In questi tempi il dibattito politico è molto acceso sulla fuga dei cervelli, quel fenomeno per cui centinaia di migliaia di giovani stanno lasciando il Paese in cerca di migliori fortune. C’è chi li apprezza perché dimostrano che il sistema educativo funziona al pari, o al meglio, della concorrenza, e c’è chi li critica perché abbandonano la patria a chissà quali sciagure. C’è chi li paragona ai bisnonni che emigravano con la valigia di cartone e chi li continua a dipingere come dei viziati mai contenti di quanto hanno.
Fuga dei cervelli: differenze tra Italia e UK
Per me, emigrato due volte e abituato al pay peanuts, get monkeys anglosassone, è molto divertente vedere come ci sia tanto spreco di fiato, carta stampata e post sui social media, quando poi il nocciolo del problema dovrebbe essere chiaro a tutti. Se un neodiplomato/laureato, senza santi in paradiso che gli trovino un lavoro remunerato o lo mantengano, si vede costretto a paghe da fame che neanche si qualificano come “stipendio”, fare la valigia e trovare fortuna all’estero è sicuramente una valida opportunità.
Questo feci io all’inizio degli anni Novanta, quando la congiuntura era negativa e trovare un lavoro in azienda era difficile. Fu così che ebbi modo di lavorare in UK per una nota multinazionale di pneumatici, e avviare un percorso di crescita professionale molto più rapido di quanto capitava agli amici rimasti in Italia, e che mi consentì di rientrare in patria molto avvantaggiato rispetto a chi non era mai uscito.
Una prima riflessione su ciò che manca al modo di lavorare, e specificamente al modo di introdurre i giovani al mondo del lavoro, è che nei paesi anglosassoni non si investe adeguato tempo e sforzo nel plasmare la pazienza e l’umiltà del giovane. Potrebbe quasi dispiacere, ma in UK non devi sottometterti per anni a qualcuno prima che ti venga dato un progetto importante, e infatti non cresciamo con le adeguate dosi di pazienza e rispetto per gli anziani. Proprio questo difetto nel rapportarmi con “i vecchi” ha poi causato conflitti al mio rientro in Italia, ma sono felice della loro risoluzione. E per giunta in UK non ci insegnano il senso dell’umorismo.
Dall’UK agli USA
Vent’anni dopo, nel 2010, sono riemigrato alla volta degli USA dove dopo qualche anno ho deciso di fare il salto da dipendente a imprenditore, avendo quindi modo di gestire tutti gli aspetti professionali possibili. Posso testimoniare la notevole differenza culturale tra USA e UK, dove il secondo per tutta una serie di aspetti sociali e culturali è molto più vicino all’Italia, a riprova dell’esistenza di una vera cultura europea; ma dal punto di vista professionale vediamo un’ulteriore differenza rispetto a quanto siamo abituati in Italia. Qui la persona si concentra a fare particolarmente bene una cosa, e solo quella. La burocrazia è per molti aspetti anche più complessa di quella nostrana e sicuramente molto più rigida, e non sentiamo parlare di “flessibilità” come di una dote di pregio, ma spesso come il suo opposto. Questo è un ulteriore motivo per cui gli italiani tendono a far particolarmente bene in America: perché generalmente abbiamo la flessibilità mentale di considerare almeno due punti di vista, di pensare ad almeno due strade per arrivare allo stesso obiettivo.
Un vantaggio secondario della forte onda di cervelli in fuga, e del generale apprezzamento professionale degli italiani in America, è che tutta una serie di elementi che prima scarseggiavano ora sono disponibili in abbondanza. È molto facile interagire con folte comunità di italiani all’estero, mantenendo quindi un contatto stretto con le nostre radici e fare in modo che i nostri figli continuino quel rapporto di italianità che ci distingue. Allo stesso modo è facilissimo trovare qualsiasi elemento della cucina italiana, ben fornito da Eataly e altre multinazionali solidamente presenti in loco. Quindi posso confermare che pizza, caffè e prosciutto non ci mancano.
Per altro verso, qui in USA sono così scientifici nel loro studio dei rapporti personali che ci insegnano come occorrano 50 ore per conoscere superficialmente una persona (acquaintance) e ne servano invece 250 per arrivare ad un vero rapporto di amicizia (friendship). Per noi italiani pare assurdo dover controllare quante ore spendiamo col prossimo, siano esse pause lavorative, o uscite nel tempo libero, o altre occasioni. Ma questo viene proprio dalla “necessità” americana di dare una ricetta per qualsiasi cosa, da come si compongono i temi a come si devono scrivere i CV o i business plan, fino a ciò che si deve dire in una cold call per aprire un nuovo contatto commerciale.
Che cosa manca a chi?
