso dal dibattito pubblico. Gli unici due tentativi di riforma strutturale – rispettivamente di Dini e Fornero, sulle pensioni – sono stati il primo evirato dall’azione sindacale che ne ha posticipato alle calende greche gli effetti ed il secondo dalla rabbia populista che ha condotto al potere questo governo. Il risultato sono stati due decenni di declino economico-sociale, interrotto da brevi ed asfittici rimbalzi di cui quello che ora abbiamo avuto conferma essere terminato è l’ultimo esempio. Questa la vera malattia italiana, non lo spread che ne rappresenta solo la febbre come misurata dal termometro finanziario.
Il “governo del cambiamento” oggi in carica questo doveva cambiare e questo non sta cambiando ma sta anzi peggiorando: il totale e cieco disinteressamento al problema della crescita economica e delle condizioni strutturali che la rendano possibile. Le quali continuano a non esistere e di cui assolutamente nessuno – né al governo, né all’opposizione, né fra le parti sociali – sembra minimamente preoccuparsi. Questo è molto più grave dei pur sconsiderati tentativi di scontro con l’Unione Europea che il governo compie ingaggiando assurdi bracci di ferro su un punto addizionale di deficit per spese e condoni clientelari che comprino voti nel maggio 2019.
Questo governo non è il governo del cambiamento perché non ha né l’intenzione né la capacità intellettuale e politica di rompere il ciclo vizioso di stagnazione-assistenza-debito-crisi finanziaria che sta strozzando il paese da decenni. Anzi, continua a perseguire esattamente le stesse politiche dei suoi predecessori aggravandole e portandole agli estremi di insensatezza e dilettantismo a cui stiamo assistendo. Il governo del cambiamento si è rivelato, come previsto, il governo del peggioramento perché peggiora, lungo ogni possibile dimensione, le già dannose politiche adottate dai suoi predecessori. Questo il messaggio che i dati congiunturali pubblicati ieri ci inviano: il declino si aggrava e la responsabilità del peggioramento è tutta nostra perché questo governo, ed i precedenti, ce li siamo eletti noi italiani.
Da Linkiesta
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