Di fronte a questa notevole rigidità mentale non possiamo che soffrirne: proprio in questi giorni, ad esempio, sto aiutando un altro cervello, che dopo esser fuggito al MIT di Boston ha pensato di rientrare a Firenze. Da post-grad (ovvero chi ha terminato la laurea magistrale ma non ha ancora iniziato il dottorato di ricerca) al MIT aveva un budget di spesa di $36,000 annui, ovvero: compilando gli opportuni moduli entro le scadenze previste poteva spendere in autonomia quella cifra per le proprie ricerche. Tristissimo per questo livello di burocrazia, è rientrato in Italia e ha visto con i suoi occhi professori di ruolo che abitualmente pagano di tasca propria anche toner e carta. Dopo qualche mese di testate contro i capitelli locali, ha pensato che forse fosse meglio rientrare da questa parte dell’oceano e organizzare il proprio sviluppo professionale con un’ottica internazionale.
In conclusione, senza riprendere riferimenti che ho già dato in articoli precedenti alle differenze culturali tra i diversi paesi, posso dire che per chi è all’estero manca quella dose di caos creativo che in Italia mettiamo in evidenza per uscire da problemi apparentemente difficili, o anche per inventare soluzioni nuove a problemi ancora da inventare, creando un mercato. Questo perché all’estero il rispetto della burocrazia è borderline fondamentalista-violento (consiglio i testi di David Graeber sul tema), e questo a sua volta riduce la fantasia che si trova in ambiente professionale. Al tempo stesso, da persona che è emigrata due volte, rientra in Italia due volte all’anno e ha lavorato in parecchi Paesi in tutti i continenti, voglio chiudere con l’estrema banalità: ogni Paese ha i suoi pro e i suoi contro, e vale la pena girare per conoscerli.
Da Senzafiltro
Fonte: qui
Chi offre lo stipendio più basso?
Predestinati fin dalle aule universitarie ad avere uno stipendio maggiore degli altri sono gli studenti che scelgono un’università privata, la Bocconi in testa, e che frequentano le lezioni al nord – possibilmente facoltà scientifiche o ingegneria. Chi segue le lezioni di un’università privata guadagna il 18% in più rispetto a chi ha studiato in un’università statale e il 6% in più rispetto a chi ha frequentato un politecnico. Fermarsi alla triennale non è una scelta conveniente, almeno per lo stipendio: chi investe nella propria formazione universitaria, arrivando fino al master, in futuro può ritrovarsi anche 17.000 euro lordi di guadagno in più all’anno, ma deve sapere in anticipo che a seconda dell’ateneo scelto serviranno tra i tredici e i vent’anni di lavoro per veder rientrare le somme spese negli anni in cui si è frequentata l’università.
Non sempre chi più studia più guadagna
Appena laureati, rispetto a chi ha solo il diploma, gli stipendi sono quasi sullo stesso livello, ma dopo i 35 anni tutto cambia e si inizia a vedere la differenza di stipendio: chi ha un livello più alto di istruzione riesce a guadagnare di più. Chi ha la laurea magistrale, rispetto alla triennale, ha una retribuzione lorda annua di 12.200 euro superiore; se poi arriva al master di secondo livello, si sale a oltre 17.000 euro lordi annui percepiti in più. La formazione universitaria garantisce anche l’accesso ai livelli più alti di un’azienda: il 54% dei dirigenti e dei quadri aziendali hanno una formazione universitaria.
Tra le migliori facoltà che “predestinano” a stipendi maggiori vi sono scienze biologiche, giuridiche e fisiche; invece facoltà come ingegneria chimica e dei materiali, scienze chimiche e scienze economiche, nel corso del percorso occupazionale determinano un significativo incremento dei livelli retributivi. A dirlo è il rapporto 2018 University report, dell’osservatorio JobPricing, in collaborazione con Spring Professional, che analizza la spendibilità futura del titolo di studio, in termini di retribuzione ottenuta nel corso della carriera lavorativa.
Tuttavia l’Italia, secondo i dati OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), ribalta l’equazione che livelli maggiori di istruzione portano ad avere più possibilità di lavoro: i diplomati professionali hanno un tasso di occupazione del 68%, i laureati del 64% e, a parità di qualifica, un laureato non guadagna molto più di un diplomato. L’eterno dilemma tra facoltà scientifiche e umanistiche in futuro sarà probabilmente superato dalla necessità di combinare insieme competenze tecniche elevate con le cosiddette abilità personali, sociali, comunicative e gestionali che aiutano nello svolgere il proprio lavoro.
Spiega Alessandro Fiorelli, amministratore delegato di JobPricing: «Quello che divide nel mercato retributivo è la competenza. Laddove sono necessarie competenze tecniche elevate, c’è una retribuzione più cospicua; in settori meno professionali, dove servono lavoratori meno qualificati, con meno know how, si può avere una percentuale impiegata di laureati alta in mansioni a bassa qualifica. Quello dei livelli retributivi è un tema delle sfide vere. Se resta oggettivo che un’azienda che ricerca profili con alte competenze tecniche e tecnologiche si indirizza prevalentemente verso un certo tipo di laureati, le soft skills umanistiche saranno sempre più importanti. Andranno a impattare molto nelle future ricerche del personale. Sintetizzando potremmo dire che in futuro serviranno ingegneri umanistici».
La scomparsa degli operai
Un altro dato che emerge dall’analisi del mercato del lavoro è che, negli ultimi dieci anni, secondo i dati Istat sono scomparsi oltre un milione di posti di lavoro operai, trend che continuerà, secondo i dati OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) con la cancellazione di un altro 10% di posti simili nelle fabbriche, mentre un altro terzo del totale sarà riorganizzato e trasformato; tutto questo alla luce dell’innovazione digitale e tecnologica che investirà il mondo manifatturiero e renderà l’apporto manuale sempre meno preponderante.
Sempre meno operai e sempre più impiegati dunque, con il confine tra lavoro manuale e intellettuale che diventerà sempre più labile. Nello scenario europeo secondo i dati OCSE, l’Italia è al nono posto per livello di retribuzione tra i quindici paesi della zona Euro, con una retribuzione media annua lorda di 30.642 euro, con un distacco di 5.000 euro dal paese immediatamente precedente, l’Irlanda. «Rispetto alla posizione dell’Italia – spiega Fiorelli – per i livelli retributivi considerando lo stipendio netto il livello sarebbe più in basso, quasi agli ultimi posti, in quanto c’è una tassazione molto elevata. Nella classifica generale saremmo ancora più in basso, meno competitivi rispetto alla maggior parte dei paesi della zona euro».
Nel mercato del lavoro italiano, secondo i dati ISTAT, i livelli di vertice come i dirigenti sono l’1,4%, e solo il 4,3% sono inquadrati come quadri. Il resto, poco meno del 95% del totale, sono operai o impiegati, con differenze notevoli di stipendio tra un livello e l’altro. Secondo i dati elaborati dall’osservatorio JobPricing un dirigente ha una retribuzione annua lorda oltre quattro volte maggiore di un operaio, oltre tre volte un impiegato e circa il doppio rispetto a un quadro. In media lo stipendio mensile netto di un quadro è tre volte quello di un operaio. Considerando uno stipendio di dodici mesi e la tredicesima, un operaio in media prende 1475 euro netti al mese, un impiegato 1681, un quadro 2625, un dirigente 4542.
Sempre secondo i dati elaborati da JobPricing, in Italia sono soltanto il 6,5% i lavoratori dipendenti che percepiscono una retribuzione lorda annua maggiore di 40.000 euro; oltre il 50% si colloca nella fascia tra i 23.000 e i 31.000 euro, e ben il 66% dei lavoratori italiani prendono meno di 31.000 euro. Lavorare in aziende di piccole dimensioni, vivere nelle regioni del Sud e avere ruoli ad alta intensità di lavoro manuale predispone a uno stipendio meno elevato. Settori dove c’è un numero maggiore di operai, come l’agricoltura e i servizi turistici, hanno uno stipendio medio più basso, mentre nei servizi finanziari, dove le posizioni di operaio sono quasi inesistenti, il livello di retribuzione è notevolmente più alto, con uno scarto di quasi 20.000 euro annui.
Lo stipendio e la carriera, il caso del settore turistico
Secondo il rapporto sui salari di JobPricing anche tra i livelli di vertice, nel percorso di carriera, passando da impiegato a quadro lo stipendio annuo lordo aumenta di ben 23.000 euro, mentre la differenza tra il manager che ha la responsabilità di risultati operativi è quasi del doppio, rispetto a un semplice “colletto bianco”, che comprende le altre posizioni di lavoro intellettuale, con un vantaggio retributivo di 40.000 euro annui. Spiega Alessandro Fiorelli: «È naturale che nelle grandi imprese la retribuzione sia maggiore, rispetto alle piccole e medie imprese, perché le prime hanno sia maggiori possibilità di spesa sia la struttura per la caccia ai talenti. Inoltre le multinazionali hanno strumenti di analisi di mercato e misurazione molto più forti. Su questo aspetto, aziende più piccole vivono alla giornata».
Il rapporto Salary Ratings 2018 di JobPricing mostra le differenze medie di stipendio tra lavoratori intellettuali di diversi settori. Al top della classifica per stipendio annuale c’è il settore farmaceutico e biotecnologie con una media annua di 44.389 euro, seguito sul podio dal settore petrolifero e carburanti con 44.389 euro e da quello bancario con 42.902 euro. A fondo classifica, con 30.000 euro medi annui, la grande distribuzione e il commercio, la consulenza legale, fiscale e amministrativa, i servizi alla persona. Appena una spanna sopra i 30 mila euro segue il settore dell’arte e intrattenimento, mentre non sfondano il tetto dei 30 mila euro annui turismo e viaggi e il settore hotel, bar e ristorazione.
Il turismo, ad esempio, è uno dei settori più importanti dell’economia italiana. Nel 2017, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale del Turismo, il contributo totale del settore all’economia italiana è stato di 223,2 miliardi di euro, il 13% totale del Pil nazionale. Nel 2018 il settore viene stimato in crescita dell’1,8%, con il valore economico totale che dovrebbe arrivare a 227,3 miliardi di euro. I lavoratori del settore turistico sono 3.400.000 in Italia nel 2017, pari al 14,7% degli occupati totali. La crescita del valore complessivo del settore non ha avuto al momento ripercussioni evidenti sui livelli retributivi dei lavoratori intellettuali, a fondo classifica nel rapporto dell’osservatorio JobPricing.
Da senzafiltro
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